C’è una costante curiosa che sta caratterizzando i nuovi album provenienti dall’Inghilterra e dall’Irlanda: Italia 90, The Murder Capital e shame, tre band che amiamo accomunare sotto l’etichetta post-punk, hanno scelto un disegno come cover per il loro disco. Il surrealismo e l’ambiguità sono i due elementi che emergono dai colori e dai soggetti. La copertina di Food for Worms, terzo lavoro del quintetto proveniente dal sud di Londra, è stata realizzata da Marcel Dzama, artista canadese noto per i suoi acquerelli. È facile presuppore che i cinque soggetti siano una rappresentazione dei membri della band, tutti immersi in un oceano ignoto sotto un cielo stellato.
Gli shame, dopo due anni segnati dalla pandemia e da un tour spezzettato che ha comunque permesso loro di arrivare negli Stati Uniti insieme ai Viagra Boys, ritornano con un album più accessibile rispetto al passato. Potrebbe sembrare un controsenso, dato che in queste prime righe si è scritto il contrario, e invece, rispetto a Drunk Tank Pink che era un’analisi interiore ispirata dalle fatiche del successo, Food for Worms si apre al mondo esterno.
Il detto inglese “diventare cibo per vermi” è un modo goliardico per dire di essere spacciati ed è probabilmente quello che hanno pensato Charlie e soci a fine 2021 quando si sono ritrovati privi di idee e senza possibilità di promuovere il loro album in tour. Come venirne fuori? Tutto è partito da una sfida: due settimane di tempo per scrivere nuove canzoni e una scadenza non posticipabile. L’obiettivo era eseguire gli inediti al Windmill di Brixton per febbraio.
Una delle prime canzoni scritte è poi divenuta il primo singolo estratto. Fingers of Steel racconta la storia di un’amicizia complicata dove i rapporti non sono in equilibrio: l’immedesimazione può avvenire da entrambi i lati, a seconda dell’ora e del giorno ci si può sentire nella pelle di chi invano tenta di aiutare il proprio amico o di chi invece ignora l’amore che riceve. Il pianoforte è la principale novità al pari dell’immediatezza melodica di strofa e ritornello, si sentono gli echi di One Rizla mescolati con le vibrazioni anni Novanta dei fratelli Gallagher.
Anche Six-Pack è figlia di un’ossessiva voglia di cambiamento e della tentazione di affidarsi a ciò che viene. Lo si percepisce dal wah wah delle chitarre - un po’ meno dal modo di cantare che torna quello a cui la band ci ha abituato – e dai desideri scanzonati che prendono vita nella stanza magica descritta nel testo. Se il Covid può aver allentato le mura dell’immaginazione, ha di certo incrementato la solidità di quelle fisiche, sia reali che mentali.
Per creare un album imprevedibile, ma che risulti semplice e diretto al cuore di chi ascolta, c’è anche bisogno di un produttore che sappia giocare con ogni elemento. Flood, all’anagrafe Mark Ellis, è uno dei più determinanti in questo campo: l’artista britannico, uno che ha collaborato tra gli altri con U2, Depeche Mode, Nick Cave e Lucio Battisti, è una figura sfuggente nella vita di tutti i giorni – una di quelle che non risponde mai al cellulare – eppure ha un tratto inconfondibile alla produzione. Detto questo, la prima sezione dell’album, tolto l’incipit, sembra ancora debitore dell’ansia nevrotica di Drunk Tank Pink. Yankees sconfessa la propria intro e si trasforma dopo un minuto circa in una canzone post-punk classica nella quale non si riescono a sentire neppure le peripezie chitarristiche alla Talking Heads di Eddie Green e Sean Coyle-Smith. Al contrario la linea di basso distorta sembra estrapolata da una canzone dei Fontaines D.C.. Alibis è un ulteriore passo indietro: spoken rabbioso di Charlie, batteria su di giri, chitarre che esplodono nel ritornello e che fraseggiano in modo repentino nelle strofe.
«I don’t think you can be in your head forever» è stata la frase che ha segnato una svolta per gli shame e soprattutto per il frontman Charlie Steen. L’ha riferita lui, raccontando di una conversazione avuta con un amico a margine di un concerto poco tempo prima di iniziare a registrare il nuovo materiale. Da metà album in poi si comprende a pieno il significato, il discorso riprende da dove si era interrotto con la fine della prima traccia. Ecco che allora Charlie esce dalla sua comfort zone, prende il basso e detta il ritmo di Adderal. Le sue note tingono di blu le strofe, prima di essere sovrastate dai power chords di chitarra. Lo spartiacque è ancora una volta la melodia e il desiderio di abbracciarla con un canto più tradizionale. L’influenza dichiarata è la band tedesca Blumfeld, insieme a Lou Reed per quanto riguarda il testo. Si parla di amicizia e di dipendenza: l’Adderall è diventato oramai da qualche tempo il protagonista e il simbolo di una generazione che esplode, scopre il successo precoce e con esso sperimenta il fallimento. Ne hanno fatto l’intro del loro ultimo album i 1975 e gli shame hanno raccolto il testimone. Dovrebbe aver partecipato alla registrazione anche Phoebe Bridgers: non si sente, ma ci fidiamo.
