Un equilibrio precario, tra cambiamento e vecchie ossessioni. Il settimo album degli Interpol, più che “l’altro lato della finzione”, è espressione di un pericoloso barcamenarsi sull’orlo del precipizio. «Save me» ripete Paul Banks in quello che può essere considerato il brano manifesto del disco, proprio il numero sette. Scritto in pieno lockdown, tra Scozia, Spagna e Georgia, The Other Side of Make-Believe è l’ultimo tentativo di fuga della band newyorkese dal mondo a tinte fosche che l’ha resa una delle realtà musicali più importanti dei primi Duemila e nel quale è rimasta intrappolata per troppo tempo.
Tutto, o quasi, è spiegato dalla foto in bianco e nero che campeggia sulla cover dell’album: un coltello appoggiato ad uno specchio. La punta della lama che, toccando appena il vetro, stabilisce il punto di ancoraggio, dà l’idea di poter scorrere verso il basso da un momento all’altro, scalfendo la superficie. Questo lato della vicenda, fatto di incertezza e precarietà, quando tradotto in musica, affranca il trio americano dalla cupa ripetitività che lo caratterizza da anni. Non basta accennarlo, il cambiamento deve essere radicale: Toni, primo singolo e apertura del disco, e Something Changed peccano di coraggio. Nate entrambe al pianoforte, sono vittime sacrificali delle scelte della band. Poco riescono a fare le parole di velato ottimismo della prima, a fronte di un arrangiamento che ne ha standardizzato il suono sui canoni Interpol. Persino meno incisiva riesce ad essere la seconda: un pezzo lento e malinconico durante il quale la band cade per l’ennesima volta nel tranello “copia dei The National”.

Il vero protagonista del disco, oltre al regista dei tre stupendi videoclip finora pubblicati Van Alpert, è senza ombra di dubbio il chitarrista Daniel Kessler. Mr Credit vive del riff continuo e instancabile che anima il racconto in prima persona di una relazione a metà tra sogno e realtà. Uno dei rari casi in cui un pezzo vecchio stampo riesce comunque a suonare fresco. Apprezzabile in egual misura è la chitarra distorta che fa la propria comparsa nel bridge di Renegade Hearts. Un brano dal testo criptico, che prosegue il filone delle buone speranze cantate da Paul Banks, musicalmente affine al tipo di garage rock e post-punk americano anni Duemila. Come raccontato dal frontman, un grande lavoro su questa traccia è stato compiuto dallo storico produttore Flood (New Order, Depeche Mode, U2, Nine Inch Nails), in particolare nella cura delle percussioni. Il ritmo tenuto da Sam Fogarino dialoga letteralmente con la rapida successione di accordi di chitarra.
Sempre di batteria vive un altro dei brani che riesce in parte a scalfire la barriera emotiva: Into the Night è una canzone elaborata e lavorata al dettaglio che cresce dopo qualche ascolto. Viene rivalutato anche il basso, quasi relegato all’anonimato nel resto dell’album. La musica proietta l’ascoltatore nell’immaginario prediletto della band, ovvero un'auto, una città notturna e i pensieri che scorrono e danno forma a un ipotetico futuro proiettato nel mondo reale dalla luce dei fanali.

The Other Side of Make-Believe è un album figlio della pandemia e in quanto tale, rappresentando un qualcosa di eccezionale, ha scalfito e graffiato lo specchio. Per alcuni minuti, durante i pochi momenti vitali ed emotivi che il disco offre, il riflesso non mostra più la band di un tempo. La già citata Passenger trascina e culla l’orecchio con un arpeggio di chitarra e un ritmo di batteria che nelle strofe ricorda quasi un beat. Il ritornello che lo segue è tra le cose migliori e più emozionanti.
There's nothing so sacred, I ain't tried to chase it
Need something to hold, someone to grasp at
When I fall into a hole and fade into a flashback
Real close
Il sentimento di speranza e insperato ottimismo, una delle sorprese a livello lirico dell’album, è ancora più evidente in Fables. La struttura è sempre quella, tuttavia la melodia quasi sussurrata da Paul Banks nel ritornello e le frasi acide della chitarra nelle strofe, funzionano quasi come un tempo. Il testo sembra far direttamente riferimento alla pandemia: in un periodo storico pericoloso che dà poche certezze è necessario stabilire dei rapporti solidi per non annegare nella solitudine e nell’alcol. È finito il tempo delle favole, è ora di agire: «Say all is fine».

Da El Pintor (2014) a Marauder (2018), anche un po’ prima se si vuole essere meno indulgenti, gli Interpol sono spesso caduti nella forte tentazione della formula: brani opachi non solo nelle atmosfere, ma purtroppo anche nelle emozioni trasmesse. In questo settimo lavoro non mancano momenti noiosi, dove la band si ripete e sembra specchiarsi nel proprio passato. Il macigno costituito da Turn on the Bright Lights (2002), vent’anni proprio quest’anno, è evidente in canzoni come Greenwich e Gran Hotel. Due brani della stessa durata, uno di seguito all’altro, dei quali l’unica cosa che colpisce è la coda dissonante del primo con le seconde voci.
Ripetizione e voglia di provare qualcosa di diverso. La bipolarità del disco pende ancora troppo verso la prima tendenza, nonostante il lavoro su suoni e voce. Il finale dell’album è la dimostrazione perfetta di questa dicotomia. Big Shot City è un pezzo post-punk con un ritmo di chitarra che saltella per tutti i quattro minuti e la linea di basso che viene accorpata per qualche secondo a dei sintetizzatori. Si tratta forse della produzione migliore del disco, il passo più lungo a livello sperimentale compiuto dalla band. Il rammarico più grande è il fatto che ad esso faccia seguito un finale insipido. Go Easy (Palermo) è la canzone che gli Interpol scrivono e riscrivono da tempo immemore, non bastano il falsetto accennato nel ritornello e la breve durata a ridarle un po’ di slancio ed emozione.

The Other Side of Make-Believe ha il pregio di crescere ascolto dopo ascolto, ma i difetti sono sempre i soliti. La coppia Flood – Moulder, produttori del capolavoro Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, riesce solo in parte a graffiare lo specchio. Tuttavia, quando trascinano Banks e soci fuori dal seminato, i risultati sono notevoli. Poi ci sono i testi e lì i passi falsi sono quasi assenti: focalizzati all’interno, ma con uno sguardo nuovo sulla realtà esterna. Un percorso terapeutico contro la solitudine nella quale la pandemia ha gettato i membri della band.
Gli Interpol suonano rassicuranti ed è strano affermarlo. Questo settimo album riesce a nascondere per gran parte della tracklist i segni del tempo. Regalando qua e là qualche sfaccettatura inedita, fa ben sperare per il futuro del trio di New York al quale è impossibile non essere affezionati per quello che ha regalato in passato. Ecco, c’è bisogno al più presto di tornare ad esserlo per ciò che ci regala. The Other Side of Make-Believe è solo un piccolo passo.
