"How To Make Love Stay?" Come preservare l’amore, come farlo sopravvivere? Se lo chiede in continuazione Tim Robbins in Natura morta con picchio (Still Life With Woodpecker), se lo sarà chiesto Carlos O’Connell che da quel romanzo postmoderno è stato catturato e se lo chiedono i Fontaines D.C.. Il modo più facile per cercare di inquadrare un album della band di Dublino è partire dalla letteratura. Lo stesso gruppo è nato da un’influenza letteraria comune che, tuttora, continua a espandersi. Dalla poesia tradizionale alla Gente di Dublino, fino a uscire dall’Irlanda per osservarla dall’esterno, introiettarla e abbandonarla. Romance segue lo stesso andamento letterario e travalica quei confini che con A Hero’s Death e Skinty Fia erano stati spostati sempre oltre.

Stavolta però non ci sono più punti cardinali. I Fontaines D.C. si sono trasferiti in un non luogo a tratti terrificante e per questo universale. Non c’è più Dan Carey, ma un James Ford che non interpreta il ruolo di confidente e sesto membro, ma di supervisore momentaneo delle trovate di Carlos e Conor Deegan che forse porteranno a una possibile futura autoproduzione. C’è anche il passaggio dalla Partisan – una delle etichette simbolo della new wave post-punk d’oltremanica – alla concettuale XL Recordings. E sembra quasi di ascoltare una versione più ruvida di Thom Yorke all’inizio di Romance.
Il carattere enigmatico della chitarra e quello sinistro dei synth, insieme alla componente orchestrale oscura che esplode nella seconda parte, mettono i brividi. Si entra in nuova era e si esce dal territorio rassicurante affrontando l’ignoto. Sempre con il desiderio di mantenere viva quella scintilla romantica, unico barlume dell’irlandesità che la band ha deciso di lasciarsi indietro e che brilla nella malinconia con cui Grian Chatten canta il verso simbolo del disco: «Romance is a place».
Il mondo distopico, kubrickiano se si fa riferimento alla clip con cui è stato annunciato l’album, in cui si è catapultato il gruppo, è stato costruito tornando alle origini. I Fontaines D.C. hanno iniziato a scrivere a Londra, partendo dalla canzone meno sperimentale e allo stesso tempo più complessa a livello emotivo. Tra le note nostalgiche arpeggiate dell’elettrica di Favourite e il mondo verde neon di Starburster – che è antecedente e non ha nulla di Brat – ci sono ricerche, attacchi di panico e un mese trascorso in Francia in un castello fuori Parigi. Ancora più lontano da casa del solito, la band è tornata a vivere, suonare e provare a stretto contatto. Un’unione necessaria per spingersi in territori inesplorati.
James Ford, Parigi, ma non c’entrano gli Arctic Monkeys e la svolta lunare di Tranquillity Base Hotel & Casino. Per i Fontaines D.C. l’ignoto inizia da un ritmo hip hop ansiogeno durante il quale Grian Chatten tenta di riprendere fiato. Starburster non è raffinata, è diretta, abrasiva e calamitante. È una band totalmente nuova quella che traspare fin dal primo ascolto e quel romanticismo da ritrovare ancora una volta penetra tra le pieghe melodiche e pianistiche del bridge.

Una delle novità che emergono nella prima parte di Romance sono le nuove sfumature della voce di Grian Chatten. Lo storytelling, sebbene più concettuale, rimane serrato grazie al modo in cui gestisce il fiato mettendolo al servizio della narrazione. Uno stratagemma che funziona anche in Here’s The Thing, uno dei brani più rock – inteso in senso classico – del disco. Nato da una discussione tra Grian e Carlos, la canzone strizza l’occhio all’alternative acido e spigoloso dei Placebo e dei primi Smashing Pumpkins, senza perdere quella drammaticità tragica tipica della band. L’altro momento in qualche modo più vicino al mondo precedente dei Fontaines D.C. è il penultimo rigurgito rock Death Kink. Si percepiscono il decantato amore per i Korn e i rimasugli della pioggia notturna di Dublino e di Boys In The Better Land.
Gran parte di Romance è infatti ambientata in un universo alternativo in cui vivere vuol dire sopravvivere. «Deep they’ve designed you / From cradle to pyre / In the mortal attire» è un altro dei momenti rivelatori. Desire mescola il sentimento funereo di In ár gCroíthe go deo con la ripetitività del desiderio che sembra rappresentare l’unica forma di speranza in un mondo in cui la nebbia somiglia a quella di un romanzo di Stephen King e le persone sono dirette verso il nulla. In movimento, ma comunque immobili. La ripetitività viene sospesa dal punto di vista sonoro da uno shoegaze non convenzionale, reso tridimensionale dagli archi.

