«My childhood was small / But I'm gonna be big», si apriva così Dogrel, primo acclamatissimo lavoro che ha portato alla ribalta i Fontaines D.C. designandoli come il brillante e giovane futuro del post-punk britannico e non solo. Ad un anno di distanza ecco la sfida più difficile, il secondo album, pensato e scritto durante il tour che li ha fatti diventare grandi per davvero. Se nell’immagine circense del primo cd dominava il colore rosso sulla foto in bianco e nero, qua il blu, che nel mondo anglosassone è comunemente associato alla malinconia, circonda completamente la statua dell’eroe mitico irlandese Cúchulainn. La decadenza è il filo conduttore principale di questo disco, resa musicalmente dall’abbandono dei fast tempo in favore di ritmi più compassati e dalla sostituzione dei power chord con arpeggi e riff ripetitivi e soffocanti che creano atmosfere vicine al post-punk americano di inizi anni duemila.
La lontananza da Dublino e dai docks ha estraniato la band dalla quotidianità costringendola alla riflessione, tutto l’album oscilla in maniera ossimorica tra un sentimento di rimpianto per ciò che si è perso e il timore di non essere all’altezza perdendo quanto conquistato. Fin dalla traccia di apertura, I Don’t Belong, viene messa in risalto l’altra faccia della medaglia: l’essere diventati qualcuno, l’aver lasciato alle spalle un’infanzia “piccola” per divenire grandi ha il suo risvolto negativo, si è comunque soli. Il distacco e la solitudine sono il prezzo da pagare per chi non vuole omologarsi alle aspettative di nessuno, assaporare quel senso di libertà comporta l’essere in diparte. Tutto ciò è espresso attraverso suggestioni, scene fugaci e sfocate fortemente evocative, come un soldato che getta via la medaglia al valore, simbolo della mercificazione delle sue nobili azioni, sancendo la “morte” dell’eroe col proprio rifiuto e ribadendo di non appartenere a nessuno, tantomeno ad una società di idolatri volubili.
I heard him serving as a soldier
In the annex of the earth
Threw himself before a bullet
And threw the metal to the dirt
Il timore di non essere più quelli di una volta, di essere diventati un riflesso delle proprie aspettative perdendo parte di sé è ciò che Grian cerca di trasmettere in A Lucid Dream. In uno stato di dormiveglia si susseguono i ricordi del recente passato, i momenti in cui il vento è cambiato trasformandolo nel frontman di una band di successo. Il dubbio di vivere come in un reality televisivo recitando la parte della star, offusca tutti i restanti aspetti positivi. Come per i rumori esterni al sogno, anche il suono della sua voce nella parte centrale della canzone è ovattato, proprio quando il riferimento è al presente e non più alla memoria.
Ah, you're all prone
To being anyone else
Other than you?
Are you all prone?
Does anyone know?
And they just wanna come to your place and see you sing
È una sensazione di claustrofobia quella che domina le prime tracce dell’album, come nel caso di Televised Mind, invettiva ridondante nei suoni e nel ritornello rivolta alla cultura contemporanea colpevole di imitare la realtà ed i suoi valori diventandone un surrogato piatto e fittizio. La metafora perfetta è costituita dalla televisione, le emozioni odierne sono prese in prestito da Broadway, gli ideali diventano materia di cabaret e sembra non esserci via di scampo, è sempre più difficile difendere la propria mente dalla deriva illusoria di una vita da teleschermo.
Persino il verso di corteggiamento dei gabbiani nel cielo appare come una sterile imitazione dell’amore che invece dovrebbe essere la cosa più importante come ripetuto in Love is the Main Thing. Questa seconda traccia è forse la più asfissiante, soprattutto nel riff del finale, e l’interpretazione canora alla Ian Curtis fa emergere ancora di più il carattere apparentemente nichilista della band. Il sentimento umano più nobile e importante è anche il più doloroso ed il più faticoso: «Always a longing / Silently hoping /Always we raining».
Rassegnazione che si ritrova anche in You Said che invece, nell’arpeggio di chitarra e nel cantato, riporta alla mente i Radiohead degli anni Novanta e di The Bends. Grian riflette sugli errori del passato e seppur rivolgendosi ad un interlocutore generico, sembra dialogare con se stesso. La vita sta lavorando troppo velocemente, soprattutto per chi non la intende come un’ascesa a tutti i costi, «not as a climbing stair».
In Sunny è sviluppato un altro dialogo, questa volta con una donna, che può avere una doppia lettura: una moglie non abbandonata solo per amore di un figlio, «Afraid I couldn't make the cut, boy/And it makes me very sad/You'd sooner draft me as a soldier/Than you'd have me for a dad», oppure l’incarnazione dell’ispirazione artistica della cui importanza ci si rende conto solamente nell’assenza. Interessante qui l’inserimento della voce femminile nel ritornello.
