O Monolith Squid
8.6

Ci sono alcune band che preferiscono rimanere nel loro territorio di sicurezza, altre che a distanza di tempo compiono qualche passo fuori dalla via maestra, altre ancora che invece hanno la tendenza a mutare pelle ogni volta in maniera ossessiva. Poi ci sono gli Squid che, dopo un EP e un esordio a dir poco sorprendenti, cambiano per rimanere se stessi. Il loro gattopardismo non è mirato alla conservazione, ma ad una continua e costante ricerca, come una sorta di nevrosi artistica.

La genesi del loro secondo album O Monolith è un sintomo: è stato suonato durante il loro social distanced tour di Bright Green Field del 2021, prima ancora di essere nato, senza testi. Il desiderio di fare concerti e di far sentire al pubblico nuova musica ha di fatto accelerato il processo. La scrittura è stata poi perfezionata e ultimata nel Wiltshire, nel sud ovest dell’Inghilterra. Sono luoghi immersi nella natura e nella storia, molto differenti dall’atmosfera cittadina di Brighton, ancor di più da Londra. Il legame che intercorre tra il nuovo album del quintetto e l’ambiente circostante è talmente forte che questa volta è stato Dan Carey ad andare in trasferta. Dal suo studio claustrofobico nella capitale inglese, ai Real World Studios di Peter Gabriel a Box.

(c) Alex Kurunis

O Monolith è un disco labirintico, al contempo spazioso. L’ossimoro è spiegato dal primo singolo Swing (In a Dream), un brano che si contorce attorno al ritmo sinuoso di chitarra e basso, il cui flusso è interrotto dal sassofono di Laurie Nankivell. Il suono drammatico, soprattutto nella coda, si ricollega all’incubo descritto dal frontman Ollie Judge. Sembra di essere in un racconto di Edgar Allan Poe, intrappolati insieme al frontman nel quadro di Jean-Honoré Fragonard. La spazialità sonora e la dimensione live sono generate anche dall’aggiunta delle percussioni folk. Non è abbandonato nemmeno il caratteristico suono elettronico dei synth manovrati da Arthur Leadbetter.

Siphon Song è la traccia in cui la componente sintetica prende il sopravvento: per la prima volta Ollie canta con un vocoder mentre si accompagna con un ritmo di batteria jazz. Le parole del testo e i cori che conducono al crescendo dove subentrano le chitarre che trasmettono una sensazione di tragica inevitabilità. Le atmosfere di Kid A dei Radiohead sono trapiantate nel paesaggio nebbioso della campagna che circonda Bath.

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Sebbene in un’intervista la band abbia rivelato che il titolo è stato scelto quasi all’ultimo – inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Moonrakers – con l’intenzione di lasciare libertà al pubblico di interpretarlo a piacimento, il collegamento con i panorami del Wiltshire è innegabile. I monoliti rappresentano un passato storico che si fa continuamente presente, le leggende e il folklore lo mantengono vivo. Come il Devil’s Den di cui la band canta nella seconda traccia: un resto preistorico nei pressi di Marlborough, due pietre enormi sormontate da un’altra che fa da architrave andando a completare l’ingresso di un’antica camera di sepoltura neolitica. La leggenda narra che il diavolo beva l’acqua che cade nelle insenature. Gli Squid ci inseriscono anche Vinegar Tom, protagonista del dramma teatrale di Caryl Chruchill ambientato nel 1600 ai tempi della caccia alle streghe. Il ritmo della chitarra acustica e i fiati – suonati per l’occasione da Nicholas Ellis e Dylan Humphreys– rielaborano il folk tradizionale britannico, poi contaminato dai synth.

