«Hey you!/ Remember me? Remember love?/ Remember trying to stay together?». Era con queste parole che una band californiana chiamata HAIM entrava a far parte della scena musicale nell'ottobre 2012. Si trattava di Este, Danielle e Alana, tre sorelle polistrumentiste cresciute con la musica, che si presentavano al grande pubblico con un singolo soft rock con qualche punta di R&B. Talento, semplicità e autoironia sono stati la chiave per il successo. E a distanza di quasi otto anni, due album, partecipazioni a Glastonbury e collaborazioni importanti – tra cui quella di Danielle con i Vampire Weekend nel loro Father of the Bride uscito lo scorso anno – eccoci arrivati al terzo album, Women in Music Pt. III. L'uscita era originariamente prevista per il 24 aprile, ma è slittata a fine giugno a causa della pandemia – undici mesi dopo il rilascio del primo singolo Summer Girl.
Partiamo dal titolo. Le HAIM sono ovviamente “women in music”, e fin qui tutto chiaro. Ma sono le stesse women in music che hanno sempre rifiutato di farsi etichettare come girlband, ritenendo tale definizione medievale. Sono quelle che hanno licenziato il loro agente dopo aver scoperto di essere state pagate 10 volte meno degli artisti uomini per lo stesso festival. Sono tre ragazze che hanno più volte fatto emergere il sessismo che domina il mondo della musica. Che non non sempre si manifesta apertamente, anzi. Il più delle volte è espresso in modo blando, anche sottile. Si insinua nelle conversazioni, in modo che alla gente risulti facile liquidarlo come un fatto di poco conto. Perché a un gruppo come le HAIM si chiede costantemente cosa significhi far parte di una band di sole ragazze prima ancora di parlare di musica? Perché quando Danielle Haim entra in un negozio di strumenti musicali il commesso le chiede se cerca qualcosa per il fidanzato? Women in Music Pt. III è la risposta a tutto questo. Le HAIM vogliono essere prese sul serio come musiciste, senza distinzioni.
C'è una canzone sopra tutte che affronta questo tema, ed è una delle più belle dell'album: Man from the Magazine. Un brano di denuncia verso tutti quei comportamenti inappropriati di cui si parlava prima. Musicalmente essenziale, ma con parole taglienti:
Man from the magazine what did you say?
"Do you make the same faces in bed?"
Hey, man, what kind of question is that?
What did you really want me to say back?
Anche The Steps, a modo suo, vuole essere una rivendicazione. Danielle ha dichiarato:
This song kind of encapsulates the whole mood of the record. The album and this song are really guitar-driven [because] we just really wanted to drive that home. Unfortunately, I can already hear some macho dude being like, ‘That lick is so easy or simple.’ Sadly, that’s shit we’ve had to deal with.
Ed è proprio in risposta a quelle persone che definivano troppo semplice la linea di chitarra Danielle – ironica ma decisa – ha realizzato un simpaticissimo tutorial che merita di essere visto. Per concludere, un'altra forma di squilibrio si trova in FUBT (che sta per “Fucked up but true”), una ballata di chitarra nella quale si parla di una relazione tossica da cui non si riesce a uscire.
Ascoltando gli altri pezzi ci accorgiamo che non è solo di sessismo che si parla, perché Women in Music Pt. III fa emergere le difficoltà e il dolore che hanno segnato la vita delle tre sorelle negli ultimi anni. Danielle ha combattuto con la depressione e affrontato la malattia del compagno Ariel Rechtshaid (anche produttore della band), Alana ha pianto la perdita della sua migliore amica, Este ha imparato a convivere con il diabete. Questo album potrà anche mantenere le allegre sonorità pop-rock dei precedenti – i loro lavori sono stati spesso definiti summery e credo che il termine sia più che mai appropriato – ma si parla di solitudine e di paura.
