Automatic The Lumineers
7.0

“Teenagers leave the parade” recita una strofa di Better Day, un brano che scopriremo essere il cuore concettuale di Automatic, il nuovo e quinto album in studio dei Lumineers.

Si tratta di un album che vorrebbe cogliere di sorpresa chi pensa di conoscere a menadito la cifra della folk band più commerciale degli ultimi 15 anni- quantomeno stando alle dichiarazioni del batterista e polistrumentisa Jeremiah Fraites - ed è vero: in qualche modo Automatic ci sorprende, ma non come ci aspetteremmo di essere sorpresi, quindi forse ancora meglio. Quando schiacciamo play alle 11 tracce del nuovo disco non c’è uno sconvolgimento sonoro ad attenderci, niente chitarre elettriche, niente uso spropositato di sintetizzatori, anzi, in alcuni passaggi, le sonorità di Automatic vi sembreranno ripescare in maniera quasi filologica dal repertorio passato della band. No, quello che cambia non è il genere, è il venir meno della dimensione corale del racconto a cui i Lumineers ci avevano abituato.

The Lumineers

Fin dal prepotente debutto radiofonico di Ho Hey la cifra dei Lumineers è stata quella di una corsa a perdifiato per la città per ritrovare chi si ama, di un road trip verso una nuova vita (Sleep On The Floor), di un romanzo generazionale in più atti (l’album III), del racconto folkloristico e simbolico dei personaggi presenti a una fiera di paese: The Big Parade. Ma se il folk usa l’epica popolare come metafora di temi universali, di cosa si troverà a parlare una folk band in una civiltà che perde la propria materialità? I teenagers citati in Better Day lasciano la parata, il mondo fisico e confusionario di The Big Parade, e lo fanno per dirigersi verso qualcosa che gli pare più accattivante e che probabilmente sta dentro lo schermo del loro smartphone.

Uno schermo glitchato, ma di una televisione, è anche quello che troviamo sulla copertina dell’album, che per la prima volta nella discografia della band è priva di un elemento umano. Non che il materiale umano sia inesistente in Automatic, ma è certamente ridotto all’osso: i rapporti narrati ruotano attorno a dimensioni ristrette, di coppia, non per forza amorosa, ma spesso asfittica e fragile.

“You’re All I Got”, tu sei tutto quello che ho, è il mantra ripetuto ossessivamente in ben due brani. Il primo è il terzo singolo estratto, intitolato proprio You’re All I Got, brano minimalista, che sa di rantolo di disperazione e cita il conto da pagare all’avvocato. Il secondo è Keys on the table, dove questa identica invocazione al partner, visto come ultimo rimasuglio di umanità, viene preceduta da una paranoia sul tradimento degna dell’universo distopico di Hanno Ucciso L’Uomo Ragno: “Would you sell me out at the first chance you get?” canta Wesley Schultz, “Se non mi vendo mi venderai tu, per cento lire o poco più” cantavano gli 883, entrambi felicemente inconsapevoli gli uni degli altri.

E se la dimensione umana si sgretola, i nuovi rapporti devono superare l’ostacolo di una diffidenza prevenuta. Asshole è il secondo brano in scaletta, è un pezzo ironico, dove il pianoforte, metà drammatico, metà fiabesco ci trasporta in quella che musicalmente per i fan dei Lumineers è una zona di comfort. È un pezzo che nella sua intensità risulta solare, lasciandoci intuire che, nonostante la lei in questione pensi di lui quanto riportato nel titolo, si riuscirà a creare una nuova intimità. La stessa sensazione di boccata d’aria ce la restituisce, subito dopo nella tracklist, Strings, uno dei due intermezzi strumentali presenti in Automatic (l’altro è Sunflower) con la sua mise di crescendo orchestrale.

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L'andamento calante della title track, Automatic esplora il contrasto tra evoluzione tecnologica e il mondo naturale (ad esempio: vedere una stella cadente mentre si guida una macchina elettrica o pregare affinché piova da dentro una tavola calda). In Plasticine, letteralmente “pongo”, il ritornello è una cantilena rassegnata dove il protagonista si offre di trasformarsi in qualunque cosa di cui l’altra persona abbia bisogno, pur di preservare la dimensione del “You and I”: l’atmosfera è quella di un sogno ad occhio aperti, con il ritmo di un carillon incalzante ed echi di voci esterne alla band, che arrivano da una dimensione lontana, forse cinematografica.

Better Day è la poesia recitata al pianoforte che evoca i concetti più forti del disco: una domanda surreale come “can we scroll back and delete?”, riferita alla possibilità di cancellare gli errori commessi in una relazione evoca la dilagante confusione tra il funzionamento umano e quello della macchina. Il sogno di chi si rende conto di essere confinato, volente o nolente, nella dimensione digitale è quello di un giorno migliore dove le luci blu non ci tengono svegli con gli occhi rossi.

Particolarmente interessante da indagare è Ativan. Qui l’utilizzo filologico del proprio repertorio prende vita nella base strumentale dove ritroviamo il crescendo celestiale al pianoforte che chiudeva Donna dall’album III. Il titolo invece prende spunto da un ansiolitico e mette in bella mostra l’utilizzo di psicofarmaci come pilastro della società post-moderna, inserendo i Lumineers in un filone musicale, già visto di recente con Ambien Slide dei Cigarettes After Sex, che mostra sempre meno timidezza su questa tematica.

In apertura e in chiusura troviamo rispettivamente Same Old Song e So Long, entrambi singoli promozionali, la cui energia incedente è parecchio slegata dal resto dell’album, esattamente come la voce Wesley Schultz che solo qui si presenta piena e sicura a differenza dell’impostazione flebile tenuta nelle altre tracce. Se Same Old Song si sporge sul pop, So Long esplora l’anima più rock della band con un inciso degno dei migliori anni del Britpop.

Nel complesso Automatic ci arriva come un album etereo nel senso più attuale di etere. Non è difficile comprendere come, in questi tempi asettici, per un progetto abituato a portare in scena la carne viva delle relazioni sia stato automatico switchare a una narrativa più minimalista. Un solo dubbio: possono i Lumineers esistere senza i loro personaggi? Senza l'epica di Ophelia, Angela, Cleopatra? Senza le fiere di paese e gli avvistamenti di sottomarini? Per citare due volte Max Pezzali, una risposta potrebbe essere: sì, ma "solo in versione light pomeridiana".

The Lumineers
The Lumineers | Credits: Noa Griffel