Negli ultimi anni nel Regno Unito, in parte anche in Irlanda, sta prendendo sempre più piede la tendenza degli artisti a trasferirsi a Londra per fare musica. Più opportunità, a fronte di costi più alti, ma comunque un ventaglio maggiore di possibilità. La storia di Ethan P. Flynn segue la stessa trama, anche se il prologo costituisce un twist inaspettato. A otto anni, il futuro cantautore e produttore, compie con la famiglia il tragitto inverso: dalla regione londinese, precisamente Welwyn, allo Yorkshire.
Le ore passate in pullman per andare a scuola, una chitarra richiesta come regalo di Natale a 11 anni – acquistata dai genitori vendendo la Xbox che avevano comprato di nascosto – forniscono un primo ritratto del personaggio. Ethan P. Flynn tornerà a Londra per studiare musica elettronica alla London Guildhall e collaborerà con David Byrne e FKA Twigs. Dopo due EP orientati verso il pop, l’album di debutto Abandon All Hope è una parentesi inedita che, conoscendo gli antefatti, tanto sorprendente non è.
Un disco che affonda le proprie radici nel cantautorato anni Settanta nel quale Ethan torna alla chitarra senza abbandonare tutte le influenze della scena musicale alternativa londinese dove si è formato artisticamente.
La cosa più semplice da fare sarebbe iniziare e finire con la settima traccia del disco, Crude Oil. Ethan P. Flynn in sedici minuti condensa tutti gli stati d’animo dell’album: ci sono il canto chitarra e voce, la componente orchestrale e la sezione più distorta con l’unico assolo di elettrica del disco. Ma non basta. Diventerebbe un’operazione riduttiva nei confronti di una scrittura varia che, procedendo in questo modo, potrebbe apparire invece come la classica raccolta di turbe di un giovane cantautore indie.
Allora, lasciando da parte i cambi di melodia e l’atmosfera camaleontica, il vero nucleo dell’album è nella title track Abandon All Hope. Il racconto surreale di un bandito che muore e finisce al purgatorio dove, per riscattare il proprio posto in paradiso, per tutto il tempo è costretto a girare in auto e rapinare la sua famiglia. L’incedere degli ottoni, unito al suono della chitarra che via via si fa sempre più elettrico e rumoroso, non scardinano l’essenza della canzone che rimane a tutti gli effetti una ballata non convenzionale. Ethan P. Flynn vorrebbe farci perdere le speranze ma, come nella bellissima Television Show – soprattutto in questa versione - il ritornello sembra aprirsi a nuovi orizzonti.
Ethan P. Flynn ha dalla sua la sfrontatezza artistica di chi, agli inizi, non deve rendere conto a nessuno e può giocare a mescolare Neil Young con tutto il resto delle influenze che l'hanno formato. La scrittura solo apparentemente in terza persona, abbinata alla sua voce sempre corposa ed esile allo stesso tempo, suscita emozioni contrastanti. Nella ballata d’apertura In Silence il tema dell’assenza è affrontato in maniera misteriosa: prima gli accordi di acustica, poi gli spensierati arpeggi di elettrica accompagnati dal pianoforte e, in coda, un’esplosione di archi.
Il personaggio al volante nella copertina blu del disco è fuorviante. Persino in una canzone come No Shadow, c’è un orizzonte che sembra aprirsi difronte agli occhi spaventati del protagonista del viaggio interiore. Nella selva oscura penetrano dei raggi luminosi dove non dovrebbero, i na na na di Ava Gore – tutte sue le backing vocals – intervallano i sensi di colpa e trasformano improvvisamente il mood della traccia. È un continuo ballare sul dolore. Gli ottoni sembrano suonare una marcia funebre, mentre la chitarra elettrica esegue un fraseggio spensierato in delay.
Ascoltando lo stile mutevole di Ethan, i continui cambi di tempo, le incursioni dell’avant-jazz, talvolta si è quasi sopraffatti. C’è quasi la sensazione che il cantautore voglia mettere troppo, tutto in una volta. Ma tutto ciò non va confuso con la presunzione, perché di momenti leggeri – per quanto un aggettivo del genere si addica proprio al mood del nostro - ce ne sono. Un esempio è Clutching Your Pearls, la canzone da dove è (ri)partito il progetto di Flynn di pubblicare un album cantautorale. Scritta con la mandola, è stata la prima canzone che l’artista ha ideato senza ricorrere al computer e una delle poche in cui è riuscito a limitare la propria cupezza.
Caught you, clutching your pearls
Let those arms unfurl, (I know it's a)
I know it's a trick, (Come back to the)
Come back to the world
Ogni canzone di Abandon All Hope è come fosse il capitolo di un libro. La punteggiatura non è importante per Ethan P. Flynn, così come l’ordine degli eventi. Non c’è un’escalation drammatica, ma è un giro sulle montagne russe. Leaving The Boys Behind inizia come una canzone nostalgica e commovente sull’amicizia, per poi trasformarsi, nel ritornello, in una danza spensierata e, infine, concludersi con la voce che si spezza in un finale più cupo ed elettronico. Il country incontra ancora una volta l’art-pop.
Il giochino dei contrasti vale anche al contrario, come in Bad Weather: «There's nothing to say and nothing to do / Just don't let the weather outlive you» canta Ethan nel ritornello. La successione di accordi di chitarra acustica – che al sottoscritto ricordano l’inizio di Seduto in riva al fosso di Ligabue (aiuto!) – sono abbinati al basso e all’elettrica, così come la voce sempre oscura di Ethan si sposa con il canto leggero della sua compagna Ava. La canzone più positiva dell’intero album ricorda all’ascoltatore che i momenti negativi sono solo fasi. Eppure, il brano contiene sezioni ossimoriche, come il suggestivo bridge con piano, chitarra e voce appena sussurrata.
Il finale è affidato all’estrema e straziante Demolition. Narrata in tre atti, è la storia di un bambino, di un aspirante cantautore e del lato oscuro dell’arte. Ethan decide di non badare più al controllo della propria voce e, accompagnato solo dalla chitarra, sembra liberarsi definitivamente. Un tentativo di scardinare la retorica della sofferenza: non è necessario stare male per scrivere una bella canzone. Ethan P. Flynn, in un delirio onirico e con l’ingenuità di un bambino, tenta di riportare in vita Nick Drake in una mezzanotte qualsiasi, dopo aver rubato la chitarra a un anziano vestito di nero che in un contesto ideale potrebbe essere Johnny Cash.
Trying to win my infancy back
I thought I had something to say
You've got to be brave to show you're afraid
Ethan P. Flynn non è un artista ordinato, il suo cantautorato si serve di storie oniriche che pescano qua e là, un po’ T.S. Eliot, un po’ Dante; così come la sua musica preferisce sentieri tortuosi e in salita all’immediatezza del country tout court. La sola chitarra non basta: gli ottoni e gli archi, il pop e il jazz, i Black Country, New Road e un’attitudine alla Grian Chatten versione solista.
Abandon All Hope è lungi dall’essere un album perfetto, ma non potrebbe essere altrimenti. Ethan P. Flynn, la sua voce e la sua produzione badano all’intensità e trovano il coraggio di uscire fuori dagli schemi perché a quest’ultimi non sono per nulla interessati. L’impressione è che questo sia solo l’inizio: un cantautorato allo stato puro che dà l’impressione di essere solo una delle numerose sfaccettature dell’artista inglese.