Jake Bugg
On My One
Uscita: 17 giugno 2016
Il terzo album, solitamente, porta grandi novità rispetto ai primi due, con risultati alternati. Per gli Oasis è stato l’inizio del declino, per gli Arctic Monkeys e gli Strokes un cambiamento che ha impiegato anni per essere apprezzato a pieno.
I Mumford & Sons hanno buttato via il banjo per l’occasione, con risultati piuttosto rispettabili; i Muse hanno prodotto l’album che molti considerano il loro migliore (Absolution).
Nelle interviste degli ultimi mesi, Jake Bugg si era esposto molto, dicendo che questo sarebbe stato un album “make or break”, decisivo. Ha rischiato: perché per la prima volta ha scritto tutti i pezzi da solo, senza aiuti di nessuno, rispondendo così anche a Noel Gallagher che aveva ammesso di essere rimasto deluso nel leggere i credits dei primi due dischi. E ha avuto anche il coraggio di inserire una traccia rap, neanche finita: doveva essere cantata da un vero rapper ma alla fine, per motivi di tempo, è rimasta nella versione originale, cantata da lui.
Gli ingredienti per una svolta ci sono insomma, almeno nelle intenzioni. Ma ascoltando e riascoltando le 11 canzoni non sento un’enorme differenza con il passato, non lo sento un album rischioso come lo ha presentato. Vediamo perché.
Già dall’inizio, On My One ci riporta nell’atmosfera del debut, ma con una nuova malinconia: “3 years on the road, 400 shows, where do I call home?” Gli anni di tour hanno avuto il loro peso, soprattutto per un artista singolo, che non ha compagni di band con cui condividere ogni momento. Il titolo della canzone è un modo di dire - sta per “on my own”, “per conto mio“ - e il fatto che dia anche il nome all’album fa capire quanto sia forte questa sensazione per lui.
Gimmy The Love è un grintoso cambio di ritma, una critica all’industria musicale che chiede solo canzoni di un certo tipo (“Dammi l’amore e basta”) per vendere il più possibile. Già presentato come singolo, è uno dei pezzi migliori del disco. Quasi ironicamente, il termine “love” ricompare nelle seguenti due canzoni, quasi ad accontentare quei produttori che chiedono solo quello: Love, Hope and Misery è una ballata molto, molto piacevole, mentre The Love We’re Hoping For sembra più una cantilena.
Put Out The Fire - poco più di due minuti di lunghezza - riporta per un attimo un ritmo più spensierato e sbarazzino, che si trasforma in jazzy in Never Wanna Dance. Dopo Bitter Salt, simile nelle sonorità a Gimmy The Love, ecco il pezzo rap: Ain’t No Rhyme. Sinceramente, da buttare via. Apprezzo il tentativo Jake, ma non ha funzionato.
Ci trasferiamo poi improvvisamente in Texas, con Livin’ Up Country - la mia preferita in assoluto - che insieme alla più lenta All That riprende la forte componente country che da sempre caratterizza Jake Bugg. Si chiude infine con Hold On You, in cui apprezzo più di tutto l’interessante chitarra. Un pezzo non indimenticabile ma neanche fuori posto.
Confrontandolo con il debut e Shangri La, nei primi due lavori avevamo trovato un binomio tra canzoni veloci ed energetiche - si pensi a Lightning Bolt, Taste It, Slumville Sunrise, What Doesn’t Kill You - e pezzi lenti e riflessivi - Simple as This, Broken, Song About Love, Pine Trees. In On My One la differenza tra le due parti è sempre presente, anche se più sottile: i pezzi più veloci sono meno movimentati; quelli lenti hanno quasi tutti comunque un ritmo.
In generale quindi, l’album suona come una piccola evoluzione, che non esce dai binari tracciati con i primi due lavori: la sensazione - come dopo Shangri La - è che Jake possa dare di più, molto di più.
Ma non sono preoccupato: a 22 anni è già al terzo disco, e se il suo destino è quello di erede di Bob Dylan, ne vedremo ancora tanti. Il cantautore americano, alla sua stessa età, stava appena pubblicando il secondo album, a cui ne sono seguiti altri trentacinque. Sì, trentacinque.
Di tempo ne hai Jake, usalo a tuo favore.