Erano gli anni ’80. I capelli cotonati, i leggins fluorescenti, le gonne in toulle. Le camicie Gianni Versace per lui. Le auto erano inspiegabilmente tutte squadrate. Gli stereo trovavano spazio sulla parte destra della spalla e pesavano tonnellate. L’Italia vinceva i mondiali contro la Germania. Gordon Gekko e Pat Bateman erano gli idoli e allo stesso tempo il terrore di Wall Street. Stephen King iniziava a dare alla luce i suoi racconti più inquietanti e famosi. Pacman e Super Mario erano pronti a conquistare il mondo. Milioni di adolescenti appendevano alle pareti delle loro camerette i poster di “The Breakfast Club”. Take on Me diventava l’inno nazionale statunitense.
Potrei aggiungerci “nascevano i Blossoms”, ma ahimè i 5 ragazzi sono tutti nati nel decennio successivo e all’apparenza sembrerebbero una delle centinai di giovani band emergenti che costellano il panorama indie britannico, con i loro Levis ultra skinny e i giubotti in jeans, metà del guardaroba rigorosamente nero. La brutta copia dei Catfish and the Bottlemen si potrebbe pensare. Invece l’apparenza inganna, no? Infatti appena si appoggia la puntina sul loro debut Blossoms, ci si chiede se non siano sbarcati direttamente nel 2016 con la DeLorean, l’auto di “Ritorno al Futuro”: tastiere cristalline, la voce protagonista di Tom Ogden, la chitarra elettrica che emerge durante il ritornello, il basso trascinante. I Blossoms sono una sorta di Doppelganger di tutto ciò che di meglio ci potesse regalare il catchy pop dei Duran Duran e dei Culture Club.
Le dita si trascinano veloci sulla tastiera, “Hello, hello” sono le prime parole che si sentono e che danno il benvenuto a Charlemagne. La band inizia letteralmente con il botto, piazzando per primo uno dei singoli più belli e accattivanti. Proprio al primissimo posto quel miscuglio retrò che me li ha fatti scoprire e di cui mi sono innamorata, in loop per tutto il mese di luglio. Già a questo punto ho deciso che sarà il mio album dell’anno. Gli strumenti si trascinano verso la fine, lasciando spazio a At Most A Kiss, in cui ritornano alla carica imperanti: i veri protagonisti della scena, a cui però si accosta la voce di Ogden. Sembra quasi fondersi con loro, ma in Getaway si fa chiara e limpida: il ragazzo dagli occhi azzurri guarda dritto il pubblico e lo cattura con un vortice lento accompagnato da sole 2 note elettroniche che si infilano tra i timpani e ne escono solo dopo 3 minuti. Siamo al quarto pezzo di 12 e parte Honey Sweet, la mia preferita. Non so se sia il testo, quella tastiera iniziale a cui si aggancia la batteria, o il fatto che i versi siano più lenti e gli strumenti quasi in sordina, fatto sta che il risultato è un crescendo che raggiunge il suo apice nel bridge, in cui è impossibile non alzarsi, chiudere gli occhi e iniziare a schioccare le dita mentre si fa ondeggiare la testa.
Ragazzi tendete il braccio destro verso le vostre amate, invitatele a ballare sulle note di questo lento: Onto Her Bed è una delle poche tracce fuori dal coro di quest’album, in cui il cantante si accompagna ad un pianoforte ed insieme, scanditi dalle percussioni, si dissolvono verso la fine. Il quintetto ricompare con Texia, brano dai sapori più alternative classe nuovo millenio, dove la chitarra di Josh Dewhurst e la batteria di Joe Donovan tornano al loro posto, creando qualcosa di più simile agli Wombats o ai Two Door Cinema Club che ai Simple Minds. Come non detto, Myles Kellock riporta indietro le lancette dell’orologio con Blown Rose, una nostalgica ballata con un bridge caratterizzato dal giro di basso che non fa altro che amplificare il tutto. Smashed Piano invece comincia con un ritmo New Age (Brian Eno, c’entri sempre tu?) dai risvolti più cupi, che si colora nel ritornello più allegro e rimato. Uno dei brani più deboli del disco, a cui però segue subito dopo Cut Me and I’ll Bleed, in cui la voce striscia attraverso le casse dello stereo, a mò di quella di Turner, aprendo ad un ritornello che in un attimo entra in testa e fa scattare il singalong accompagnato al battito di mani. Ci mancava solo l’assolo di chitarra. Vi prego, smettetela di rendere questo album una gioia per le mie orecchie.
Un disco indie non può ritenersi tale senza un pezzo acustico, intriso di mielosi ricordi e parole: My Favourite Room si compone solo di una chitarra acustica, voci e qualche leggera nota di piano in sottofondo. La hit capace di farti zittire e accapponare la pelle durante un live che etichetterai come uno dei migliori dell’anno. Accantoniamo la scatola di Tempo e riprendiamoci con la batteria di Blow su cui, verso la fine, campeggia una chitarra elettrica sporca, in puro stile Seventees, come l’apparenza e il baffo di chi la imbraccia potrebbe far credere. Non si può incominciare un album con uno stile e chiuderlo virando verso un altro, infatti con Deep Grass la band crea un lento sincopato in cui si mescola due ere, due stili, due modi di fare musica: i suoni elettronici degli anni ’80 rivisitati in chiave moderna grazie all’andamento tranquillo e ipnotico, ma allo stesso tempo capace di catturare l’attenzione dell’ascoltatore e trasportarlo in estasi verso il quarantesimo minuto.
Sono gli anni ’80, ripresi da un gruppo di giovanissimi che neanche li hanno vissuti, e io, da ventenne nostalgica per non essere riuscita a vedere qualcuno dei gruppi di allora, non posso che amarli. A parte qualche pecca nelle tracce più lente, amo quest’album, amo le ritmiche, amo la tastiera, amo cantare queste canzoni, amo gli occhioni dolci di Myles Kellock. Ora capisco perché gli Stone Roses hanno scelto proprio loro per aprire il loro attesissimo ritorno in quel di Manchester. E capisco perchè fossero amati dai fan anche prima del lancio del debut, senza tenere conto delle loro simpatia sui social. In un 2016 che non mi stava convincendo musicalmente ed io già in ansia per chi avrei scelto per la classifica di fine anno, non ho dubbi. Ora scusatemi, vado a rispolverare l’armadio di mia madre e penso mi farò una maratona con tutti i cult del Brat Pack.