Se è vero che ogni avvenimento matematicamente rappresentabile sotto forma di formule numeriche e curve, dall’incontrare in quel dato luogo e in quel dato momento la vostra anima gemella al vincere la lotteria la prima e unica volta che ci giocate, ha una probabilità che varia da 0 a 1, traducibile in percentuale, i Foals con questo album avevano il 50% di possibilità di fallire miseramente e il 50% di raggiungere il punto più alto della loro carriera. Questo perché “Everything Not Saved Will Be Lost” (Warner) è in sostanza un grande azzardo, una puntata alla roulette. 20 canzoni talmente legate tra loro da essere pubblicate in due album, questa Part 1 e Part 2 in uscita questo autunno, che hanno visto la dipartita dello storico bassista, un nuovo equilibrio, nessun produttore a dare consigli; in sostanza la libertà di fare ciò che si vuole, l’indipendenza, il rischio. Se a quest’ultimo elemento aggiungiamo l’hype che ha sorretto massicciamente l’uscita della prima delle due parti, il margine d’errore si fa sempre più sottile, dato che micro teaser enigmatici, caccie al testo nascosto in diverse metropoli del globo, video articolati e dalla grande produzione minuziosa, interviste su interviste non fanno che aumentare la suspense, l’attesa dei fan della band che bramano qualcosa di nuovo dall’ultimo piacevole incontro avvenuto nell’ormai lontano 2015 con “What Went Down”. Nel caso l’album si rivelasse un flop, il giudice più severo non sarebbe Pitchfork, ma proprio quelle migliaia di persone le cui aspettative sono state stuzzicate morbosamente fino all’osso. Lanciamo una monetina per aria e vediamo su quale faccia si poggerà: testa, il disco è un successo, croce, il disco è un fallimento.
Mentre la monetina volteggia, le prime note che riecheggiano nell’orecchio sono quelle di Moonlight. Un inizio diverso, inaspettato, meditativo. Il cambiamento aleggia già nei primi secondi in cui un sintetizzatore zen fa da eco ad una leggera chitarra elettrica da ascoltare ad occhi chiusi. Un nuovo risveglio, un nuovo inizio, che rimanda alle tracce più pacifiche del gruppo, come Spanish Sahara e London Thunder. L’elettronica e le tastiere, che con leggerezza si sono spesso infiltrate nella produzione dei Foals, qui diventano linfa vitale e acquisiscono una loro autonomia che serpeggerà per tutto il disco. Ma è con Exits che il gruppo fa il suo ritorno trionfale sulle scene, partendo letteralmente dall’uscita. Personalmente ho sempre visto i Foals come una band capace di maturare ad ogni album, di crescere, migliorarsi e superare sé stessa traccia dopo traccia, e il singolo di lancio ne è la riprova. Una manciata di note discendenti di piano, un falso inizio e poi riecco emergere quel sound tosto, battagliero, animalesco che tanto li caratterizza, li rende unici e li fa emergere in un marasma di piccole, medie e grandi band indie che spesso ci suonano tutte uguali. Il pezzo, con il suo ritmo cadenzato e le sue chitarre prepotenti e taglienti, è un concentrato di energia pronta ad esplodere, in cui sono incastrati una tastiera ipnotica e un ritornello altrettanto magnetico. La mia testa fin dal primo minuto continua a tenere assorta il tempo e a recitare una manciata di parole “I said I'm so sorry / To have kept you waiting around”, come se fossero una preghiera, finché non si fa largo un intermezzo tutto strumentale su cui ogni accordo si miscela e ci accompagna vorticosamente verso la fine di quel “World Upside Down”. Sonorità che si fondono anche al video diretto come se fosse un piccolo film distopico.
Immagini criptiche che rimandano al tema di fondo di quest’album e che lo rendono quasi un concept album su un mondo ormai andato a rotoli, dove, secondo Yannis Philippakis, prevalgono “All the post-millennial dread that everybody’s swimming in at the moment”. E allora questa visione pessimistica viene compressa all’interno dei testi di denuncia e rivalsa, come nel caso di White Onions: “I break the cage, I break the cage, I break the cage”, che con le sue ritmiche ci fa fare un salto all’indietro, ricordandoci le primissime produzioni della band, quella potente semplicità chitarra-batteria e quella bella voce rabbiosa che diventa quasi uno strumento a sè nelle mani del quartetto. Come su un’altalena tra sonorità più sporche e primitive e sonorità più nuove e elettroniche, si approda ad In Degrees, una delle gemme di “Everything Not Saved Will Be Lost”, in cui, se non era già chiaro con i primi tre brani, la band con questo album ha fatto un grande passo artistico in avanti. Ci si lascia andare, ci si lascia trasportare da una canzone praticamente totalmente dance, dionisiaca, che mi rimanda ai club anni ‘90 dove tutto era concesso, dove si può perdere ogni inibizione. I suoi crescendo sembrano prenderti per mano e invitarti a ballare, quel tribale “Don't go wasting my time / I could not perservere” ripetuto come un mantra si avvinghia al nostro cervello e fa sì di togliere la tensione da ogni muscolo corporeo che impazientemente cerca di liberarsi da ogni tensione che lo irrigidisce.
