Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, in cuffietta i National. La band americana incarna tutto ciò che è autunno: le foglie rosse e gialle che lentamente cadono, l’aria fresca che accarezza le guance, il cielo grigio piombo. Ma Matt Berninger ha deciso di accantonare temporaneamente le atmosfere malinconiche newyorkesi di "Trouble will find me", per gettarsi in ritmiche da Sunset Boulevard con l’amico Brent Knopf (membro dei Menomena e dei Ramona Falls), formando gli EL VY, che secondo il duo dovreste leggere come il plurale di Elvis.
La collaborazione dà vita a Return to the Moon, la cui trancklist per il cantante dovrebbe unire il suo umorismo dark con l’inventiva produzione di Knopf. Si parte con la traccia che dà il nome al disco, primo singolo pubblicato il 4 agosto scorso. Il gruppo non parte con il botto, il pezzo ha un riff di chitarra e basso molto comune, che potrebbe suonare molto bene durante un festino alternativo a bordo piscina, a base di cocktail raffinati. Quando poi le ore si fanno piccole si potrebbe far risuonare I’m the Man to be in cui Berninger tenta di lasciare da parte la caratteristica voce strascicata per un pezzo sensuale, in cui si infila la tastiera di Knopf e che ci immerge in un hotel per uomini con cravatte Louis Vuitton e Malin and Goetz drink. I toni si placano con Paul is Alive, in cui l’eco dei National si fa sentire, ma il loro rock viene trasformato in un terzo brano dalle sfumature elettroniche e dal carattere autobiografico: infatti il frontman ha voluto racchiudere qui parte della sua vita a Cincinnati.
Tra alti e basso, l’album ritorna ad uno stile più frizzante e trascinante grazie a Need a Friend, 3 minuti e 21 secondi in cui in una Cadillac con la capote abbassata, ci trasciniamo per una Hollywood notturna accompagnati da un ritornello incalzante per la combo di batteria, keybord e parole ricorrenti. Accostiamo quando cogliamo le prime note: “How long have you been here”, così inizia Silent Ivy Hotel, quella che vuole essere una ballata romantica dal classico vecchio tempo, ma che viene tradita da un cambio di ritmo nel ritornello.
Arrivati a metà album ci si rende conto che questa collaborazione non può essere come quella, ai bei tempi, tra Jack White e i Raconteurs. Certo, le melodie sono abbastanza accattivanti, carine, orecchiabili, persino ballabili a tratti, ma lasciano interdetto l’ascoltatore. C’è qualcosa che non va. Bingo, la voce! Il baritono di Matt Berninger è inconfondibile, l’allure di tristezza che emana la si percepisce in un secondo, ma qui è fuori posto, base e voce corrono su due lunghezze d’onda perpendicolari, e quando si incontrano ricordano i Phoenix, più sofisticati e chic, ritrovatisi all’evento dell’anno, di cui però sono totalmente disinteressati.
Si riparte con No Time to Crack the Sun e It’s a Game, entrambe cominciano bene, la prima con un chiaro pianoforte, la seconda con una chitarra acustica, a cui però si miscela una batteria prefabbricata vista un milone di volte su MTV. Fortunatamente il cd riacquista valore proseguendo con le sonorità più sintetizzate di Sleeping Lights, piccola traccia che fa ondeggiare le spalle fin dall’inizio e che potrebbe riportarci al clima da poolparty, a cui si innesta una chitarra più graffiante che apre Sad Case, forse una delle canzoni più rock del disco con la sua chitarra e batteria chiare, quasi cristalline, considerate le tracce precedenti. La sua fine/non fine mi lascia un po’ spiazzata, perché con un colpo ci si para davanti Happiness, Missouri 120 secondi che potevano essere la continuazione del pezzo prima, il cui protagonista è il misterioso Michael. Didi invece è il suo alterego femminile, protagonista di Careless, brano dal tipico testo alla Berninger, che tristemente, come nella migliore delle tradizioni, trasporta l’ascoltatore verso la fine, con un ritmo lento e melanconico, che potrebbe dare l’input al nuovo lavoro del quintetto della Grande Mela.
Ormai sono le 18 e fuori è già buio, perciò per attutire la mia tristezza per l’assenza di luce, faccio partire i National, il punto di partenza e d’arrivo di Matt Berninger, il quale appende al chiodo il gilet nero per indossare uno smoking bianco da west coast, che all’apparenza può sembrare cool, ma poi ti accorgi che anche metà degli invitati hanno la stessa giacca e lo stesso paio di pantaloni, facendo sembrare il barbuto cantante uno dei tanti già visti.