Songs For The General Public The Lemon Twigs 21 agosto 2020
7.0

A Long Island, due fratelli viaggiano nel tempo senza usare una macchina. A Brian e Michael D’Addario bastano i loro strumenti musicali. Sono i Lemon Twigs, sembrano usciti dagli anni Settanta ma hanno poco più di vent’anni.

Ascoltarli è come rimanere intrappolati in un loop temporale, una combinazione di stili ed epoche differenti che si ripetono e vengono costantemente reinventati. Ne abbiamo già parlato su noisyroad, raccontandoli attraverso i loro video. Sono appena giunti al terzo album, Songs for the General Public, che raccoglie le migliori tecniche della propria discografia. Partendo da lievi tocchi di chitarre elettriche, meno timidi quando si avvicinano al progressive rock di Todd Rundgren, fino a raggiungere bridge carichi di sintetizzatori, passando poi a un musical gracchiato e demenziale, i Lemon Twigs propongono studiatissime partiture con ironia e leggerezza, come se fossero tutt’altro che complesse.

Per i “Twigs”, essere perfezionisti vuol dire esagerare, riempire le tracce di tutti i suoni possibili. Lo percepiamo da subito, con l’aggressiva Hell on Wheels, dove un coro austero si alterna a scale spettrali di archi e ai colpi netti delle pelli di una batteria. Questa, strumento prediletto dei fratelli, cambia ritmo con frequenza all'interno dell'album: succede in Live in Favor of Tomorrow, un delicato motivetto familiare caratterizzato da un equilibrato duetto ispirato a Simon & Garfunkel. Un tripudio di strumenti costruisce un fitto muro musicale. Talvolta chiudono strofe, pensiamo agli accordi – poi assoli – in elettrica di The One, talaltra un singolo strumento, come il pianoforte che fa da base a No One Holds You (Closer Than the One You Haven’t Met). È un’orchestra stacanovista, che si concede una breve pausa soltanto tra un brano e un altro.

Dodici composizioni mostrano un’ampia scelta di pedaliere e di modelli di chitarre vintage, sono brillanti, incalzanti e grintose. Capita che i fratelli soffino un’armonica a bocca, facciano i dispettosi e diano più libertà al basso come in Moon, squisito esercizio folk statunitense misto a glam, marchio di fabbrica made by D'Addario. È un glam rock in versione lo-fi, fatto di sintetizzatori che stridono come fischietti acuti, di esecuzioni potenti, di voci spavalde a cui non manca un pizzico di sensualità. Sentiamo Fight, sogniamo i loro luccicanti live ricchi di fronzoli e lustrini, spaccate spericolate e cori in falsetto.

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I due si mettono alla prova ogni momento, superano le tracce come se fossero dei livelli astrusi di un videogioco. Non sempre, infatti, l’ascoltatore riesce a prevedere le loro mosse. E gli ambienti immaginari in cui si imbattono: una lenta hit di una band pop di second’ordine degli anni Ottanta (Hog), una foresta fatata (Why Do Lovers Own Each Other?), una discoteca che trasmette una musica simile ai T. Rex (Leather Together).

Non mancano momenti nostalgici: Only a Fool fa un occhiolino a Do Hollywood, il primo album della band. E se il flop di Go to School, il secondo album che narra delle difficoltà di una scimmia a integrarsi nel mondo degli uomini, non ha lasciato che un amaro ricordo, la lezione del musical è qui rivista. La voce soave di Brian (Somebody Loving You), spesso associabile a quella di Paul McCartney, risponde alla severissima di Michael, che lo saluta sprezzante, pure dolente (Ashamed).

I D'Addario sono giovanissimi, eppure sembra che suonino da decenni. Questo perché sono degli enfant prodige. Sono cresciuti senza sapere cosa fosse il silenzio. Cullati prima dai canti della madre, divertiti poi dalle chitarre del padre, hanno imparato ad armonizzarsi tra loro non appena hanno pronunciato la prima parola. Ancora in età prescolare, curiosavano tra gli lp di famiglia. Hanno iniziato a leggere tenendo in mano vinili dei Beatles, Pink Floyd e David Bowie. Spegnevano le candeline e chiedevano nuovi strumenti per perfezionare la loro tecnica. Quando ci fu il momento Who, volevano un gong, ha ricordato la madre in una delle prime interviste dedicate alla band.

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Dopo lo scivolone sulle bucce di banana di Shane, la scimmia di Go to School, i Lemon Twigs sono tornati in una forma smagliante, hanno ripreso a ridere e a dissezionare i legami interpersonali. Vogliono forse farci ricordare che loro non sono da meno di Harry Nilsson, che stravolse la sua idea di popular music con il capolavoro del 1972 Son of  Schmilsson? Per ora hanno quasi superato i loro mentori Foxygen (Jonathan Rado è il loro produttore), che nel 2017 hanno pubblicato il pot-pourri Hang, il lavoro più vicino alla poetica dei D'Addario. Un album, ripetiamo, quasi superato dai due fratelli, perché resta una lacuna: i cori sporchi. Fingere di stonare è un’arte come saper cantare, lo sa benissimo Sam France. È una materia ancora difficile per Brian e Michael, che rischiano di essere ritenuti inascoltabili da chi non li conosce a fondo.

Ma anche noi che li seguiamo da Do Hollywood abbiamo dei dubbi. Dove porteranno tutte queste risate? L'intento dell'album è quello di raccontare in maniera generalista temi comuni, lo dice chiaramente il titolo. Ma lo hanno già fatto in Do Hollywood, che ha sorpreso un vasto pubblico perché musicalmente fedele alle pietre miliari del rock. Lo ammettiamo, da quattro anni i Lemon Twigs scrivono testi acerbi, spesso monotematici: l’amore non è forse il sentimento più sopravvalutato? Queste considerazioni ci riportano alla nostra condizione da prigionieri, tipica degli ascoltatori dei D'Addario: quel maledetto loop temporale delle loro canzoni. Vogliamo uscirne ma ci siamo abituati perché è confortevole. E così ci godiamo un album sufficiente che ci fa bene al cuore ma che non ci conquista. E incrociamo le dita affinché non vengano bocciati all’esame del quarto album.