Sono le cinque di un pomeriggio Londinese di inizio Ottobre. Fa innaturalmente caldo, ed io sto ribollendo dentro la mia felpa marchiata Young Lovers Club camminando con un’amica su Brick Lane. Forse non è stata l’idea migliore del secolo indossarla, ma stiamo andando al concerto degli Slaves, una performance in-store nel celebre negozio di dischi Rough Trade, e il design di quella felpa l’ha fatto il loro chitarrista. L’atmosfera che si respira nel cortile di fronte al locale, sulle panchine dei pub e lungo i marciapiedi popolati di gente seduta a fumare e a bere è quella di un concerto qualsiasi, di una band emergente qualsiasi, una sera qualsiasi. Ragazzini poco più che maggiorenni, punk attempati dai capelli decolorati malamente che si atteggiano da duri nei loro gilet borchiati. Un ragazzo e una ragazza cospargono meticolosamente i muri della zona di adesivi raffiguranti l’hashtag #TAKECONTROL e l’illustrazione di una testa di donna ricoperta da un passamontagna rosa. E’ un grande evento, è il giorno di lancio dell’omonimo disco della band.
Davanti a noi cammina Isaac Holman, cantante e batterista. Lo indico alla mia amica, ed entrambe lo seguiamo con lo sguardo mentre parla al cellulare, guardandosi attorno come in cerca di qualcosa. Entra eventualmente nel pub di fianco al negozio, dove raggiunge l’altra metà della band Laurie Vincent, la sua ragazza, il manager e un gruppetto di amici. Si fatica quasi a credere che quella stessa band abbia un contratto con una delle major discografiche più importanti al mondo e che sia stata in lista per un Mercury Prize.
Quello in cui non si fatica a credere, al contrario, è la forte personalità degli Slaves. Se con il disco d’esordio Are You Satisfied? il quale si presentava come un lavoro punk rock pericolosamente tendente al commerciale avevano instillato qualche dubbio sulla loro autenticità, Take Control sembra quasi sfidare il pubblico a ricredersi. Un secondo album che anziché farsi pioniere di una nuova direzione, come tradizionalmente succede in campo musicale, si presenta come un ritorno alle origini: una mossa azzardata all’apparenza, ma senza ombra di dubbio meticolosamente calcolata. D’altronde non è così difficile da comprendere. In un panorama musicale dove i talent show e la finzione volta al fare audience, la genuinità vende. E’ un ragionamento del tutto logico. Ma nel caso del duo di Turnbridge Wells, è davvero autentica?
Spit It Out, primo singolo promozionale nonché brano di apertura del disco, è il chiaro segno che qualcosa è cambiato. Una brutale dichiarazione di intenti urlata spudoratamente in faccia all’ascoltatore. Per chiunque seguisse il duo dagli esordi, ricorda molto Beauty Quest, uno dei primi pezzi da loro pubblicati.
Seguono Hypnotised e Take Control, pezzi punk nudi e crudi tanto nel sound quanto nei testi. Una critica spietata alla società odierna, alla TV e i media in generale nonché alla mancanza di reattività da parte della generazione dei cosiddetti Millennials. Un invito alle armi, attorno al quale si sviluppa l’intera tattica promozionale del disco omonimo. Quella riguardante il contenuto dei testi è la principale grande differenza rispetto al disco d’esordio Are You Satisfied?, i cui brani presentavano dei testi per la maggior parte ironici, con alcuni sprazzi di critica in ogni caso sempre velata e prudente.
Segue Consume Or Be Consumed, pezzo con influenze rap che vede la collaborazione con Mike D, ex membro dei Beastie Boys nonché produttore dell’intero album, a cui Isaac si riferisce ironicamente nel testo del terzo singolo estratto People That You Meet: “I know a man called Michael / He hails from NYC / Now he lives in Malibu In a mansion by the sea / Production is his game now / He called my friend Laurie / He used to be a Beastie Boy but now he works for me”.
Altri pezzi degli di nota sono Rich Man, il cui testo rappresenta un’invettiva spietata contro membri dell’alta società (nella sua versione live, introdotto da Laurie ed Isaac che urlano in coro “FUCK BREXIT”. So punk.) e Steer Clear, secondo featuring dell’album con la partecipazione di Baxter Dury, musicista indie nonché figlio d’arte di Ian Dury dei The Blockheads. Di mezzo troviamo Fuck The Hi-Hat, un degenero della durata di soli 44 secondi durante il quale Isaac non fa altro se non urlare rabbiosamente le parole del titolo.
Gli Slaves sono una di quelle band che hanno fatto abbastanza strada da potersi permettere di ritornare indietro. Quello che li contraddistingue, nonché il loro cavallo di battaglia, è la pungente autoironia che hanno adottato da sempre come immagine per il loro progetto. Sono un duo affiatato, che interagisce in maniera genuina con il proprio pubblico, sia di persona che online. Non è finzione, non è marketing costruito a tavolino, è semplicemente sfruttare la propria natura a proprio favore, al momento giusto. Un momento nel quale il pubblico è affamato di autenticità musicale, di una dimensione di nicchia e personale anziché fredda e su scala mondiale.
Nonostante una nomination al Mercury Prize, singoli perennemente presenti nella A-List della BBC Radio1, un contratto con la Virgin EMI e una linea di abbigliamento in vendita da Selfridges, Isaac e Laurie appaiono come due ragazzoni del Kent che portano ancora le rispettive intere famiglie ad assistere alle loro performance, e che ad ogni complimento rivolto loro da un fan danno l’impressione di non riuscire ancora a credere fino a dove siano riusciti ad arrivare in così poco tempo.