Alcune band entrano nelle nostre vite con discrezione, come una presenza familiare che non ha bisogno di farsi notare, ma che c'è sempre quando serve. Altre invece arrivano con la forza di un lampo, scuotendo tutto attorno e lasciando il segno. I Black Country, New Road riescono a fare entrambe le cose.
All’inizio si sono affermati con la potenza imprevedibile e vertiginosa dei loro primi lavori, diventando in poco tempo una delle realtà più originali e disturbanti dell’art rock contemporaneo. Poi come spesso accade nella vita vera, si sono interrotti perdendo qualcosa, forse anche sé stessi. Ma invece di ricostruire ciò che era andato perso, hanno scelto di cambiare pelle e con Forever Howlong hanno trovato un nuovo linguaggio: più quieto, più profondo, più vicino alla verità.

La traiettoria dei BC,NR è ormai ben scolpita nella memoria di chi li segue dagli inizi: l’esordio travolgente con For the First Time, poi Ants From Up There, un disco che sembrava spalancare il cuore e stringerlo nello stesso istante. Subito dopo, il colpo che nessuno si aspettava: l’addio di Isaac Wood voce e penna capace di trasformare il turbamento in poesia. Un vuoto enorme. Eppure, invece di rincorrere la nostalgia o di sostituire ciò che si era perduto, il gruppo ha scelto la via più coraggiosa: ripartire, senza maschere, senza scorciatoie. Hanno lasciato andare i brani del passato rifiutando l’idea stessa di replica e hanno smesso di cercare un nuovo frontman. Hanno fatto una scelta radicale e umana: condividere la voce, lo spazio, la direzione. Live at Bush Hall è stato il primo segnale, una dichiarazione dolce e incerta di nuova identità. Ma è con Forever Howlong che questa identità prende davvero forma. Qui non si prova più: si è. Si vola.
Bastano pochi istanti per capire che Forever Howlong parla un’altra lingua. Le distorsioni scompaiono, le chitarre elettriche si fanno da parte mentre al loro posto emergono timbri più intimi: flauti leggeri, mandolini, archi tenui, armonium e pianoforti tremanti. Tutto suona più esposto, più vulnerabile. La scrittura si alleggerisce, si fa diafana, come se cercasse di non disturbare. Le voci: quelle di Georgia Ellery, May Kershaw e Tyler Hyde si rincorrono, si accarezzano, si fanno da eco. Nessuna prevale, nessuna cerca il centro. È una coralità gentile, in cui il silenzio ha lo stesso peso della nota. Qui la forza non sta nel volume, ma nella delicatezza. È musica che nasce da legami profondi, da uno stare insieme che mette prima l’ascolto del gesto.
Le canzoni scorrono come fotogrammi di un vecchio film senza parole: istanti sospesi, emozioni che restano in bilico, sogni che non si compiono del tutto ma lasciano traccia. C’è una grazia sottile che attraversa tutto il disco, una malinconia gentile, mai passiva, che accarezza invece di ferire.
L'incipit Besties racconta l’amicizia con una dolcezza disarmante come se prendersi cura dell’altro fosse oggi un gesto quasi rivoluzionario. In For the Cold Country l’aria è rarefatta, gelida, eppure ogni nota sembra riportare sangue al cuore, come un ricordo che fa male ma ci tiene vivi. Poi arriva Nancy Tries to Take the Night e sembra davvero di entrare in una fiaba notturna, con le ombre che si allungano e qualcosa di misterioso che resta in attesa. I testi, meno diretti di un tempo, si muovono tra simboli e immagini quasi arcaiche: divinità, visioni, frammenti di racconti perduti. Eppure, al centro di tutto, pulsa sempre qualcosa di profondamente umano un bisogno semplice e vero, che chiede solo di essere ascoltato.

Ogni brano custodisce una personalità ben definita ma sempre misurata, mai sopra le righe. Non c’è la pretesa di impressionare, solo il desiderio di raccontare qualcosa in modo autentico. Si sente in ogni scelta una delicatezza rara: la precisione degli arrangiamenti, i silenzi carichi di significato, l’ingresso discreto ma incisivo degli strumenti. È musica che nasce da mani attente, come un oggetto scolpito lentamente, senza fretta, come se ogni suono fosse stato levigato con la stessa cura di un artigiano. Questo modo di fare musica però porta con sé pregi ma anche difetti. Sul fatto che i BC,NR siano dei musicisti incredibili non abbiamo nessun dubbio ma questo eccesso di coralità e forse un pizzico di barocco di troppo, rendono questo album leggermente piatto e lineare. Le tre voci si mescolano tra loro senza mai risaltare, senza mai avere un acuto, mentre la grande capacità dei singoli dietro agli strumenti rende il tutto decisamente pomposo. Sia chiaro, ciò non rende l'album non piacevole all'ascolto, anzi, ma ci fa capire che la band è ancora in fase di assestamento, nonostante la strada intrapresa sia probabilmente quella giusta e i risultati non tarderanno ad arrivare.
La chiusura del disco arriva con Goodbye (Don't Tell Me) che porta qualche sprazzo di quello che sono stati i BC,NR mentre la porta viene lasciata aperta. Non è una fine. È una sospensione.

Forever Howlong è un titolo che suona come un paradosso, una frase spezzata, una domanda senza punto interrogativo: "per sempre" ma "per quanto?". È una promessa che si consuma nel momento stesso in cui viene pronunciata. Sembra che la band ci inviti a riflettere su cosa rimane davvero quando tutto è in movimento, su cosa possiamo trattenere mentre il tempo scivola via e la risposta, se c’è, non viene mai detta esplicitamente. È sparsa ovunque: nei cori che si sfiorano senza sovrastarsi, nei dialoghi sottili tra le voci, nei suoni che svaniscono piano, lasciando solo l’eco. La musica qui non pretende di spiegare ma di accompagnare. È una risposta incompleta, ma profondamente umana: non possiamo fermare il tempo, ma possiamo abitare ogni istante come se fosse infinito, almeno per un po’.
Tirando le somme questo è uno di quei dischi che non urla mai, ma ti resta addosso. Che ti parla piano e proprio per questo ti fa ascoltare te stesso mentre lo ascolti. È un album che non risponde ma accompagna. Che non ti salva ma ti consola. Che non pretende nulla se non un po’ del tuo tempo. E forse è proprio questa la sua verità più grande: che anche nel dubbio, nella perdita, nella domanda senza risposta, qualcosa può durare. Non per sempre forse, ma abbastanza a lungo da lasciarti qualcosa nel cuore.