Mentre scrivo questa recensione, sto pensando a determinate persone, una manciata, saranno 4 o 5 per cui Florence + the Machine ha un significato particolare, per ognuno di loro diverso: magari si rispecchiano perfettamente nelle sue parole di conforto, magari sono incantati della sua vivacità e dai suoi movimenti sul palco, magari ci hanno legato un ricordo, magari sono solo innamorati. E mentre abbozzi un sorriso e ti rendi conto che ti ho messo in un articolo, sappi anche che le frasi che seguiranno sono in un qualche modo dedicate a te e sì, se non te l’avrò già chiesto, sono curiosa di sapere cosa pensi di quest’album. Bene, iniziamo. Ci eravamo lasciati con "How Big, How Blue, How Beautiful", terzogenito di una delle voci più potenti e iconiche dell’Oltremanica: Florence Welch, la rossa dal volto preraffaelita ricoperta di sete floreali Gucci. Un album “duro”, che aveva a che fare con una gigantesca rottura, con un amore che svanisce, perciò più sottotono e lontano dalle produzioni a tratti maestose, a tratti delicate dei primi due dischi. A ricucire quell’enorme lacerazione di 3 anni fa è venuto in soccorso “High As Hope” (Universal, 2018), che come da titolo, infonde nuova fiducia e linfa vitale allo spinoso tema dell’amore, che verrà declinato in ogni sua sfaccettatura per tutta la durata dell’album. Finito il lungo tour per il globo, Florence colma il vuoto mistico e quasi traumatico che assilla la maggior parte degli artisti dopo mesi on the road, rifugiandosi in studio, sperimentando, suonando, accantonando i Martini, prendendosi cura di sé, riflettendo sul volersi bene, l’accettarsi, l’amarsi, di cui spesso ci si dimentica.
Giugno, le cicale che scandiscono incessantemente il caldo, un ritmo notturno fatto di pochi accordi d’arco e campanellini, un suono meditativo, quasi New Age, che si rinforza grazie alle note corpose di pianoforte e la voce della Welch, incantevole e potente come al suo solito. June fa meravigliosamente il suo ingresso in punta di piedi, chiudo gli occhi e sento già i brividi corrermi lungo le braccia, scuotermi e demolirmi dall’interno. La potenza del coro, “Hold on to each other” è devastante, dove la voce, dopo essersi caricata lentamente, fa scoppiare il suo vigore originario e si fonde con le percussioni da grande orchestra. Teniamoci stretti, tienimi stretta, ti tengo stretto, stringiamoci insieme, resistiamo.
“At seventeen, I started to starve myself / I thought that love was a kind of emptiness / And at least I understood then the hunger I felt / And I didn't have to call it loneliness”, uno schiaffo in pieno volto. Hunger, una dei tanti poemetti personali tratti dal taccuino della cantante, è diventato il singolo di punta del disco, uno dei punti più alti dell’album, capace di farmi sgorgare quelle lacrime che con la prima traccia ho trattenuto a stento. Come lei, nel delizioso video, mi alzo e a piedi nudi inizio ad agitare braccia e gambe e dare sfogo ai pensieri. Sfogo musicalmente reso da una miscellanea pop dove clapping e cori sostengono il motivo di piano e archi iniziale, dando man forte a una verità cruda, dura, disarmante che all’inizio sembra esposta al pubblico come durante un reading ma che poi viene accolta e accettata con una forza nuova, lasciata uscire con naturalezza da ogni nota. Musica e voce sono facili da immaginare come una serie di mani che sostengono la cantante nel mettersi a nudo, togliendole di dosso man mano una serie di pesi che alla fine si possono sintetizzare in un unico grande bisogno: il bisogno d’affetto, d’amore. Ci sono vicende che portano nei casi più estremi a creare una voragine, immensa, enorme, incolmabile, d’amore. Lo si cerca ovunque, lo si implora, diventa una brama autodistruttiva, e non è mai abbastanza. Si è costantemente affamati. Ci si crocifigge per avere attenzione, ci si perde. Come ha ammesso la stessa Florence in un’intervista alla BBC, chi prova queste sensazioni, spesso è portato a pensare: “You’re the answer, why won’t you fix this?”. Perché non riesci a darmi ciò che ti sto chiedendo? Ma poi, come la Welch ha fatto con “High As Hope”, ci si accorge che “Oh, it’s me!”, che molte volte si cerca l’amore in ciò che amore non è, e allora ci si guarda dentro, nelle profondità sommerse, per iniziare a volersi un po’ più bene; ecco che i versi “Don't let it get you down, you're the best thing I've seen / We never found the answer but we knew one thing” diventano salvifici, perché non vengono più dedicati a qualcun altro, ma al proprio io interiore che prende coscienza di sé. E a detta di Florence Welch, probabilmente alle radici di quest’album si staglia una rottura ancora più grande di quella di “HBHBHB”: “Perhaps, you don’t love yourself, the ways you hurt yourself because of that lack of self love”.
