Da qualche anno ormai, la prassi critica sembra quasi imporre che la lettura di una recensione si risolva, nella maggioranza delle ipotesi e con le dovute eccezioni, in un tremendamente prevedibile distico, alternato tra il buon vecchio “band riscopre il proprio sound delle origini” e il più vispo 2.0 del “band sperimenta in nuovi generi sfruttando synth e gusti retro”, alternativa nettamente più comune come dimostrato da numerose e recenti uscite. Ovviamente e con non troppa fantasia, all’interno di questa seconda categoria possiamo distinguere chi riesce ad incanalare queste influenze vecchia scuola in proprie composizioni degne di nota, come gli ultimi Arctic e Voidz (anche se, pur di giganti si parla), da chi invece barcolla forse un po’ troppo sulle stesse note (vedi i Muse). Tra due poli così contrapposti in cui spesso ci si sofferma esclusivamente sui meriti e/o demeriti dei singoli gruppi, per forza di cose nel mezzo ci sta, citando un’interpretazione di Guzzanti, “un grandissimo chissenefrega”: ovvero album che alla domanda “ma allora ti è piaciuto?” impongono l’ignobile “Ni” di risposta, condensazione monosillabica del gesto di salvarsi e quindi riascoltare solo poche singole tracce da un intero disco.
In questa terra di mezzo ritroviamo infatti i Fat White Family all’alba del loro terzo disco “Serfs Up!”, il primo scritto e diretto all’ombra della Domino Records. Tuttavia, una loro classificazione alla stregua dell’ennesimo gruppo che abbandona strumenti di per sé canonici in favore di altri più tendenti al digitale che all’analogico sarebbe un errore, anche piuttosto pesante se si rispolvera brevemente la discografia passata della band nata a sud di Londra: in primis perché sarebbe quasi impossibile introdurre la parola “trend” in una stessa frase in cui compare anche il nome dei Fat White Family, volutamente (e fortunatamente) lungi dal desiderio di avvicinarsi al brado concetto di commerciale; in secondo luogo perché i sintetizzatori son sempre stati presenti nel loro repertorio, malgrado non occupassero una posizione dominante nella scala gerarchica degli strumenti. Dove prima le canzoni apparivano come una risultante di strumentazioni, per così dire, “classiche” formate dal trittico basso-chitarre-batteria e solamente poi adornate e rifinite dall’aggiunta di dettagli in chiave synth, in “Serfs Up” invece questa logica di fondo appare totalmente invertita, al punto da sottomettere la proprietà commutativa: il risultato cambia eccome; prima si nota la base “sintetizzata” ed in seguito l’aggiunta di strumenti i più disparati e variegati possibile.
L’album viene ossigenato dall’incredibile maestosità e apertura di suoni prodotti, simile allo stagliarsi deciso della montagna in copertina e declinato in sonorità dense, colme di minuzie ed in grado di rendere efficacemente all’ascoltatore l’immagine di una disco decadentista, che ha sofferto a lungo per l’assenza di caratteri glam nelle scene musicali. Nonostante queste (buone, sia chiaro) premesse dietro al disco, paradossalmente la stessa massiccia consistenza stilistica sconfina eccessivamente in una sorta di ermetismo per chi volesse approcciarsi di primo acchito all’opera: i nutriti suoni apparsi appena poco più sopra rischiano così di trasformarsi in pericolose armi a doppio taglio, rendendo quindi necessari ascolti aggiuntivi al primo per cogliere l’essenza stessa di certe tracce, caratteristica specialmente lampante nei brani meno di punta dell’album e chiaramente non aiutata dal profondo senso di omogeneità, ottimo sulla carta, un po’ troppo monocorde nella pratica (come per esempio, l’assonanza tra la sesta Oh Sebastian e la conclusiva Bobby’s Boyfriend).
Nonostante questi (definiamoli così) “difetti”, dove il CD suona bene, la differenza si manifesta eccome: “Serfs up!” riesce immediatamente ad avere stile, iconografia ed un’immagine ben precisa. Non a caso, le tracce dove l’insieme splende finalmente di luce propria rappresentano anche i principali singoli rilasciati nel corso di questi ultimi mesi; prima fra tutte la narrativamente cadenzata opener Feet, punta di diamante del branco grazie alle risolute sonorità al limite del cinematografico. Segue, in questa distopica e pseudo classifica à la Top of the Pops, Tastes Good With The Money, dove un’ottima base mossa da riff e percussioni riesce, prima, ad essere introdotta da canti gregoriani e, in seguito, ad anticipare un bridge da paura ritmato da versi recitati (a grande sorpresa) da Baxter Bury sullo sfondo di una scenografia parecchio reminescente dei Monty Python, se osservati attraverso le lenti dei membri dei Fat White Family.
Tra gli altri momenti degni di nota troviamo anche When I Leave, il cui languore circolante della chitarra principale in accoppiata con la voce in stile Astronomy Domine dei Pink Floyd sembra vaneggiare i titoli di coda di un heist movie con cupo finale a colpo di scena, e, allontanandosi dai singoli, pure i brani I Believe In Something Better e Fringe Runner: la prima ricorda più o meno vagamente composizioni dei Clash nel periodo a cavallo di “Sandinista!”, la seconda invece sembra quasi guidare la mia mano sulla tastiera grazie all’effetto da ipnosi del constante giro di basso presente in tutta la sua durata.
La Domino Records è riuscita forse a portare tra le proprie fila un cavallo vincente su cui puntare? Possiamo allora quindi approvare con esito positivo questo terzo esperimento dei Fat White Family? In maniera poco sibillina ho spoilerato la risposta a queste domande in apertura della recensione e purtroppo è quello stesso “Ni” che lascia un po’ d’amaro in bocca anche al solo pronunciarlo. I Fat White Family hanno provato a darsi una leggera ripulita dall’immagine post-punk country nichilista che tanto gli aveva caratterizzati in passato e di sicuro idee e potenzialità a “Serfs Up!” non mancano. Tuttavia, complice una specie di ermetismo interno alla produzione ed un senso latente di monotonia, le tracce in rilievo al monte stesso in copertina spiccano a discapito delle rimanenti e, tra le due categorie, saranno proprio le sole prime a rimanere impresse in mezzo a questo disco-decadentismo.