The New Abnormal The Strokes 10 aprile 2020
8.2

Pur ammettendo che, a conti fatti, il tempo tenda ad essere sempre galantuomo, dimenticare invece che la nostalgia sia per antonomasia canaglia potrebbe essere rischioso, forse pure dannoso, nel mentre ci si avvicina ad una qualsiasi opera di ritorno sulle scene. Così è stato anche per il consenso generale a riguardo di The New Abnormal, la tanto attesa ricomparsa degli Strokes in formato long play: da ormai qualche giorno pareri discordanti (seppur una parte in netta minoranza) si accavallano sulla rete, incalzati da anni di aspettative, smentite, cenni e riconferme varie, comunque prevedibili dato il calibro della band in questione.

Tanto quanto sarebbe empio e sacrilego rinnegare i cinque newyorkesi, a cui si deve senza dubbio la salvezza di un genere e la nascita dei filoni derivati, così anche giudicare questo loro ultimo disco esclusivamente in relazione ai precedenti risulterebbe sbagliato e carente di un’obiettività quanto più possibile critica del singolo cd, nei limiti chiaramente della soggettività umana. A mio avviso un noioso, ma necessario, preambolo per sbarazzarsi in questi primi momenti della recensione di quello che all’estero chiamerebbero “l’elefante nella stanza”, ossia l’innegabile verità che il sesto album degli Strokes suoni come un mélange o un recap dei loro primi tre lavori con qualche accenno ad Angles del 2011 ed anche a Phrazes for the Young, quest’ultimo probabilmente secondo le idee di Casablancas mentre gli altri erano in pausa pranzo.

Ma l’assonanza stilistica è davvero così condannabile? In altri contesti forse, ma qui pare voluta e, come il Basquiat in copertina, simbolo dell’estro jazz, si erge per approfondire e rinnovare ad oggi i sound che furono di un certo “pop” rock, ciondolando tra gli 80s e gli anni 2000, anziché delineare un proprio sentiero distante dai percorsi comunemente battuti, un compito a cui di conseguenza sono consacrati invece i Voidz. La discussione viene quindi traslata sulle singole tracce che compongono il disco, partendo in maniera macroscopica dalla produzione che permea il tutto: dal canto suo, questa è ineccepibile, merito del lavoro svolto dal leggendario Rick Rubin, apparentemente un must in ogni comeback che sia degno di questo nome. Gli strumenti suonano infatti altamente compatti e facilmente distinguibili allo stesso tempo, riuscendo a dare uno spazio preciso alla voce di Casablancas, che mai prima d’ora aveva avuto un tale nitore cristallino malgrado i sempre presenti strati di filtri, falsetti a sorpresa e atteggiamenti di distacco.

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Dopo anni di silenzio, The New Abnormal alza allora il sipario con una rapidissima manciata di colpi di drum machine per poi cedere il passo ad un’avvolgente sequenza di accordi, fulcro narrativo dell’iniziale The Adults Are Talking, climax rappresentativo del timbro sonoro odierno degli Strokes ed egemone di una prima metà album decisamente incisiva, la cui unica “debolezza” è paradossalmente figurata dai toni appunto più delicati della seconda Selfless, traccia soverchiata dai colossi che la precedono e seguono. Tra quest’ultimi compare Brooklyn Bridge to Chorus, una scheggia sonica alimentata ad eccentrici synth in grado di trascinare l’ascoltatore in un folle viaggio a ritroso nel pop rock degli anni Ottanta, in cui a dettare le regole vige il solo Casablancas, maestro nel mutare a piacimento le frange temporali e nel gettare le basi per sporadiche rotture della quarta parete da qui fino al termine del cd, a partire dai bridge tra i ritornelli (touché) e da un magistrale: «False, Break.»