Dopo l’impeto musicale e emotivo delle prime due tracce, si trova un minimo di pace con South London Forever, uno sguardo al passato, alla zona sud della capitale britannica, in cui l’artista è nata, cresciuta e attualmente abita. Il tono è finalmente più rilassato, tranquillo, imbastito da semplici accordi di chitarra acustica accresciuti dagli archi e dalle percussioni, magistralmente arrangiati, non a caso in produzione sono intervenuti musicisti del calibro di Kamasi Washington, Jamie xx e Tobias Jesso Jr. A differenza dei primi due album però, i grandi cori e le esplosioni sonore non sono più pomposi e eccessivi, sono finalmente più maturi, riuscendo a inglobare nella loro maestosità la delicatezza del precedente lavoro in studio, risultando ricercati ed eleganti, non più semplicemente un abbellimento vistoso. Si passa per luoghi di vita quotidiana, dai pub in cui la cantante si ubriacava regolarmente alla casa della madre, rimuginando su ciò che è successo, su chi si è incontrato in un cammino lungo 30 anni, su cosa è stato fatto.
Si spengono le luci. Big God con i suoi toni oscuri e quasi inquietanti, è la traccia più cupa di “High As Hope”. Poche note basse ripetute per 4 minuti a cui fanno eco scosse strumentali e sperimentazione vocali. L’atmosfera nera e opprimente è il riflesso di, usando le parole di Flo, “an unfillable hole in the soul, but it is mainly about someone not replying to my text”. Ritorna il tema del buco nero da riempire con tonnellate d’amore presente in Hunger, ma la melodia cupa fa appassire la speranza che caratterizza la seconda traccia, e Gesù Cristo se fa male. Ci si mette in ginocchio e a mani giunte si prega per ricevere amore da qualcun altro, definito “favouirte ghost”, perché “You keep me up at night / To my messages, you do not reply / You know I still like you the most / The best of the best and the worst of the worst”. Va, viene, è una presenza fissa che genere quel senso di paura quando non si fa sentire e che in inglese viene reso con la parola ‘ghosting’. Questa sensazione può essere così angosciante che ci vuole qualcuno o qualcosa grande quanto Dio per colmare quel bisogno primordiale. Dalle tenebre, alla luce di Sky Full of Song. Il primo singolo rilasciato è una ninna nanna essenziale, scarna, semplice, quasi un brano a cappella, se non fosse per l’accompagnamento leggero di chitarra. La voce prende il sopravvento su qualsiasi elemento, domina il brano e i timpani dell’ascoltare, coccolandolo dolcemente e trasportandolo tra le nuvole, quella dimensione su cui spesso atterra la cantante mentre si esibisce di fronte ai propri fan. È una sensazione inebriante, si ha l’impressione di volare, ma allo stesso tempo sfinisce anima e corpo, tanto da chiedere ripetutamente nel ritornello: “Hold me down, I’m so tired now”.
La seconda parte dell’album si schiude con Grace, canzone dedicata alla sorella, ennesima rappresentazione dell’amore. “I’m sorry I ruined your birthday”. Mi dispiace. Mi dispiace veramente. Un giorno speciale, l’unico giorno dell’anno dedicato a qualcuno, forse il giorno più importante dell’anno, così facile da distruggere. Il brano è toccante, un lungo, intimo ‘scusa’ messo in musica, accompagnato dal pianoforte, che esplode nel ritornello in un abbraccio tra sorelle con la forza dell’orchestra. È un’ammissione, un grazie e un biglietto di scuse a cuore aperto. È stato tutto un fottuto casino e tu sei riuscita a sostenere tutto, tu sei l’unica cosa in cui ho fede. L’aggettivo che ho scelto per descrive questo disco è devoto e in questa traccia la devozione è lampante. Uno dei significati della parola ‘devoto’, che in una delle sua accezione significa “che si dedica a qualcuno con affetto, premura, fedeltà” e dopo averlo ricercato per anni negli altri, Florence non lo promette solo a sé stessa, ma al membro della famiglia a cui solitamente si è più legati, ristabilendo un legame di sorellanza inossidabile. Altra figura di riferimento per la Welch è l’amica Patti Smith a cui dedica Patricia. Ad accomunare le due cantanti-poetesse, la forza vocale, la passione per la letteratura, lo spirito libero, di cui è intrisa questa traccia, più rock, più movimentata, che mi ricorda il furore di What Kind of Man. Il ritmo incessante della grancassa si attenua e si smorza verso la fine con quel “It’s a such a wonderful thing to love” rimarcato per ben 8 volte.
