Lenin Forbes. Se gli shame esistono ed hanno un nome lo si deve a Lenin Forbes che non è solamente il padre del batterista Charlie, ma colui che grazie all’amicizia con il proprietario del Queens Pub di Brixton ha permesso agli allora cinque quattordicenni, oggi membri della band, di entrare in contatto con il mondo controverso del punk rock. Lì hanno conosciuto i Fat White Family e il genere di musica che iniziava a (ri)farsi strada in Inghilterra, hanno racimolato i primi strumenti usati e hanno fatto ascoltare per la prima volta una versione demo di One Rizla.
Lenin Forbes ha avuto un ruolo fondamentale anche in questo secondo album, infatti è stato lui a trovare a Charlie Steen, frontman della band, un monolocale in una vecchia casa di cura in cui rigenerarsi e passare i mesi successivi all’estenuante tour. Charlie, dopo aver pitturato tutte le mura di rosa, ha scritto gran parte dei testi in solitudine, compiendo un viaggio nel proprio subconscio. Drunk Tank Pink indica proprio la tonalità di colore rosa Baker-Mill pink che alla fine degli anni Sessanta lo psichiatra Alexander Schauss, basandosi sugli studi di Max Lüscher riguardo all’influenza dei colori sulla personalità e l’umore, individuò come quella capace di rilassare il sistema nervoso umano. Per questo motivo alcune celle dell’istituto penitenziario di Seattle vennero dipinte di rosa su suggerimento dello stesso Schauss. Da ciò deriva anche il nomignolo Drunk Tank.
Drunk Tank Pink è l’album della presa di coscienza e del rilassamento, dedicato ai live show, ora purtroppo fermi, oltre al sopracitato Lenin Forbes, soggetto delle due foto sulla cover del disco.
L’opera seconda degli shame si apre con Alphabet, una traccia adrenalinica, un flashback improvviso che conduce direttamente ai piedi del palco. Il concerto è appena iniziato e Charlie Steen è a petto nudo come al solito, pronto a condurre il gioco e dirigere la folla. E così è stato ogni sera per un anno e mezzo, come una scimmia ammaestrata: «Monkey see and monkey do / Just like me in front of you».
Le prime cinque tracce dell’album offrono la descrizione della centrifuga emotiva e fisica che il tour ha rappresentato per Charlie Steen e la sua band. Dando spazio alle più svariate influenze, il frontman ripercorre nella propria mente quei giorni e quella routine esaltante e distruttiva allo stesso tempo, fatta di viaggi, prove, show e birre post-concerto. Nigel Hitter sfrutta in questo senso la metafora della candela che si sta bruciando da entrambe le estremità, (That's my candle / I'm burning at both ends), abbandonandosi ad uno stile schizofrenico in cui si possono individuare senza dubbio i Talking Heads.
I need a new beginning
It just goes on
It just goes on
It just goes on
It just goes on
And on and on and on and on
Born in Luton, già eseguita live sotto la sigla-pseudonimo Bil, è un’ulteriore variazione di stile. Inizia con un ritmo forsennato scandito dal tremolo della chitarra elettrica alla Brianstorm, per poi rallentare drasticamente nel ritornello, dove emerge tutta la disperazione ed il cantato diventa quasi un grido di aiuto. Luton è una cittadina nel sud di Londra, situata a circa cinquanta km dal centro della capitale, probabilmente una casa per i membri della band, che però qui è rappresentata come un appartamento chiuso e vuoto nel quale non è possibile più entrare. La lontananza durante il tour cambia la percezione di ogni cosa e nulla è come prima, non esiste più un luogo di appartenenza. Divenuti per qualche ora cittadini di ogni paese e città in cui si è fatto tappa, ora che tutto si è fermato, si è intrappolati nella condizione di apolidi.
Una delle novità più importanti che caratterizzano il secondo album è la varietà stilistica, forse uno dei pochi difetti dell’esordio Song of Praise (2018) che invece non lasciava spazio a sorprese ed era omogeneo dalla prima all’ultima traccia. Tra i vari esperimenti compiuti in Drunk Tank Pink c’è il tentativo di andare a sfiorare delle sonorità più orecchiabili strizzando l’occhio al pop. March Day, giocando questa volta più ironicamente sul tema della routine disintegrante del tour, è un garage rock spensierato costruito su un riff dal sound newyorkese, sembra quasi di ascoltare la chitarra di Albert Hammond Jr degli Strokes.
Get yourself up kid
You're a bit too late
Get yourself up kid
Same old mistake
L’altra canzone che una volta ascoltata rimane in testa è Water in the Well, uno dei pezzi più riusciti dell’album. Brano classico, quasi nostalgico, in cui si percepiscono la matrice britannica e il grande debito che il mondo della musica punk-rock ha nei confronti di band come The Clash e The Fall.
