Io sono nato in una casa fatta di catrame
Negli anni in cui fumare incinta non faceva alcun male
Il fumo entra nei polmoni e nei polmoni rimane
Come il tumore che vorrebbe uccidere mio padre
Inizia con una voce nuda il nuovo album dei The Zen Circus, quattro versi urlati senza alcuna musica di sottofondo che racchiudono tutto quanto: il vissuto, le riflessioni e i pensieri che rappresentano il filo conduttore di questo undicesimo disco. Scrivere di questo album non è semplice perché è facile snaturarlo ed è fin troppo forte la tentazione di piegarlo alle necessità del momento presente più del necessario. Il principale motivo di questa difficoltà risiede nel fatto che nonostante sia stato scritto prima dell’avvento della pandemia, L’ultima casa accogliente parla incredibilmente del mondo odierno. La prima traccia Catrame più di tutte.
In un momento storico come quello attuale dov'è necessario adattarsi e districarsi tra coprifuoco e lockdown, si devono rivalutare i paradigmi sui quali si fondavano le nostre certezze. Ed ecco che quella stessa casa di cemento che abbiamo amato quando ci riparava dal freddo, che abbiamo benedetto quando non ci è crollata sopra la testa dopo l’ennesima scossa, è diventata una prigione. Non si riesce più a notarne il mobilio e l’intonaco, ma solo le crepe ed il cemento che la fa restare in piedi. Lo stesso catrame soffocante delle sigarette al quale non si riesce a rinunciare ma che piano piano si accumula nei polmoni.
Quindi cosa è rimasto della libertà? C’è mai forse stata una libertà vera e propria? La realtà è che «siamo costretti dentro un corpo e dentro al tempo» e il cordone ombelicale ne è la dimostrazione, fin da quando veniamo al mondo. L’ultima casa è il nostro corpo da riscoprire e accettare: come quando si lancia un sasso in uno stagno, quando tutto si placa e i cerchi nell'acqua scompaiono e rimane solo il nostro viso, la faccia dell’unico vero nemico. Noi stessi.
L'amore è un sasso che lanci in uno stagno
Il cerchio si allarga e se guardi bene al centro
Sei tu, sei tu e chi può odiarti di più?
Quando ci si guarda dall’esterno ci si rende conto che il vero antagonista della storia siamo noi stessi. È quanto accade in Cattivo, dove lo scrutatore è allo stesso tempo l’oggetto osservato. Il microcosmo costituito da marciapiedi, città, auto e persone che litigano, diventa la scenografia del film della vita di cui si è protagonisti e contemporaneamente spettatori. È necessario talvolta uccidersi, uscire dal proprio corpo e giocare a fare Dio per poter comprendere se stessi.
La libertà, citata nel ritornello dell'opening track, e l'autodeterminazione sono protagoniste in Bestia rara, brano centrale del disco e quanto mai attuale. Una giovane studentessa sceglie di abortire attirandosi le maldicenze e le crudeltà del suo piccolo paese. (Sorge spontaneo il bisogno di chiedersi se Appino abbia il dono della preveggenza dato che la questione in Polonia è recentissima e quindi molto posteriore alla scrittura del brano). La madre piange e non comprende la sua scelta, quella di una bestia, di una puttana.
In paese venivo vista come una bestia rara, non avevo amiche, facendo questi discorsi dicevano che ero una puttana…e ho deciso di andar via di casa
La voce femminile presa in prestito dal documentario di Antonello Branca “Storia di Filomena e Antonio: gli anni ’70 e la droga a Milano” (1976) racconta il probabile finale della vicenda narrata e fa da preludio agli ultimi due minuti strumentali durante i quali un ripetitivo riff di chitarra soffoca la spensieratezza della tastiera che accompagnava fin dall’inizio il racconto della giovinezza della protagonista. Bestia rara gioca ancora sulla riscoperta del corpo, qui quello femminile, ma involontariamente è anche denuncia, un ribadire l’importanza di un diritto che ancora oggi per qualcuno resta difficile da comprendere.
