Facce che ritraggono l’aspetto di chi, solennemente marcato Fred Perry, è appena riuscito ad arrivare in ritardo di almeno un’ora per i casting di un inesistente seguito di Lock & Stock del ’99 malgrado l’aver preso “la metro prima”, in combutta con la distinta spudoratezza tipicamente punk che spinge a mettersi in copertina del proprio terzo album, “Acts Of Fear And Love”, seduti sul comunissimo parente di una delle più famose opere del dadaista Duchamp (e con questa, potete candidarmi ai mondiali della finezza 2018): tale è il riassunto degli episodi passati (e non) degli Slaves, il duo punk ad intermittenza ironicamente autoreferenziale che dal 2015 rilascia album ad incessante cadenza, più o meno, annuale.
Ma mentre il precedente “Take Control” correva lungo i binari di un mixtape o di una sangria con troppa frutta e poco vino, il cui risultato piuttosto interessante non era comunque in grado di lasciare un’impronta decisa al pari del primo “Are You Satisfied?”, “Acts Of Fear And Love” si presenta invece come una generalizzata antologia descrittiva della società contemporanea, disillusa e perennemente alla ricerca di sé stessa e di endorfine lampo tramite i social network, il tutto declinato in nove cariche tracce naturalmente incise a regola d’arte nella storia del Punk a ritmo di infaticabile batteria, graffiante chitarra elettrica e ritornelli ripetuti fedelmente come mantra ipnotizzanti.
Questa parafrasi in formato mp3 di una stagione di Black Mirror, meno cinica e stigmatizza, ma più attinente al vero, si apre con The Lives They Wish They Had, una sprezzante critica rivolta a coloro che usano Instagram per regalare al mondo un’immagine palesemente ritoccata e filtrata delle loro vite, “sperando che, da qualche parte, a qualcuno freghi qualcosa” come direbbe un Welsh/Boyle/Renton, nel mentre incombono i panni del “weekday-slave” abbandonanti momentaneamente per quelli illusori del “weekend-warrior”. Una delle tracce più memorabili del disco, specialmente grazie alla scalata della chitarra che si fisserà dritta in testa, insieme al prossimo vizio narrato dal dinamico duo in Cut And Run, primo singolo estratto. La generazione degli hashtag copia&incollati da app dozzinali per un pugno di like in più lascia spazio a chi, invece di far valere i propri giorni, li conteggia in maniera macchinosa fino al raggiungimento esclusivo di una meta sempre più lontana e mai chiaramente definita: il classico personaggio sempre pronto ad alzare un figurativo poncho 2.0 per accarezzare la fondina del lamento più vano del West, che suscita solo tanto fragore per nulla, per poi darsela a gambe levate da ogni difficoltà: “All talk no action // […] All teeth no trousers”, nelle parole di Holman durante il bridge del brano dalla chitarra e batteria elicoidali.
Si passa quindi al fin troppo ripetitivo disincanto generazionale di Bugs nei confronti della classe dirigente nell’epoca delle notizie farlocche e tendenti al clickbait, per poi ributtarsi a capofitto nella perdita d’identità individuale di Magnolia a patto che questa sia a portata di touch screen e liberamente spensierata. Tuttavia, in un plateau così colmo di esemplificazioni di massa, gli Slaves ci descrivono anche casi singoli di personaggi in piena crisi di mezza età, come la sorpresa semi acustica Daddy, le cui spalle vengono coperte dalla voce di sottofondo di Ellie Roswell dei Wolf Alice, o anche altri alle prese con le relazioni bruscamente interrotte di Chokehold.
A dare un po’ più di brio al tutto ci pensa però Photo Opportunity, che apprezzo particolarmente per due motivi, di cui uno abbastanza soggettivo: da un lato rende meno monotono l’album, grazie al dinamismo tra i versi e il ritornello, dall’altro mi ricorda This is England dei Clash per il coro interrogativamente rassegnato a sé stesso nella sua stessa implosione sonora.
Infine, dopo aver preannunciato a loro modo l’avvento di un surrogato di Skynet in Artificial Intelligence senza infrangere giustamente alcun copyright, gli Slaves chiudono il loro terzo album con la title track, Acts Of Fear And Love. Seppur valida conclusione riflessiva, non rende però giustizia a tutta la curiosità creata dal titolo omonimo e dall’ascolto delle otto canzoni precedenti; anche se non lascia l’amaro in bocca, purtroppo non rientra tra le vette più alte del cd che risultano infine scandite dalle prime due tracce e dalla settima Photo Opportunity (con menzione d’onore a Daddy).
Il catalogo delle cattive abitudini moderne si conclude dunque a tempi record, in meno di quaranta minuti, nel massimo rispetto dei canoni punk che premono per canzoni risolute, rapide e che vanno dritte al punto senza mezzi termini. Dogmi che rischiano tuttavia di permeare l’ascolto di un velato senso di stasi su una singola lunghezza d’onda che si palesa nei diversi accordi e ritornello a tratti troppo reciprocamente riecheggianti l’un l’altro. A mio avviso un album complessivamente buono, sia a livello tematico che sonoro, ma a cui un tocco di studiata varietà non avrebbe guastato, ma anzi sarebbe stato in grado di elevarne ulteriormente il potenziale.
Forse, a furia di seguire ciecamente le regole non scritte del genere, gli Slaves si sono dimenticati quella più importante e fondamentale, già sofferta nel tempo da tante altre band passate e presenti, iconiche e non: il punk per definizione implicita e nelle sue diverse declinazioni non è assimilazione, nemmeno a sé stesso.