Da più di un decennio le nostre orecchie sono abituate al nome di Miles Kane, astro non più nascente della galassia indie inglese, un abile chitarrista di trentadue anni che sogna di brillare allo stesso modo di quegli eroi albionici che hanno rivoluzionato il nostro modo di intendere la musica: John Lennon; Paul Weller; Liam Gallagher. Questa cometa eremita nel vasto cielo sfavillante di Los Angeles ha appena concluso il suo ciclo di cinque anni, un percorso a dir poco tranquillo segnato da collisioni con meteoriti massicce (Alex Turner; Mark Ronson; Matt Bellamy), da tour da capogiro, da “incontri ravvicinati del terzo tipo” con un sentimento a lui ancora alieno, l’amore, recentemente esposto nella sofferenza della concupiscenza in Coup De Grace (Virgin EMI Records, 2018), un concentrato energico e frizzante di beat, glam rock, punk e britpop sputato su dieci tracce feroci e stridenti, grida di lotta di un wrestler – ahinoi – ancora in erba.
Le prime minute del terzo lavoro di Kane risalgono a circa tre anni fa, quando fresco di trasferimento in California l’uomo fu vinto da un desiderio maggiormente allettante: intraprendere una nuova avventura con «Al», l’amico di sempre. Everything You’ve Come To Expect lo forgiò in una nuova corazza, gli portò via quell’istinto originario del suo essere musicista spostandogli il baricentro in nuovi orizzonti. Avvenne –fu inevitabile– che quegli schemi solisti impolverati non gli furono più graditi a fine 2016 e ritenne necessario impegnarsi su fronti mai valutati prima di allora. Estratto dalla fucina di Loren Humphrey, il nucleo primario Coup De Grace [sic], Silverscreen e Shavambacu fu lavorato in compagnia dei turnisti dei Puppets; in esse si percepisce la nota sbarazzina e bonariamente eversiva che compone il marchio di fabbrica Kane con un pizzichino di novità: un inno di battaglia sulla scia dei revivalisti degli anni Ottanta che somiglia più alle baruffe tra Bud Spencer e Terence Hill che ad un severo ammonimento; una descrizione di uno spezzone di un action movie noiosissimo sulle note dei Damned; una sensualità da Roaring Twenties di un provolone dolce che rischia di mettersi in imbarazzo per i cattivi voti delle sue verifiche di francese.
La gag con il campione della WWE Finn Bálor (suo è il diving foot stomp a cui Kane si è ispirato per il titolo dell’album) ripresa nel videoclip di Cry on my Guitar (un chiaro omaggio a Marc Bolan) conferma quanto immaginato fino ad ora: Kane non ama affrontare la vita con troppa serietà, preferisce intrattenere il pubblico con il suo humor da scouse, con i suoi gesti da imperatore contorsionista nell’anfiteatro, con le sue toccate e fughe accompagnate dal tremolo e dalla sua irreprensibilità professionale in attesa di far comprendere una volta per tutte agli ascoltatori che non è un moccioso che scimmiotta Pete Townshend. Il Miles di Coup De Grace è un ragazzaccio ispido con la dipendenza per le Bad Habits, frenetico istrione che non si preoccupa né di mantenere la propria distanza di sicurezza né di prevedere di sbattere il muso contro il volante. Si descrive pazzo in Loaded, si accusa di Killing The Joke, è sopraffatto dai rimorsi ma si ritiene incapace di reagire (Too Little Too Late; Wrong Side Of Life), così si racchiude in se stesso per sognare i bei vecchi tempi (Cold Light Of The Day) in cui sperava semplicemente di avere Something To Rely On. Tutto sembra presagire un esito infausto: Pierrot è destinato a versare una lacrima nera nonostante le corde della sua chitarra producano suoni briosi.
L’acuta malinconia che pervade l’animo di questo incorreggibile fanciullo è la conseguenza di una malattia devastante diagnosticata nel gennaio del 2017, il cuore spezzato. La fine di una relazione sfibrante compromise la fiducia di sé; i vecchi ricordi gli annebbiavano la mente, gli impedivano di imbracciare la sua fedele chitarra. Le lacrime di coccodrillo bagnavano la sua camicia leopardata: lui, aspirante Sebastian Wilder, aveva perso la sua bellissima (ma troppo impegnativa, come ha lasciato intendere in un’intervista) Mia Dolan! Fortunatamente non durò a lungo la sua degenza, il sodalizio artistico con Jamie T. e Lana Del Rey (autrice dello spietato coro di Loaded) rimise in movimento gli ingranaggi ossidati dal livore. È rimasto qualche retaggio del morbo, un’eccessiva credenza di essere stato la vittima. Treays è un salvatore, ha incoraggiato l’amico ad essere più ritmico, ma la sua influenza è più evidente a livello testuale: qualche verso spezzettato ma più concreto delle visioni surreali di Turner in Aviation, un senso critico più sviluppato, probabilmente frutto di un’abitudine alla lettura (di cui Kane ha più volte affermato di essere allergico), un’ampia paratassi che però non vince a braccio di ferro con le chiusure copia–incolla tipiche di ogni canzone del Wirral Rider (o per far innervosire qualcuno, à la Oasis). In queste tracce non si trova nulla di più kanesiano di Wrong Side Of Life.
La novità più eclatante della carriera del mod è la virata verso il punk degli anni Settanta; impossibile non mettere in relazione l’attacco della prima traccia con il noto «1 – 2 – 3 – 4» di Dee Dee Ramone. L’intento di Kane era quello di rendere sporco e ringhioso un crooning e di velocizzare l’andamento comune del rock ‘n’ roll, ma in Coup De Grace non c’è compatibilità con i testi di quella decade: i quattro “fratelli” newyorkesi sentivano maggiormente la loro distanza dai Beatles nella proposta di power ballad banalizzate e sgarbate, Miles Kane tende a referenziarsi con una drammaticità tale da sembrare l’imputato di un tribunale allestito in uno studio hollywoodiano. È maggiore la sua fedeltà ai Damned, con la loro ripetitività nei giri di chitarra, con quelle poche soluzioni di ritmo perché si sa, il punk era anche suonare alla meglio da autodidatti. Quello in Coup De Grace è fatto da professionisti completamente decontestualizzati, è un genere che ha perso i suoi slogan, di conseguenza gli effetti primari della sua forma di comunicazione. La giuria è divisa in due: i fan plaudono la versatilità di Kane, disinvolto nel passaggio da un genere a un altro, mentre la critica è delusa dell’impensabile regressione artistica dell’uomo, ritenendolo più un performer che un artista completo perché in questa occasione non è stato un interprete dei classici sottogeneri del rock ma un tremendo esecutore di cover.
Miles Kane non è il migliore in circolazione, eppure è tra i primi nomi che balzano nella mente quando si tratta di annoverare i musicisti inglesi più influenti degli ultimi tempi. Ha un grande merito, quello di tenere vivo il ricordo dei miti della sua terra in maniera molto personale. È un ragazzo di buon cuore, spesso nei guai per la sua inquietante ingenuità, e lo ha dimostrato quest’anno nell’album più intimo della sua carriera. Il suo tema principale, però, satura il complesso, il forte desiderio di cambiamento; si teme di rimanere nauseati nel flow mellifluo, si rimane inorriditi dalla sua ristrettezza di vedute: è forse questa la finisher che metterà l’ascoltatore al tappeto?