Orchid è la trasformazione definitiva: chitarra acustica che apre e dialoga con gli arpeggi di elettrica. Il cantato è molto controllato, senza sbavature e capace di trasmettere emozioni agrodolci che mai ci saremmo aspettati dalla band inglese. Charlie si è affidato alla vocal coach Rebecca Phillips e grazie a lei è riuscito frantumare quella corazza che lo teneva imprigionato: non bastava più togliersi la maglietta e cantare a petto nudo, era necessario liberarsi nel profondo. L’amicizia è il tema ricorrente, la crescita e gli spigoli da smussare i motivi: ci pensa il pianoforte a conferire quel tocco in più, creando un gioco di contrasti con gli angoli disegnati delle chitarre. Tuttavia, nel finale esplosivo l’hanno vinta proprio loro ed è ancora più bello.
Se si parla di chitarre la canzone che rimane più impressa è però The Fall of Paul: un pezzo noise-punk con una produzione calibrata alla perfezione. Le atmosfere sono più cupe, il rumore vince su tutto.
Food for Worms è un disco concepito e registrato per il live. Non c’è più la complessità tecnica del passato, tutte le sovrastrutture e l’eclettismo del loro secondo lavoro passano in secondo piano. Ritorna invece un po’ di quella spontaneità emozionale dell’esordio Songs of Praise. Burning by Design apre il trittico finale che alza il livello dell’intero album: stavolta il tema è l’opportunismo e il sentirsi sfruttati, una sensazione che i membri della band hanno provato anche a livello professionale. A Rolling Stone Charlie ha dichiarato di aver trovato l’ispirazione mentre si trovava in vacanza in Sicilia. Il brano si apre con una lenta linea di basso che taglia con cura i pensieri fino al ritornello in cui le chitarre aprono la strada alla voce roca del frontman. La coda è uno sfogo rumoroso dove sopravvive una sottilissima linea melodica nella distorsione totale.
Different Person è una delle prove migliori della band in assoluto, la sintesi perfetta tra la schizofrenia del passato e la semplicità ricercata del presente. Una canzone che cambia in continuazione: si comincia con una chitarra ipnotizzante, la batteria è senza respiro – geniale come in Born in Luton – e le pedaliere vengono sfruttate sempre più. Cambiano le persone, cambiano gli amici e cambia lo stile: punk-rock, poi psichedelia, math rock e anche un tocco di funky. Il caos ordinato prima del pathos finale.
All the people that you're gonna meet
Don't you throw it all away
Because you can't love yourself
Una chitarra acustica accompagna il canto, l’elettrica ricama e si comporta da seconda voce. Anzi, da terza bisognerebbe scrivere, perché qui, più di ogni altra canzone, un ruolo preponderante ce l’hanno i cori dei Eddie e Sean. All the People è la continuazione ideale di Fingers of Steel, la liberazione definitiva, un ultimo appello affidato a un ritornello folk-punk da urlare. Il bagaglio emozionale è quello del britpop, il messaggio invece è inedito. Essere “cibo per vermi” vuol dire sì, essere quasi morti, ma allo stesso tempo il sentirsi vicini alla morte può diventare lo stimolo per una rinascita. Non buttare via le vite che si intersecano con la propria, ma soprattutto non buttarsi via.
Food for Worms è stato definito dai cinque londinesi come la loro Lamborghini, tuttavia, l’accelerazione non è proprio il suo punto di forza. A fronte di una prima metà che non mantiene le aspettative del primo singolo, il disco cresce e sale di livello dalla quinta traccia in poi. La band inglese si sgancia da ogni sovrastruttura e abbandona la tendenza a rendere iper-complicato ogni passaggio. Come allora non si poteva parlare di ostentazione, oggi non si può dire che si tratti di semplicità fine a se stessa.
Gli shame hanno scelto di guardarsi intorno e descrivere ciò che il mondo aveva loro da offrire e sono finiti col registrare il loro lavoro più personale, stavolta non incentrato sul frontman ma sull'organismo complesso della band. L’amicizia non è solo l’ingrediente essenziale del loro terzo album, ma è il carburante che alimenta la loro intesa e la loro musica. Food for Worms è una rinascita che si manifesta nella melodia dei ritornelli, nel canto più equilibrato di Charlie Steen, nelle chitarre di Eddie Green e Sean Coyle-Smith - che sanno quando osare e quando tirare il freno a mano - nel basso di Josh Finerty - diventato più denso e presente - e nella batteria di Charlie Forbes al quale non si può contestare nulla a prescindere.
Gli shame ce l’hanno fatta, proprio quando sembrava che tutto stesse crollando.