Non poter uscire comporta noia, suscita pensieri e stimola i ricordi. «Tutto ad un tratto mi sono ritrovato un oceano di tempo dentro la memoria» canta Appino nell’unica canzone scritta dopo l’inizio della pandemia. La sua vita è descritta attraverso le mura che lo circondano, la casa che col tempo è cambiata, si è allargata ed è cresciuta di pari passo col suo corpo. Il ricordo del passato comporta soprattutto fare i conti con se stessi, paragonare il presente al futuro che sognavi e che adesso puoi solo reimmaginare attraverso la memoria.
Ricordo il mio futuro
tutte le notti sotto le coperte
chiudevo gli occhi e me lo immaginavo
Mentre il presente cola fra le dita
come acqua, ma tanto ormai è passato
Al ritornello rock di Come se provassi amore segue una ballad con protagonista il pianoforte che evolve e diventa pura energia negli ultimi minuti. Non è uno dei pezzi più forti e sentiti, un esame di coscienza per negazione, un canto di speranza per ovviare al malessere, a quell’impossibilità di cambiare quelle scelte per le quali si prova ancora rimorso. Il pathos aumenta col passare dei secondi, l’ingresso della batteria fa da sfondo all’accettazione di sé, «lascia che le navi escano dai porti / lascia che ti vengano a trovare i morti», le chitarre esplodono insieme alla voce graffiante quando il testo si fa preghiera:
Salvami dai mostri, dal mondo
salvami da quello che voglio
il male profondo
dalla morale, dall’obbedienza
dalla normalità fatta sentenza
dalla vergogna, dall’efficienza
la sicurezza, la sufficienza
Essere prigionieri del tempo significa anche esserne protagonisti inevitabili e allora prima o poi è impossibile, come Lot, resistere alla tentazione di voltarsi indietro per constatare il «solco» scavato dai nostri passi. Ciao sono io sono le parole con cui Andrea Appino si presenterebbe alla propria madre ventenne che vede in una foto, in un viaggio indietro nel tempo come in Ritorno al Futuro. Le medesime parole del ritornello, le stesse rivolte al padre in ospedale che prima voleva morire e adesso vuole solo guarire. Guardarsi alle spalle per rinsaldare la propria anima, come chi nella malattia scopre di non essere mai stato così tanto attaccato alla vita. Passato e presente si confondono su un tessuto musicale leggero e ironico vicino al rythm and blues.
Ciao sono io è un omaggio alla strada percorsa dai genitori, al chicco di grano che si sono lasciati dietro e che a sua volta segnerà un nuovo sentiero. Bellissimo il bridge con la chitarra elettrica in distorsione che anticipa il ritornello dove per i primi versi la voce si fa graffiante e ricorda vagamente (e nostalgicamente) Rino Gaetano.
Prima ancora del corpo, delle quattro mura che circondano la nostra intimità, la prima casa accogliente per ogni essere umano è il nostro pianeta. 2050 è un brano ambientato in un mondo post apocalittico, molti morti dopo e negli Stati Uniti del Mondo, che ha come protagonista una donna sopravvissuta alla catastrofe. A lei spetta fare il resoconto degli errori compiuti dall’uomo capace di fare e disfare:
Abbiamo fatto tutto, non abbiamo fatto niente
scisso gli atomi di una conchiglia
vinto la morte, perso la meraviglia
strappato foreste come fili d’erba
abbiamo dato un nome ad ogni stella
fatto l’amore senza capirne nulla
condannata la pace ad essere anche guerra
cambiato il corso dell’acqua corrente
abbiamo fatto tutto, abbiamo fatto niente
La sorprendente batteria di Karim è una costante che dà ulteriore risalto all'alternanza del ritmo sostenuto delle strofe con il ritornello più aperto e lento, fino alla sopracitata strofa finale che dona lo slancio decisivo al pezzo lasciando ancora più spazio alla ruvidezza della voce di Appino.