La speranza resta però uno degli elementi centrali anche in Romance e in un luogo indefinito. La cinematografica e romantica In The Modern World spezza il disco in due. La band esce dal mondo interiore e compare uno dei primi personaggi. Charlene non è il desiderio, ma la promessa di un futuro possibile in un mondo in cui è complicato “sentire”, persino provare quel sentimento di colpa insostenibile protagonista in No.
La città raccontata non è più tangibile, ma una presenza quasi minacciosa e indefinita da cui fuggire. I suoi contorni diventano sempre più sfumati in Motorcycle Boy, un altro dei brani più lunghi che vivono della ripetitività ritmica della chitarra acustica e del canto cantilenante che racconta di una lenta fuga dall’incubo. L’ambiente si fa sempre più rarefatto nella successiva Sundowner, scritta da Conor Curley che per la prima volta è protagonista anche con la sua voce, oltre che con la chitarra. Una canzone dedicata all’amicizia, linfa vitale della band.
I Fontaines D.C. si reinventano proprio grazie alle esperienze singole. Grian Chatten con il suo Chaos For The Fly ha reso ancora più personale il suo modo di scrivere. Bug da questo punto di vista è uno degli episodi in cui la sua abilità è maggiormente messa in mostra. Il racconto di una promessa e di un abbandono in cui realtà e fantasia si intersecano a vicenda. Poteva essere un brano solista del frontman, ma il tappeto elettronico delle chitarre, del basso e soprattutto la batteria definita di Tom Coll lo rendono a tutti gli effetti una canzone col timbro dei Fontaines D.C..
Da un lato Grian, dall’altro Carlos O’Connell. Horseness Is The Whatness è la traccia più “vecchia” di Romance, scritta dal chitarrista mentre era in Spagna. Torna James Joyce nel titolo, anche se forse non se n’era mai realmente andato. Sì, non è più evidente nei protagonisti, nella pioggia cittadina, ma è onnipresente nei significati e nelle intenzioni. Se Dogrel e A Hero’s Death erano dei racconti il cui senso era riassunto da una scelta o da un gesto compiuto o rimpianto, qui si vive degli slanci dell’Ulisse moderno Leopold Bloom e dei sogni intricati di Finnegan’s Wake. La ripetizione ritmica e lirica che da sempre caratterizza la band, come nelle opere finali dello scrittore irlandese, diventa il personaggio principale. L’unica via per srotolare un filo di senso e scovare il fine di un’esistenza minacciata dalla noia e dall’apatia.

Chewed into shape / Like a stone on the shore
Per tutti, prima o poi, arriva il momento di guardarsi indietro. Può essere una scelta spontanea o obbligata, la sfrontatezza è dettata da quanta paura si ha di essere investiti dal passato e di trasformarsi in una statua di sale. Col tempo si cambia, le esperienze smussano la forma come fa l’acqua del mare con i sassi sparsi sulla riva. Certi spigoli scompaiono e lasciano spazio a nuovi angoli. Talvolta si ha la tentazione di tornare indietro ma se le città appaiono sempre diverse ogni volta che vi si fa ritorno, soprattutto Dublino, figurarsi gli affetti. Ecco allora il senso di chiudere un disco elaborato, diverso e complesso con un brano dall’emozione facile come Favourite. Una canzone scritta a cinque mani dove i Fontaines D.C. non tergiversano più e abbracciano la melodia.
La nostalgia diventa un modo per rendere omaggio a tutto ciò che ha accompagnato il gruppo fino a questo punto. Non c’è un soggetto, ma sensazioni, luoghi e un tu – o un voi, è il bello dello you inglese – osservati da lontano, da quel nuovo universo in cui Grian e soci sono appena entrati. L’eterna lotta tra amore e odio di Skinty Fia si è risolta con un album universale, il più universale della band finora.
L’approdo in XL non poteva che essere l’inizio di una nuova fase. Romance non è il Kid A dei Fontaines D.C.. e solo con gli anni capiremo se possiamo considerarlo il loro OK Computer. Ma forse non ha senso tentare di trovare analogie. Ogni band ha la sua storia e quella dei Fontaines D.C., nonostante siano trascorsi solo sei anni dal loro debutto, ha già raccontato molto e ha ridato nuova vita a un genere che molti continuano a considerare morente. L’hanno fatto pescando gli strumenti dal passato e utilizzandoli per scrivere qualcosa di sempre più personale. Non è revival o citazionismo, è presente. Un presente bellissimo, in continua evoluzione.