Sintetizzatori che aprono il secondo singolo estratto Undergrowth, un brano sincopato dove la batteria e le chitarre dominano fino al secondo ritornello, prima di lasciare spazio a una seconda parte dove il sassofono rende tutto più imprevedibile. Torna ancora l’incubo, stavolta più kafkiano: Ollie immagina di reincarnarsi in una cassettiera. Leggerlo così come sta scritto, senza ascoltare nulla, fa probabilmente ridere. Le cose cambiano sentendo il cantato che si fa via via meno disperato e più rassegnato, in un finale orchestrale dove si percepisce un suono simile a quello delle campane.

L’evoluzione e gli esperimenti maggiori si trovano al centro del disco. The Blades è la sintesi del viaggio compiuto dalla band dal 2019 a oggi. Sei minuti che uniscono sensazioni astratte e realtà: ispirata alla protesta Kill the Bill e agli scontri di Bristol tra la folla e la polizia, il terzo singolo vede gli Squid giocare col ritmo. È un continuo start & stop tra batteria e chitarre, i colori li danno il sax e la voce di Ollie che esplora terreni inesplorati.

La grandezza e l’importanza degli Squid nel panorama musicale contemporaneo sono date anche dal fatto che è difficile trovare qualcun altro che suoni come loro, persino in Inghilterra dove la new wave di band (post-punk?) sembra inesauribile e la ripetizione dei soliti stilemi evidente. Basta ascoltare After the Flash per capire che gli squid sono una cosa a parte. Una marcia atipica dove gli archi si integrano alla perfezione col resto, soprattutto con il Fairlight preso in prestito da Roger Bolton (Kate Bush). Sullo sfondo l’evocativa voce di Martha Skye Murphy, che torna a collaborare con la band dopo Narrator, a sottolineare l’illusorietà del successo descritta dal testo.

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Uno dei protagonisti di questo album è il chitarrista Anton Pearson che, durante le fasi di registrazione e scrittura nella campagna inglese, usciva spesso a fare birdwatching tornando con delle registrazioni ambientali che sono finite nel disco. Tuttavia, il suo apporto maggiore, dopo gli arpeggi di chitarra, è stata la scrittura della traccia conclusiva del disco. Il titolo lunghissimo - If you had seen the bull’s swimming attempts you would have stayed away – non vi scoraggi: ispirata al documentario Rat Film di Theo Anthony, è un racconto distopico in cui i ratti invadono una città immaginaria rosicchiando tutto ciò che trovano. Ancora un incubo, ancora le percussioni folk e le ritmiche che rimandano a Remain in the Light dei Talking Heads. Stavolta c’è anche la collaborazione con il collettivo The Shreds.

Through the cracks of the door
Where the sunlight hits my skin
Green light forever more

Gli Squid escono dalle strade affollate del centro città e dalle vicende quotidiane che animavano il loro EP Town Centre (2019), si spingono oltre gli scenari metropolitani fantascientifici di Bright Green Field (2021), ma non fa loro perdere il gusto per la velocità e i suoni più grezzi. Green Light è la quota punk del disco. Strofe urlate, una batteria rabbiosa e le chitarre che ripetono nevroticamente i loro riff. Eppure eccolo, uno dei rarissimi spiragli luminosi del disco, sia letterale che musicale. La luce verde appare a metà brano, insieme agli unici power chords. Verde, come le colline del Wilthshire e come il nuovo mondo abitato dalla band.

O Monolith è una camminata tra presente, passato e futuro: il folk che dona i personaggi – ratti, streghe e diavoli – le chitarre e l’elettronica che sembra pronta a fagocitare tutto il resto. La natura che c’era, la sua storia, quello che ne resta e quello che sarà. Gli Squid rileggono e fuggono da se stessi cavalcando i loro incubi, che diventano anche i nostri. Una colonna sonora ambientalista? Forse. Sicuramente inquieta, claustrofobica e senza via d’uscita, comunque danzabile in tutta la sua follia. Ma è proprio da quell’incertezza, da quell’inquietudine latente che si genera il brividino. Essere pretenziosi può essere un terribile difetto o un cancello aperto verso orizzonti più verdi. Per gli Squid non ci sono dubbi, vale la seconda.

(c) Studio UJ