Big Sigh Marika Hackman
8.0

Dall’inizio della sua carriera, come opening act per la madrina artistica Laura Marling, fino all’approdo in scuderia Sub Pop con I'm Not Your Man (2017), Marika Hackman si è creata una fanbase fedele ed eterogenea. Originaria di Brighton, classe '92, la cantautrice inglese ha infatti intrapreso in ogni album un percorso estremamente personale, difficilmente etichettabile solo e soltanto nel concetto di songwriter. L’attenzione dell'etichetta di Seattle è stata catturata dal sound spigoloso, costruito su basi contaminate dallo slowcore dei Codeine e dalla sensibilità della Joni Mitchel più contemporanea.

Marika Hackman press photo 2024
Photo credit Steve Gullick

Dopo l’uscita del magistrale Any Human Friend (2019) e Covers (2020), rilasciato durante il periodo della pandemia, Marika Hackman si è fatta attendere per quattro anni per tornare ora sul mercato con un lavoro che strizza l’occhio all’art rock e al cantautorato.

Big Sigh, primo album per Chrysalis Records, è infatti l’ennesima prova che pone la cantautrice all’interno di un nuovo percorso artistico, più pacato nelle sue intenzioni, preciso, dettagliato e sempre ispirato. Il quinto album della Hackman vive all’interno di una produzione estremamente coesa, suona come una necessità impellente, cresciuta e maturata in un processo ad ampio spettro sia performativo che espressivo. Questo mood più riflessivo emerge sin dalle prime note di Big Sigh. Dalle note della prima traccia The Ground, la songwriter britannica decide di non voler ancora concedere la sua voce, se non all’interno di tessiture semi distorte e un incastro di pianoforte, fiati e archi, che ricorda la Daydreaming dei Radiohead e i Cocteau Twins di The Moon And The Melodies.

Sarà invece la successiva No Caffeine a presentare una sezione ritmica serrata, immersa nell’interplay di synth e chitarre, sempre al limite di una distorsione squisitamente made in UK. Un brano molto più in linea con i gusti dei fan di vecchia data che qui ritroveranno sì la loro Marika, ma maggiormente contaminata dal post punk e dream pop.

E se la title track del disco richiama il liricismo di Kurt Cobain, così spento e vibrante nelle linee melodiche, la successiva Blood dà sfogo ad un intreccio melodico sognante, avvolto da orchestrazioni estremamente evocative. È facile infatti perdersi negli arrangiamenti di archi e fiati, sempre delicati, mai invasivi e volutamente posti in secondo piano rispetto alle voci.

L’apporto produttivo di Sam Petts-Davies (The Smile, Radiohead, Roger Water) sembra porre ordine alle idee di Big Sigh, che segue sin dall’inizio un andamento sonoro senza precedenti nella carriera della songwriter di Brighton. Viene evidenziata una necessità di attesa, il bisogno di esprimere un messaggio coeso e ragionato, senza smarrire alcuna genuinità artistica. La Hackman infatti in tutta la sua carriera non è mai stata così decisa, precisa nelle sue linee vocali e sonicamente omogenea. I dettagli di questo album risiedono in dinamiche repentine, crescendo alla Nyman e interventi ritmici di rottura. È quasi impossibile percepire degli strumenti totalmente clean o soluzioni dinamiche lontane dallo shoegaze.

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Dopo il breve intermezzo di The Lonely House, l’album accompagna l’ascoltatore verso paesaggi più sperimentali, dove l’utilizzo dell’elettronica e dei synth la fa più da padrone: se da un lato brani come Blood, Slime o la stessa title track, riportano alla memoria il grunge di Seattle, dall’altro, momenti come Vitamins e Please Don’t Be So Kind, mettono in mostra delle performance vocali di altissimo livello, immerse in arrangiamenti degni di Cat Power e Kings Of Convenience.

Ed è proprio Please Don’t Be So Kind il brano che più ci ricollega alla Hackman delle proprie origini, amante del folk e narratrice di storie di vita piene di quesiti e drammi irrisolti. I testi di Big Sigh sono infatti costellati di riferimenti al bisogno di riflessione di “sorseggiare un tè” o semplicemente vivere le proprie giornate all’interno di ciò che potrebbe essere chiamata dimora. Un luogo dove riflettere sul da farsi e su ciò che è stato fatto.

Tocca alla conclusiva The Yellow Mine chiudere questo bellissimo quinto disco. Un album dove Marika Hackman ha saputo raccontare la sua necessità di fermarsi, il bisogno di una dimora nella quale rilassarsi, fare sesso e vivere la propria quotidianità. Con un suono nato da una necessità impellente, cresciuta e maturata in un processo ad ampio spettro sia performativo che espressivo, che lascia all'ascoltatore il bisogno di ri-immergersi nei dettagli e nelle pause, nei rumori e nelle melodie, di una delle prove più mature del panorama alternativo contemporaneo.

Marika Hackman press photo 2024
Photo credit Steve Gullick