La seconda parte dell’album assume dei toni differenti, il sound diventa più ricercato e cupo, così come i testi. Snow Day è una piacevole sorpresa in questo senso. Spoken, batteria stupefacente e chitarre ambient ci conducono nel subconscio di Charlie Steen che oramai ha smesso di ricordare attraverso i flashback il tour passato. La mente è una prigione tinta di rosa circondata dalla neve dove rifugiarsi chiudendo gli occhi, ripensando dolorosamente al conforto di un amore perduto. Un viaggio tra realtà e sogno, in bianco e nero come nel videoclip.
Il tour nella stanza mentale di Charlie prosegue con Human, for a Minute, brano scritto e poi scartato dal disco d’esordio, a metà strada tra new wave e rock psichedelico, con un basso ed un groove irresistibili. Forse il brano stilisticamente più isolato del disco, un po' Depeche Mode, un po' AM degli Arctic Monkeys, sicuramente quello col testo più personale e profondo. Un mosaico di sogni, rimpianti e mostri.
I watch my bones dry and shatter
For what purpose do they serve?
I don't feel that I can keep them
I don't feel that I deserve
To feel human for an hour
Or even for a minute
Gli shame per la realizzazione del loro secondo album si sono affidati a James Ford, uno dei produttori più importanti della scena indie-rock mondiale, che in passato ha collaborato con artisti del calibro di Depeche Mode, Arctic Monkeys, FOALS e Florence and the Machine. Hanno poi registrato il disco ai La Frette Studios di Parigi, lo stesso studio residenziale scelto dagli IDLES per il loro ultimo lavoro Ultra Mono, divenuto celebre nel 2018 per aver ospitato Alex Turner e soci per la lavorazione di Tranquility Base Hotel & Casino. Le ultime due tracce sono il risultato più evidente di questa scelta. Harsh Degrees colpisce immediatamente per la comparsa di elementi elettronici e per i riff veloci che si alternano per tutta la durata del brano. Le pedaliere ed i suoni disturbanti ammutoliscono poi improvvisamente e creano un contrasto piacevole con l’ultimo pezzo.
Station Wagon, come lo era stata Angie nel primo album, è la canzone più lunga del disco. Charlie, in un crescendo vocale che si accompagna a quello strumentale, parla del proprio vuoto interiore causato dalla serie di eventi che hanno stravolto la sua vita negli ultimi anni. La Station Wagon che batte la strada è la sua carriera che non si ferma, i concerti e le tappe del tour che lo fanno sembrare una piuma in balìa del vento. La stupenda transizione col pianoforte coincide con la visione di una nuvola e dà inizio alla seconda metà della traccia. È un omaggio ad Elton John e alla leggenda secondo la quale pare che una volta abbia chiesto ad un suo assistente di spostare una nuvola che copriva il sole. Gradualmente, di pari passo con tutto il resto degli strumenti che ricompaiono a mano a mano, la voce narrante si fa sempre più sofferente e disperata, fino a diventare un vero e proprio urlo soffocato dal rumore crescente.
«And I hate myself but I love myself» è il verso ripetuto più volte al termine di 6/1 e per certi versi può rappresentare la sintesi dell’idea alla base dell’album. L’opprimente contraddizione di aver raggiunto il successo in ciò che si ama, arrivando però fino al punto di odiare quello stesso sogno divenuto realtà. Drunk Tank Pink è sorto dalle stesse ceneri e sensazioni che hanno ispirato il secondo (meraviglioso) album dei Fontaines D.C., la cui genesi è stata pressoché identica: la disillusione e la stanchezza provocate da un sogno divenuto lavoro costringono alla razionalizzazione emotiva e al ricalcolo delle priorità.
Il secondo album degli shame è privo della rabbia del debut, il fumo e l’odore di birra del pub si avvertono appena nella spensierata Great Dog. Dominano i tempi rallentati dei ritornelli, i cambi di range e le evoluzioni della voce di Charlie che passa dal parlato allo scream con una facilità disarmante e l’intimità surreale ed onirica dei testi. Tuttavia, è la varietà stilistica l’arma principale scelta per superare l’impasse mentale ed emozionale. In essa risiede la novità e per questo motivo, insieme alla scrittura, è uno dei pregi maggiori del disco.
Drunk Tank Pink tiene il passo e si snoda dalla ripetitività del suo predecessore andando a sondare terreni finora inesplorati e mostrando nuove sfaccettature. Pur non rappresentando una vera e propria innovazione musicale e senza raggiungere le vette elevatissime del già citato A Hero’s Death (2020), fresco candidato ai Grammy Awards 2021 nella categoria Best Rock, con il quale condivide le intenzioni, questo secondo lavoro mette ancora una volta in risalto l’enorme potenziale dei cinque ragazzi provenienti dal sud di Londra. Un album che dal vivo, come spesso accade, suonerà ancora meglio.
La scena punk e post-punk britannica è maledettamente viva e sta allargando sempre più i propri confini, e questo è anche merito degli shame che ne fanno parte a pieno titolo.