Una traccia liberatoria, da cantare a squarciagola, un moderno elegante rave sonoro, la sorella maggiore di My Number, a cui succede Syrups, il brano forse più sottotono di questo album. Se prima ci si era sentiti onnipotenti e avevamo toccato il cielo con il dito, qui i toni si smorzano, si torna a quelli più metallici e grezzi, in cui la voce di Philippakis esce tumultuosa urlando. Canzone che non ha bisogno di altre parole se non di quelle usate dalla band durante un’intervista con NME: “It is basically the band after a few drinks trundling into the practice room and sort of assaulting it”. Entrambi i pezzi però svelano un’altra importante caratteristica del disco, quello di essere una dicotomia. Infatti, in tutti i testi aleggia questa visione del mondo che sembra provenire direttamente dalle menti e dalle penne di Philip Dick o J. G. Ballard, in Syrups addirittura si parla di città ricoperte da dune di sabbia, robot e solitudine, ma finché non si vanno a leggere, non si immaginano relitti post-industriali degni del Ridley Scott di Blade Runner, perché le ritmiche non sono mai troppo cupe o nichiliste, anzi, sono sempre energiche, spensierate e spesso festose.
L’esempio più lampante di ciò è la sesta traccia, probabilmente la vetta di questo disco: On The Luna, un perfetto equilibrio tra elementi elettronici e analogici che fa venire voglia di iniziare a correre alla massima velocità, perdere completamente la testa e il fiato, saltare, ballare, e sono sicura generarà un bel casino live. Vedo già crearsi lo spazio per un gigantesco pogo su quel bridge chitarra-basso in crescendo che smuove anche gli animi più tranquilli, vedo già Philippakis che a pochi centimetri dalla tua faccia, microfono stretto in pugno, camicia floreale mezza aperta, le gocce di sudore che gli rigano il viso, canta in tono liberatorio con tutta la voce che i polmoni gli permettono: “We had it all, but we didn’t stop to think about it, I’ve had a wild one, I’ve had a wild one”. Una scarica d’adrenalina, dopamina sotto forma di musica lunga poco più di 3 minuti. A farci recuperare le forze ci pensa Cafe D’Anthens, omaggio alle origini del cantante. Il brano è atipico, con quello xilofono orientale a dare il via che fa varcare poi la band all’interno di un territorio di sonorità ancora inesplorato, più moderne, quiete e sperimentali, che continuano anche nella brevissima ma intensa Surf Pt.1, 30 secondi strumentali, una ninna nanna messa in sottofondo al primo trailer pubblicato per promuovere l’album e che ricordo mi fece pensare che se tutto l’album avesse contenuto queste atmosfere magiche e eteree si sarebbe sicuramente guadagnato il primo posto nella mia classifica dei migliori album di questo 2019.
Podio che viene conquistato con la doppietta in chiusura. Sunday è un coro upbeat monumentale e orchestrale, dalla veridicità disarmante con quel “'Cause time away from me / Is what I need to clear my sight and clear my head”. Un brano da inserire nella scaletta di una festa, in cui roteare esclusivamente avvinghiati, su cui muoversi con le membra ormai affaticate e stanche che non sono preparate al bridge capace di catalizzare su se stesso tutta l’attenzione di quei 6 minuti di canzone, capace di riprendere il ritmo di In Degrees e stordire un’ultima volta; incanta e strega l’ascoltatore e non lo molla più, dà l’ultima breve scossa prima di andare tutti a casa, è in grado di farci accasciare stremati al suolo, storditi da uno spettacolo pirotecnico di suoni e frasi. Finale sancito da I’m Done With The World (& It’s Done With Me) che vede come unici due protagonisti la voce incantevole di Yannis e un pianoforte. Toccante, la piano ballad che potrebbe fa traboccare finalmente la lacrima a bordo dell’occhio, quella sottile malinconia e quello sconforto dei testi scritti dal frontman prende vita e si traduce in musica. La chiusura del cerchio. Cala il sipario sul primo atto di questa drammaturgia sul mondo presente.
Alla fine, la monetina ci restituisce come risultato testa. Mi dispiace, io non riesco a trovarci un difetto in “Everything Not Saved Will Be Lost”. È il lavoro di una band che più volte ha ammesso di non voler andare sul sicuro, di non voler suonare uguale a se stessa, una band che non ha voglia di essere rinchiusa all’interno di una soffocante e monotona comfort zone, ma che ha una brama insaziabile di evolversi, cambiare, esplorare non solo nuove sonorità ma anche nuovi processi creativi. Ci sono band che tentano di cambiare, producendo il lavoro più scarso della loro carriera e tornando sui propri passi, e un manipolo irrisorio di band che hanno questo innato istinto al miglioramento costante, ed è questo quello che fanno i Foals. Non una bizzarria, uno sbandamento dato dalla sfacciataggine di fare il passo più lungo della gamba, ma un lavoro ben equilibrato, in cui ogni elemento ha il suo giusto peso e che risulta il naturale proseguimento della carriera della band. Sarà per la costruzione di un concetto su cui basare due album, sarà lo yin e yang di testi e suoni, sarà l’uso intelligente dell’elettronica, qui collante dei classici strumenti, che non risulta mai eccessivo o troppo invadente ma sempre ben dosato e ponderato, fatto sta che a partire dai singoli ha reso questo disco letteralmente intoxicating, inebriante, non si riesce più a farne a meno. Le canzoni entrano nei timpani e se ne vanno solo dopo giorni di ascolto compulsivo. A detta del gruppo, la seconda parte sarà meno aggraziata, più feroce, animalesca, il che rende ancora più accattivante questo dittico musicale, che (questa volta mi prendo io un rischio) si prospetta essere una delle uscite più interessanti di quest’anno.
I Foals saranno live in Italia il 16 maggio 2019 al Fabrique di Milano.
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E non farti sfuggire l'occasione di incontrare la band, qui tutte le info a riguardo: http://www.lntvglobal.com/it/article/foals-scopri-come-incontrare-la-band/