Il 2017 è stato l’anno dei grandi ritorni dopo lunghe assenze e, mese dopo mese, abbiamo ascoltato dei dischi bellissimi regalati da alcuni degli artisti più influenti del nostro tempo. Queens Of The Stone Age, Lorde, The National, Kendrick Lamar, tanto per citarne alcuni. E ora che l’anno è quasi finito, non c’è più tanto spazio per altre perle musicali, giusto? Sbagliato. Annie Clark, meglio conosciuta come St. Vincent, aveva l’asso ben nascosto nella manica quando il 13 ottobre ha pubblicato il suo quinto album in studio, Masseduction. Tramite l’etichetta americana Loma Vista Recordings e l’aiuto del produttore Jack Antonoff, la musicista ha ridefinito il proprio sound attraverso 13 tracce a tratti correlate fra loro, a tratti agli antipodi. Il filo conduttore è una produzione leggermente più pop rispetto ai suoi lavori precedenti, ma non per questo più delicata nei temi affrontati. Masseduction, infatti, è incentrato unicamente su “sesso e droga e tristezza”, afferma fieramente la Clark.
Il profumo di modernità si sente fin dalla prima traccia, “Hang On Me”, dove il ritmo insistente risulta molto simile a quello di “Perfect Places” di Lorde. Non un caso visto che il produttore Jack Antonoff è sulla bocca di tutti per aver lavorato a Melodrama. In un certo senso, St. Vincent e Lorde sono molto simili tra loro: entrambe hanno una personalità artistica molto forte, che rende il pop un genere determinato e fiero. In puro stile da chiamata alticcia nel bel mezzo della notte e i sintetizzatori a mille, Masseduction inizia con il desiderio di essere diversi, affermando “You and me / We’re not meant for this world” con quell’esuberanza giovanile in cui mi rispecchio.
“Pills” è, a mio avviso, una delle tracce più controverse dell’album. Non solo per il ritmo vivido che rende il brano terribilmente pop, ma anche per la partecipazione di ospiti famosi come l’ex Cara Delevingne, il sassofonista Kamasi Washington e Sounwave, produttore di Kendrick Lamar. Dietro al jingle ossessivo che trapana il cervello cantato da Cara Delevingne si nasconde il fascino per i farmaci e i loro effetti miracolosi. “Pills” sembra proprio un’inquietante canzoncina di Natale mista a pubblicità non proprio subliminale, ma non si può fare a meno di canticchiarla. Ma l’uso e abuso delle pillole per fare qualsiasi cosa porta ad un effetto che non è fatto per durare: la frenesia prima o poi finisce e le note del sax marcano la fine dell’hype.
La terza traccia, il brano che dà il nome all’album, si basa su un gioco di parole che spinge alla riflessione. “Masseduction” può essere interpretato come Mass seduction o My seduction. La seduzione, in tutte le sue accezioni, è la chiave interpretativa dell’album. E visto che la canzone non è altro che una lista di provocazioni intriganti, che ruolo ha St. Vincent in questo gioco di seduzione? E a che punto lo charme si trasforma in distruzione? Mentre la voce metallica ripete “masseduction” fino allo sfinimento, fino a farlo diventare “mass destruction”, il mantra “I can’t turn off what turns me on” marca in modo chiaro le intenzioni del narratore. Non sarà l’ultima volta che il fascino nei confronti della perversione apparirà in Masseduction. Ogni nota è posizionata strategicamente per stuzzicare l’interesse dell’ascoltatore, catturandolo in una ragnatela intrigante. Ora, St. Vincent ha tutta la mia attenzione.
Con “Sugarboy” l’ascoltatore è trasportato in un’altra dimensione. Più precisamente, in una discoteca negli anni ’80, dove la linea di basso insistente e i versi orientaleggianti spingono a scatenarsi sulla dance floor. Tuttavia, c’è qualcosa che non va: la fine tragica è come una rivelazione drammatica che arriva nel bel mezzo del trip. Sarà finito l’effetto delle “pills” anche qui?
Esattamente agli antipodi della mappa sentimentale della Clark stanno "New York” e “Los Ageless”, rispettivamente il primo e il secondo singolo. Attraverso un viaggio coast to coast a bordo di una macchina rossa fiammante, l’artista fa emergere le due personalità che la contraddistinguono.
“Los Ageless” è impulsiva, sputa fuori tutto il veleno di una società “ageless”, senza età, dove l’apparenza sovrasta la fragilità umana: “In Los Ageless, the waves they never break / They build and build until you don't have no escape”. Il video scelto per rappresentare la canzone mostra tutto il bello e il marcio di un mondo essenzialmente finto: da una parte, il bagliore dei colori shock, le minigonne vertiginose e la gioventù eterna; dall’altra, le immagini disturbanti della chirurgia plastica, cibo mutante e pilates extraterrestre. A differenza della società che critica, la canzone è tutt’altro che superficiale. Caratterizzata da un ritmo pesante che viene alleggerito dai sintetizzatori aerei del ritornello, la carica del pezzo si smorza sempre di più, fino ad affievolirsi completamente e terminare con i suoni morbidi del sax e della pedal steel.
Due canzoni più tardi, “New York” si apre sulle note del piano, differenziandosi in modo netto da “Los Ageless”. Il primo singolo tratto da Masseduction, è un brano riflessivo in cui si ha la sensazione che tutte le parole siano state pensate miliardi di volte prima di essere scritte. La parte strumentale viene costruita di verso in verso per poi esplodere nel ritornello con un climax di archi e sintetizzatori perfettamente in armonia, trasmettendo un’intensa carica emotiva. Non penso più allo charme della West Coast, ma al colore blu, alle note fredde, ad una stanza buia illuminata solo dalle luci della città. È questo che si prova ad essere soli a New York?