L’ultima casa accogliente è il pezzo che osa di più e che convoglia al suo interno numerose suggestioni ed influenze. La voce filtrata da effetti elettronici del ritornello fa coppia con quella cruda e sofferta che la sovrasta nell’ultima strofa e che urla a ripetizione: «Nessuno mi capisce, ma non è colpa mia / io cosa posso farci, nessuno mi capisce». Dopodiché un synth inaugura la lunga conclusione strumentale, a metà strada tra Radiohead e Stereophonics. Come un’onda, in un crescendo continuo, raggiunge l’apice per poi afflosciarsi nella propria schiuma, così questa ultima canzone dopo essere stata lasciata libera di salire, a poco poco si fa quieta lasciando spazio al solo pianoforte. Il suono nudo e privo di effetti del piano è la chiusura del cerchio iniziato con l’incipit di Catrame: l’ultima casa accogliente sta in noi stessi, nella semplicità di un amore e di un altro corpo come il nostro con il quale entrare in contatto.
Il pezzo che a mio avviso più di ogni altro rappresenta la cifra tematica, stilistica ed emozionale dell’album è Appesi alla Luna, brano ispirato e ambientato in una Lisbona notturna che qui tanto somiglia alla San Pietroburgo di Dostoevskij. Un arpeggio semplice quanto efficace accompagna una passeggiata sotto la luna per le vie della capitale portoghese, città viva e colorata di giorno ma incredibilmente calma di notte. La luna meta dei sogni, consolatrice silenziosa, simbolo di progresso negli anni Sessanta, divenuta col tempo disillusione. Eppure, è impossibile resistere al suo fascino, immaginare di poterne calpestare il suolo pur col rischio di perdervi il senno, soprattutto in tempi come questi in cui dove è sempre più complicato afferrare il senso della vita, qualora essa ce l’abbia mai avuto, e persino il cielo ricorda una prigione:
Il cielo è un tetto sopra le case
Quindi alla fine non usciamo mai
Nel videoclip della canzone è l’equilibrio il principio generale che governa il mondo distopico nel quale sono immersi i tre membri della band. Ogni infrazione, seppur banale come rovesciare una torre di Jenga, comporta l’intervento delle guardie. Esse indossano una maschera da panda, animale simbolo dell’equilibrio (il manto bianco e nero ricorda l’opposizione yin e yang) e dell’elevazione dell’anima.
Un frammento di Fernando Pessoa, tratto da Il libro dell’inquietudine, recita:
NENIA
Noi non ci realizziamo mai.
Siamo due abissi – un pozzo che fissa il cielo
Stare appesi alla luna significa rimanere in equilibrio tra il pozzo infinito e oscuro dell’anima e il sogno alto e irraggiungibile che a volte illumina la strada. Quella della luna è però luce riflessa e può trarre in inganno. Come per il sognatore de Le notti bianche, la realtà può rivelarsi non all’altezza del sogno, per questo è forse meglio rimanere a metà, semplicemente appesi alla luna senza mai toccarla, pur avendo l’impressione di non realizzarsi mai, di essere accendini senza sigarette. La nenia dei The Zen Circus recita:
Siamo accendini senza sigarette
Siamo fame e sete
Siamo dei gradini
Fra le salite e le discese
Di un milione di miliardi di destini
Appesi alla luna
Sopra Lisbona
L’ultima casa accogliente è un disco incredibilmente figlio dei tempi che corrono e ciò è sorprendente perché, ad eccezione di Come se provassi amore, è stato scritto prima del Covid. Per questa capacità inaspettata di parlare del presente questo album è un piccolo gioiello, quasi un concept da un certo punto di vista, qualcosa di cui si sentiva il bisogno. Ancora una volta emerge in maniera luminosa la grande abilità nella scrittura di Andrea Appino, come sempre oscillante tra autobiografismo e storytelling.
Questo undicesimo lavoro tuttavia non è solo cantautorato, ma anche ricerca di suoni nuovi ed inconsueti che la band fonde sapientemente con i propri tratti distintivi. L’ultima casa accogliente è studiato e all’istintività folk-rock del passato sostituisce per gran parte dei trentotto minuti uno stile molto vicino al progressive.
Qualcuno potrebbe lamentarsi dell’eccessivo tono compassato e riflessivo, della mancanza di pezzi veloci, aspri e rockeggianti, ma alla fine che importa? Quello che conta è che a distanza di due anni dal precedente e apprezzato Il fuoco in una stanza, i The Zen Circus si confermano come uno dei capisaldi del panorama musicale italiano. E noi ce li teniamo stretti.