Abbiamo un bel gruppo di brani che riguardano queste tematiche e il primo è I Know Alone. Un tocco di elettronica, voce leggermente distorta e parole come «Days get slow like counting cell towers on the road/ I know alone and I don’t wanna talk about it». Quando poi arriviamo a I've Been Down capiamo già dal titolo di trovarci di fronte a uno dei pezzi più drammatici. Qui si parla di depressione senza mezzi termini. Si racconta di giornate intere passate a fissare il soffitto con le finestre sbarrate, senza la forza di muoversi e addirittura senza riconoscersi più. Quel «But I ain't dead yet» inserito quasi di sfuggita nella prima strofa sintetizza tutto. Nella seconda parte della canzone la disperazione si trasforma in una richiesta di aiuto. «Can you help me out?» viene ripetuto più volte. Now I'm in It – un altro brano dove si parla di salute mentale – ha una struttura simile. «Looking in the mirror again and again/ Wishing the reflection would tell me something» e «Locking all the doors to my house/ I'm alone in my head» sono il punto di partenza. Danielle ha raccontato che il punto di svolta è stata la vicinanza delle persone care, che le hanno fatto notare di aver bisogno di aiuto. E infatti, si arriva alla conclusione:
Cause now I'm in it
And I've been trying to find my way back for a minute
And the rain keeps coming down along the ceiling
And I can hear it
But I can't feel it, oh
È necessario soffermarsi proprio sulla vicinanza e sul supporto offerto dai propri cari, perché è il focus delle ultime due canzoni che possiamo collocare in questo gruppo. Una è Leaning on You, dove la presenza di qualcuno in grado di accettarci così come siamo, compresi i nostri difetti, fa passare ogni paura. L'altra è la bellissima Hallelujah, nella quale si parla proprio del rapporto tra le sorelle Haim. Un legame fortissimo:
I met two angels, but they were in disguise
Took one look to realize
Tell 'em anything and they will sympathize
These arms hold me tight
Old fears, helped to ease them in my mind
New tears say that they will dry in time
Non mancano brani più leggeri rispetto a quelli menzionati finora. Another Try, in cui si parla di due persone che decidono di ritrovarsi e per stessa dichiarazione delle HAIM suona come un «dance party». All That Ever Mattered, di nuovo la voce distorta, assoli di chitarra, e rimane un «I'm not something that you can buy». Don't Wanna, canzone scritta già da un po' di tempo e si sente. Molto simile ai classici delle HAIM, sarebbe stata benissimo nel primo album anche per quanto riguarda il testo. Gasoline, funky, diretta, senza troppi giri di parole. 3AM, «about a booty call». E Up from a Dream, che inizia con un sbadiglio e prosegue un po' psichedelica, raccontando un sogno dal quale non ci si voleva svegliare.
Ho volutamente lasciato per ultime le canzoni che aprono e chiudono l'album: Los Angeles e Summer Girl. La prima, che dà il via all'album con l'accompagnamento del sassofono, è una canzone riflessiva che racconta il rapporto delle HAIM con la loro città natale. Che sarà sempre considerata casa, ma domina la disillusione:
On these days, these days I can't win
These days I can't see no visions
I'm breaking, losing faith
Anche Summer Girl ha a che fare con la malattia di Ariel Rechtshaid. Ma questa volta è Danielle a voler offrire un po' di speranza. Canta «I'm your summer girl» e chiede di fare affidamento su di lei. Di sfondo ancora la città di Los Angeles («L.A. on my mind») e un «do-do, do-do-do-do» che ricorda vagamente Walk on the Wild Side. L'album si chiude così com'era iniziato, sulle note del sassofono.
Mi sbilancio: penso che Women in Music Pt. III possa essere considerato il lavoro migliore delle HAIM. Riesce a toccare temi delicatissimi senza mai risultare banale o forzato. È spontaneo, è un racconto che fila via senza intoppi. E, nonostante tutto, dopo averlo ascoltato mi viene da dire che il sentimento dominante non sia la tristezza, ma la voglia di ricominciare facendosi forza a vicenda. Sono canzoni che riaccendono una speranza che rimane fino alla fine.