Riguardo al testo, la Clark dice di aver dedicato le sue parole a tutte le persone che ama e che vivono nella Grande Mela, senza le quali “New York non è New York”. Nell’episodio della serie di podcast Song Exploder a lei dedicato, Annie racconta di aver pensato con un certo stupore: “Questa potrebbe essere la canzone preferita di qualcuno”. Non è difficile immedesimarsi nel testo quando canta “I have lost a hero / I have lost a friend”, probabilmente pensando a David Bowie, Prince, Leonard Cohen e gli idoli che l’hanno influenzata nel proprio percorso artistico. Del resto, tutti abbiamo una persona a cui pensare mentre cantiamo “You’re the only motherfucker in the city who can handle me”, no?
Da “Happy Birthday, Johnny” in poi, la scaletta si fa sempre più cupa, iniziando da questa amara ballata al piano che sa di confessione e pentimento. St. Vincent non si è sbilanciata sul diretto interessato della canzone, commentando solo “Johnny è solo Johnny. Tutti conosciamo un Johnny, non è così?”. A quanto pare, era un sassolino nella scarpa che andava tolto.
Il tema della seduzione è vivo e vegeto in “Savior”, dove il ritmo accattivante non lascia spazio ai doppi sensi. Si può dire, senza peli sulla lingua, che questa è la canzone più perversa dell’album. Nonostante sia ricollegata a “Masseduction” per lo spirito provocante, “Savior” ritrae fantasie sessuali intervallate da pensieri razionali e richieste disperate, dove il narratore è nettamente superiore al supplicante amante. L’inizio rock dà al brano quel tocco di determinazione in più, rendendolo sensuale. Fino al ritornello, però, dove il “please” diventa l’elemento dominante della canzone, trasformando la sensualità in disperazione. Ecco che la seduzione diventa frustrazione quando nemmeno le perversioni più segrete riescono ad appagare il vuoto di chi ricerca un piacere momentaneo.
Dalla seduzione alla frustrazione: nonostante il tono si rivitalizzi leggermente dopo “New York”, la parte finale del disco tratta temi molto più cupi e sottili da interpretare rispetto all’inizio.
In un tripudio di sintetizzatori, “Fear The Future” indaga la paura dell’ignoto a ritmo dei sonagli di serpenti meccanici: “Come on, Sir, just give me the answer / I fear the future”.
St. Vincent inganna l’ascoltatore ancora una volta con “Young Lover”. Sotto al ritmo scandito della batteria come un cuore accelerato si narra la storia di un amore tossico finito con una overdose pop.
Da questo momento in poi, dimenticatevi delle scarpe da ballo e dei colori sgargianti: Masseduction si colora di viola con la presenza inaspettata di “Dancing With A Ghost”, brano strumentale di 46 secondi che non fa altro che introdurre “Slow Disco”. Prettamente collegata alla canzone precedente, la penultima traccia dell’album è, a mio avviso, la più suggestiva. In un’intervista, la Clark ha detto che parla del parallelismo tra la vita che si sta vivendo e la vita che si dovrebbe (o meglio, che si vorrebbe) vivere. Le due realtà convivono nella mente di ognuno, tormentandoci continuamente con quel senso di nostalgia insaziabile. È un concetto difficile da mettere giù a parole, ma non c’è verso migliore di “I’m so glad I came, but I can’t wait to leave” per spiegare chiaramente quella sensazione che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita.
La voce calda e roca di St. Vincent ci accompagna fino alla fine di Masseduction. Il cerchio tematico della seduzione si chiude con il lato più oscuro in assoluto: la seduzione della morte. “Smoking Section” presenta una struttura complessa, dove ad ogni verso viene aggiunto uno strato strumentale volto a far aumentare la tensione. Veniamo trasportati nella colonna sonora di un macabro film in bianco e nero, dove, tra nubi di fumo e sintetizzatori modernissimi, le scene dei pensieri suicidi si susseguono lentamente:
“And sometimes I go to the edge of my roof
And I think I'll jump just to punish you
And if I should float on the taxis below
No one would notice, no one will know”
(A volte vado sul cornicione del tetto / E penso che salterei solo per punirti / E se dovessi precipitare sui taxi di sotto / Nessuno se ne accorgerebbe / Nessuno lo saprebbe).
Quello che succede nella coda è meraviglioso. La pedal steel aggiunge un’aurea mistica dal retrogusto di Pink Floyd, portando l’ascoltatore verso una fine criptica. Ma è veramente la fine? Del disco, sì. Dello spirito artistico di Annie Clark, no, così come dice il testo “It’s not the end”.
A mio parere, Masseduction è un lavoro intrigante e ogni canzone suscita un’emozione diversa in chi sta ascoltando. È davvero molto difficile etichettare il disco con un genere specifico e, a mio avviso, questo è l’elemento vincente. Oltre ad avere dei testi stupendi, non capita tutti i giorni di sentire una pedal steel o un sax in potenziali album da classifica. La struttura musicale è in armonia, creando una varietà sonora unica. Nelle 13 tracce ho ritrovato i toni eccentrici tipici dell’artista, ma anche la voglia di uscire dagli standard senza aver paura di osare. Forse il disco è più pop degli altri suoi lavori? E che male c’è, soprattutto quando si riesce a giocare con certe tematiche attraverso un pop intelligente in un panorama saturo di testi vuoti e suoni ovvi. Perché St. Vincent può essenzialmente fare quello che vuole. Persino sbattere il sedere leopardato in faccia a chi non concorda con il suo punto di vista artistico.