Lo stesso carattere upbeat verrà poi ripreso nella successiva Bad Decisions, un componimento tipico per i dettami canonici degli Strokes, abbastanza per sembrare familiare senza però scadere nel fiacco, a causa ironicamente della simil-campionatura di Dancing With Myself di Billy Idol e I Melt With You dei Modern English, duplice ripresa su cui molti si sono incaponiti sul mero piano musicale. Al contrario, questi riferimenti mettono tuttavia in mostra il tema latente del brano, ossia la mancanza di originalità nell’industria discografica e i pericoli che si corrono quando una formula vincente viene duplicata allo stremo (si veda il successo degli Strokes stessi nei primi anni 2000). Una teoria al limite del complottista ma in parte confermata dal videoclip della canzone.

Questo lato del disco si chiude quindi con Eternal Summer, presa di posizione della band sul fronte del psychedelic rock e sorpresa del branco: fino al ritornello il brano procede lungo il falsetto del cantato, lasciando l’ascoltatore un po’ interdetto su dove si stia andando effettivamente a parare, ma di colpo, con un’assurda transizione, il demone di Roger Waters si impossessa di tutti i componenti del gruppo, marcando le radici (o meglio, i mattoni) sulle quali comprendere il senso della traccia, che solo a posteriori si trasforma in una delle tante perle di The New Abnormal.

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Se da un lato allora non mancano le piene lodi per la prima tranche dell’album, lo stesso purtroppo non si può dire per quanto segue. Più specificamente, nonostante At the Door sia una splendida space-opera al sintetizzatore dai toni scuri e sfumate non-dissolvenze, Why Are Sundays So Depressing e Not the Same Anymore placcano nettamente lo slancio dell’ascolto, incagliandolo in due ballate un po’ insipidamente stereotipate dal fattore tempo, anche se non del tutto prive di spunti comunque interessanti, come le chitarre nel ritornello della prima.

Fortunatamente, dopo questi momentanei attimi di incertezza, la narrazione dell’epocale ritorno degli Strokes si chiude con l’epilogo dipinto dalla fantastica Ode to the Mets, che espia le colpe delle precedenti non risparmiandosi nemmeno critiche velate a certi detrattori/imitatori:
«I was just bored, playin’ the guitar // learned all your tricks, wasn’t too hard.»

A livello tematico infatti Casablancas gioca molto sul distico di mascherare i testi con motivi legati a relazioni sentimentali e di crescita personale (a fronte del successo) per lanciare frecciatine mirate al rapporto con il pubblico, con l’industria musicale e con, appunto, altre band, provando nel mentre a fornire pure la sua immancabile critica sociale. Quest’ultimo aspetto è però di dubbio esito, dato che non si capisce quanto effettivamente fosse nelle intenzioni del personaggio rispetto all’interezza dell’opera: ossia, gli indizi riconducibili a tale sentimento ci sono, ma spesso come citazioni sparse e poche volte sviluppati appieno. Per esempio, la sola Eternal Summer ha un argomento centrale e lampante attorno a cui ruotano le parole del brano, ovvero il riscaldamento globale.

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Senza intestardirsi troppo sul significato implicito dei versi e tirando le somme di uno degli album più attesi degli ultimi anni, è innegabile che gli Strokes siano tornati a far parlare di sé nel migliore dei modi: The New Abnormal non aspira assolutamente ad essere una pietra miliare nella storia della musica, né tantomeno una dichiarazione d’intenti nella sfera avanguardista di certi trend setter, ma anzi, con occhi fissi su quanto è stato, apre la via per un futuro del gruppo, palesandosi come un reboot maturo e attuale dell’iconico sound, forte della propria scrittura e produzione, che vacilla solo in scarse e soggettive lacune. Sebbene sia restio ad ammetterlo e preferisca mantenere un definito comportamento di distacco, chiuso nel suo fare introspettivo, The New Abnormal spera che un giorno la scintilla, che decadi prima aveva ispirato generazioni sui riff di Reptilia, possa tornare ad affascinare con le note di The Adults Are Talking. Ed ogni tanto, ricordarsi che quella scintilla esista suona anche davvero bene.

Firmato: un altro tizio che scrive di cose di cui non sa nulla a riguardo.