Ne segue 100 Years, dove a mio papere le doti canore di Flo raggiungono un livello superiore, dimostrando una ferocia degna della migliore tradizione soul di Nina Simone e Aretha Franklin. Ferocia pompata da una batteria che crea un tempo tutto suo, talmente trascinante che il mio piede si attiva da solo per starci dietro. Ad uno strumento così prepotente, si sovrappone il candore de l’ormai onnipresente pianoforte e l’arpa, grande assente dall’ormai lontano “Cerimonials”, unione sapiente e grandiosa, infatti la canzone suona come la colonna sonora di un vecchio film epico. Per la terza volta, torna a riaffacciarsi il tema dell’amore inseguito disperatamente: “I believe in you and in our hearts we know the truth / And I believe in love and the darker it gets, the more I do … The it’s just too much, I cannot get you close enough”. Le speranze di riempire un minimo quel vuoto esistenziale di cui si è largamente parlato non affievoliscono mai. Però per descrivere il tipo d’amore di cui gronda questo testo, non potrei trovare parole migliore di quelle della cantante stessa: “You think love is unreachable, empty, hungry, then there’s a kind of sadness when something more stable comes towards you. You don’t recognise ita s love because it’s not desperate enough”. Una dicotomia. Felicità, tristezza. L’amore, quella cosa che si cerca con tutte le proprie forze, ma allo stesso tempo ci terrorizza. Quella cosa che dovrebbe essere semplice e spensierata, ma che più complessa e difficoltosa è, più affascina. Un’impasse in cui, chi sta sguazzando nel testo, si trova spesso incastrato.
In chiusura l’album rievoca nella mia testa le atmosfere anni ‘20 de Il Grande Gatsby, l’amore impossibile tra Daisy e Gatsby. Altri tempi, nostalgia, una dolcezza ormai dimenticata, ricordi, petali di rosa che appassiscono, si accartocciano e cadono sotto l’effetto della bellissima The End Of Love. Escluso l’intro di archi, il pezzo è formato solo da voce e piano. Il chorus di voci multiple dà un gusto malinconico ad un dolce ricordo ormai parte del passato: “We were reaching in the dark / That summer in New York”. Se nel binomio piano-voce della penultima canzone regna una velata tristezza, No Choir lo riempie di speranza, speranza data da una nuova consapevolezza. “And it's hard to write about being happy / 'Cause the older I get / I find that happiness is an extremely uneventful subject / And there will be no grand choirs to sing / No chorus could come in /About two people sitting doing nothing”. A riempire il grande vuoto interviene una nuova felicità a cui, verso la fine, ci si abbandona canticchiando il motivetto della canzone stessa. È una felicità che non sta nei gesti eroici, non risiede nel tormento continuo, ma in piccolissimi fragili momenti. Instanti che fanno anche parte del non fare nulla, che risiedono in una fossetta ai bordi delle labbra, nel colore del cielo quel giorno, nella parola spontanea detta inaspettatamente.
Sinceramente, non so nemmeno se questa sia una recensione. Descrivere “High As Hope” significa mettere in fila una serie di sensazioni, testi, pensieri per cui è difficile trovare delle parole esatte, risiedono nella mia testa ma sono talmente amalgamate tra di loro e talmente complesse che paradossalmente renderebbero meglio attraverso un grande pianto o un abbraccio silenzioso. In quest’ottica "High As Hope" diventa quasi un concept album sulla ricerca dell’amore negli altri e in noi stessi, costringendo alcuni ascoltatori a fare i conti con se stessi e con emozioni dannatamente difficili da far affiorare. Qualche giorno fa, un animo mi ha detto “Florence non è per cuori deboli”. Florence è per cuori sensibili. Quella sensibilità tediosa, che può apparire come una debolezza, difficile da maneggiare, che fa pensare “che cazzo me ne faccio?”, che si compone di un lato altamente distruttivo e inquieto. Florence Welch con questo disco raggiunge la maturità sotto diversi punti di vista: personale, musicale e lirico. Innanzitutto, prende il meglio dei tre album precedenti e lo condensa in un sound allo stesso tempo ricercato e morbido, dolce e maestoso, in cui la produzione orchestrale torna ad essere la caratteristica distintiva della band, il tocco di classe. Ovviamente è un album che non si può ascoltare senza tener conto dei testi, intimi, in cui ritrovarsi nei periodi di confusione e malinconia. Il testo non segue più la struttura classica, ma viene strappato direttamente da uno dei tanti flussi di coscienza scritti quotidianamente dalla cantante, ciò li rende intimi e intimisti, altamente personali e coraggiosi, in cui i bisogni più privati vengono analizzati sotto la lente d’ingrandimento e portano la cantante a mettersi a nudo, per sé stessa e per chi le fa compagnia in questo viaggio all’infinita ricerca d’affetto. Non è facile. Non è da tutti. “Being you it’s ok, you’re normal, you just have some stuff going on in your life”.
Florence + The Machine live in Italia: 17 marzo 2019, @ Unipol Arena, Bologna; 18 marzo 2019, @ Pala Alpitour, Torino