A Hero’s Death è un disco molto più scuro e complicato del suo predecessore, ma non per questo meno omogeneo e potente, anche dal punto di vista visivo ed immaginifico. Le suggestioni della Dublino piovosa che aveva costituito l’ambientazione del primo album ritornano nella breve ma bellissima Oh Such a Spring dove ritroviamo i docks, la pioggia e soprattutto le epifanie di Joyce. La gente di Dublino, protagonista dei quindici racconti di Dubliners, viene descritta dallo scrittore irlandese nella propria “paralisi morale”, manifesto della crisi dei valori della società del tempo. La loro caratteristica principale, che li connota come vittime del mondo, è quella di rendersi conto di questa immobilità ma di non poter far nulla per sfuggirle nonostante i tentativi. Come Eveline, uno dei personaggi di Joyce, che nell’omonimo racconto non ha il coraggio di abbandonare l’Irlanda e salpare per Buenos Aires con l’uomo che ama, anche gli esempi citati nella canzone, i marinai che affogano le ansie nel vino americano e la gente comune che vive per lavorare in attesa della morte, sono tutti incapaci di sconfiggere la paralisi: «The clouds cleared up / The sun hit the sky / I watched all the folks go to work just to die».
Anche in Living in America le immagini che si susseguono come in un film, mostrano soggetti diversi che appaiono intrappolati nella realtà e nella loro concezione limitante di libertà. L’America, in contrapposizione alla Londra «been and done», descritta come patria dei sogni, simbolo di giovinezza e ricchezza, acquisisce sempre più l’aspetto di un falso mito.
Tuttavia è la title track, una delle prove migliori dell’album, che ripristinando lo stile canoro parlato di Dogrel dà un significato ed uno scopo al nichilismo della prima metà del disco, assumendo le fattezze di una parodia del mondo contemporaneo e della sua ipocrisia. Per tutto il brano, uno dei due ritmicamente più veloci e aggressivi, si susseguono dei consigli di vita che sebbene all’inizio creino sconcerto, fin dalla seconda strofa rivelano la loro natura satirica. Il ritornello ripetitivo «Life ain’t always empty» suona come il “ce la faremo” urlato dal balcone durante il lockdown per il Covid-19, la speranza illusoria e destinata a morire che, una volta passata l’emergenza, il mondo ne esca migliore, soprattutto nei rapporti umani. La realtà è un’altra ed è smascherata dal verso «we’re all in the running for a hero’s death» che è il riassunto dell’ipocrisia: le buone intenzioni nascondono l’attesa per la caduta di un nuovo eroe e la conseguente speranza che si spengano le luci degli altri in modo tale che risalti la propria, altrimenti troppo fioca.
Paradossalmente le due canzoni con il titolo più negativo rappresentano invece gli unici slanci capaci di rompere il tono dimesso e rassegnato che permea gran parte dell’album. I Was not Born è un manifesto dell' ideale di ribellione tipico del movimento culturale del punk, sia nelle parole che nel ritmo più vivace dove si possono percepire influenze dai Clash e dai Ramones.
I was not born
Into this world
To do another man's bidding
No è la ballata conclusiva e la traccia in cui più di ogni altra Grian sembra rivolgersi in maniera sincera agli ascoltatori e a tutti coloro che vivono le sue stesse paure ed ansie. La depressione viene dipinta come un non luogo che fa apparire il viso mostruoso e che rende incapaci di provare emozioni che vadano al di là del senso di colpa. Tuttavia uno dei versi più iconici e pessimistici di Ian Curtis, «These sensations barely interest me for another day / I've got the spirit, lose the feeling, take the shock away», viene qui ribaltato, dando un senso di speranza e redenzione:
Even when you don't know
Even when you don't
You feel, you feel
A Hero’s Death dà una rappresentazione del lato oscuro della giovinezza e del successo ed è di conseguenza il lato B (o il lato A, a seconda dei punti di vista) più riflessivo, forse molto meno immediato del suo precedente. I Fontaines DC si confermano e superano brillantemente la sfida del secondo album con una maturità quasi inaspettata dopo appena un anno dal primo lavoro, non soltanto per l’omogeneità dei suoni che lega gran parte delle tracce, ma soprattutto per quanto riguarda i testi ed il senso d’urgenza che trasmettono. Nonostante il carattere più intimistico non vi è traccia di autobiografismo fine a se stesso, di citazioni musicali sfruttate in maniera acritica e col solo fine di ostentare un’ampia cultura musicale e sottolineare l’adesione al genere al quale si è deciso di appartenere. Come in Dogrel anche in A Hero’s Death, in un’ottica postmoderna, il passato e le sue pietre miliari, come lo possono essere i Joy Division, sono un peso con cui convivere ma anche un tesoro da decostruire e decontestualizzare per tentare di analizzare un presente indecifrabile culturalmente.
La scrittura avvenuta lontano da casa in questo caso ha fatto sì che lo sguardo si dirigesse verso l’interno, sostituendo alla sfrontatezza del passato la controparte malinconica, divenuta la lente essenziale per descrivere il mondo attuale. Al di là di tutto al termine del viaggio non si avverte pesantezza, dopo quaranta minuti di ascolto infatti ci si è abituati all’atmosfera grigio-azzurra e non si percepisce quasi più la mancanza del rosso accesso. Il blu malinconico ci appare meno oscuro e più accettabile con la presa di coscienza che qualsiasi prospettiva futura non può prescindere dalla consapevolezza che ad ogni lato illuminato corrisponda sempre, nella posizione opposta, una zona d’ombra. Il trucco sta nel riuscire a far convivere i due estremi e per fare ciò bisogna imparare ad abbracciare anche il lato “grigio”.
Now you're rolling in the dirt
Playing up to what you're worth
And we know what freedom brings
The awful songs it makes you sing
Don't you play around with blame
It does nothing for the pain
And please don't lock yourself away
Just appreciate the grey
Yeah
I Fontaines D.C. saranno live in Italia nel 2021:
13/03/21 Magazzini Generali, Milano