I wish I was bruiseless / Almost everyone I love has been abused, and I am included
I due versi con cui si apre My Soft Machine rappresentano un intro, ma anche un riassunto. Arlo Parks rimpiange l’infanzia, quando i lividi erano solo in superficie e se li procurava andando in biciletta. A sette anni non si conoscono i meccanismi, talvolta sadici, del mondo e della mente, qualcosa con cui la cantautrice inglese ha dovuto confrontarsi nell’ultimo anno e mezzo.
Il seguito dell’acclamato Collapsed in Sunbeam è un album personale dove la cantante cambia pelle, ma non il modo di scrivere. Si tratta solo della direzione dello storytelling: se prima era diretto verso l’esterno e il mondo circostante, ora si volta indietro e scava.
My Soft Machine, titolo ripreso da una battuta del film The Souvenir (2021) di Joanna Hogg, descrive l’intento di Arlo Parks: raccontarsi e cercare di comprendersi e accettarsi attraverso il racconto stesso. Il corpo umano, inteso come carne e sentimenti, è una macchina complessa oltre che “morbida”.

Quale punto di partenza migliore se non le proprie imperfezioni. Arlo Parks lo fa con un ritmo seducente tenuto saldo dal basso e dall’incursione degli accordi elettronici e degli scratch. Impurities è il rapporto che ognuno di noi vorrebbe avere con la musica e con la gente che ci circonda. Essere capiti e apprezzati anche per le proprie debolezze, ballare e tenere il tempo con esse, raggiante come una stella. Siamo alla traccia due, ma il cammino è già tracciato: «Don’t hide the bruise» ripete nel finale Arlo Parks, mentre nel videoclip il buio che la avvolge è smembrato da lei stessa e dalle persone che rendono la sua vita migliore.
Si continua a ballare, stavolta col ritmo più funky di Blades, uno dei brani dove la cifra stilistica di Paul Epworth (Adele, Coldplay, Florence and The Machine, U2) prende il sopravvento. Il produttore inglese, già coinvolto nel debutto, come avveniva in Too Good, sposta la lancetta verso il pop, senza tuttavia disperdere le vibrazioni soul e R&B che contraddistinguono l’artista londinese. Il ritornello ricorda quello di Caroline, ma l’evoluzione del pezzo conduce da tutt’altra parte: una festa, una stanza piena di amici e quella persona che non vedi da un sacco di tempo da cui non riesci a distogliere lo sguardo.

Sono due le novità più evidenti che differenziano My Soft Machine dal disco precedente. Le incursioni – per ora brevi, ma che si spera in futuro possano diventare ancora più protagoniste – del rap e la presenza della chitarra. Le cinque corde non rappresentano solo una scelta musicale, ma un manifesto poetico. Devotion, nata dall’ascolto di 17 Days di Prince durante un viaggio in auto, è un brano rock con cui Arlo Parks rende omaggio alla musica che ascoltava da adolescente. Il basso è figlio del grunge, le chitarre distorte del rock di fine secolo, vedi per esempio i Deftones citati nel testo. A completare il quadro ci pensa ancora una volta il videoclip in pieno stile anni 90 con la band che suona in un ascensore. Simbolo di quella generazione che non si sentiva compresa e che voleva comunque farsi ascoltare a tutti i costi, occupando anche gli spazi più scomodi.
La chitarra, compagna principale nella maggior parte dei brani dell’album, muta col passare dei minuti e consente all’artista di esplorarsi. I riferimenti musicali rimangono i medesimi anche in Dog Rose, brano che inizia come una canzone degli Arctic Monkeys di Suck It and See e prende il largo con un ritornello infarcito di fuzz e distorsione. Una canzone d’amore colma di speranza e nostalgia pensata in hotel e scritta alle tre di mattina. Si sa, le cose più belle spesso sono quelle più inaspettate, come Purple Phase, uno dei pezzi migliori dell’album, nato quasi per caso. L’arpeggio di elettrica è frutto di Paul Epworth, il resto è figlio dell’improvvisazione di Arlo Parks al termine di una settimana di lavoro intenso. È il primo brano della tracklist in cui la cantante mette in mostra i propri lividi, quelli più profondi, legati all’ansia generazionale e alla paura di affrontare i suoi 22 anni (nel testo 24).

Il singolo di punta scelto è senza dubbio Weightless, primo estratto dell’album. Un brano urban caratterizzato da uno storytelling mirato. Arlo Parks dialoga con un tu assente che non l’ha mai ascoltata né tantomeno lo farà ora che il suo “lato vulcanico” è venuto allo scoperto. È una canzone drammatica e allo stesso tempo leggera come il titolo. La cantante inglese trova il coraggio e la sua forza è scatenata dal ritmo degli accordi sintetici, che compaiono un attimo prima e durante il ritornello, e che ricordano Gonna Fly Now, colonna sonora iconica di Rocky. Tuttavia, l’aspetto più interessante è il bridge prima del refrain finale, quando la canzone muta la linea melodica e lascia spazio a un beat sul quale l’artista rappa per qualche secondo.
And I usually know my strength
But here I am at ninety degrees bent
A metallic taste at the back of my throat
[…]
Keeping wool over my eyes
Alla delusione per una relazione illusoria e finita male, fa da contrasto Pegasus. Il featuring con Phoebe Bridgers è a tutti gli effetti un b-side del precedente, ma non per come si intende di consueto. È l’altra faccia della medaglia, una contro-narrazione sia musicale che testuale. L’amore vero si riflette in un suono più minimale ed etereo scandito dal ritmo cadenzato di una drum machine e dalle note di tastiera. Si può dire che per tre minuti Arlo Parks sia entrata a far parte delle boygenius. L’amore ritorna spesso, sotto diverse vesti musicali e narrative. In Room (red whings) prende spunto dal romanzo Autobiografia del rosso di Anne Carson, a sua volta ispirato al mito di Eracle e Gerione. La scelta cade su un pop raffinato: suoni avvolgenti che si diradano strada facendo. Un arpeggio di chitarra elettrica preannuncia il finale a cappella.

Ciò che rende My Soft Machine un disco essenziale nel percorso artistico di Arlo Parks lo si può comprendere dalla coppia di brani al centro della tracklist. Puppy fonde una base rap con il fuzz delle chitarre. Il cantato dell’artista londinese è morbido, ma la precisione con cui non esce mai dal seminato melodico sembra sottolineare il dolore interminabile di un lutto - quello della prima strofa - messo metaforicamente a confronto con la lacerazione emotiva per la prima grande delusione amorosa. La realtà si è dimostrata molto diversa da come Arlo Parks se la immaginava due anni fa quando in Hurt cantava: «Just know it won't hurt so / Won't hurt so much forever». La verità è in entrambi i brani, cambiano il punto di vista, il momento e l’approccio.
Le ispirazioni sono dichiarate: Frank Ocean, soprattutto nel suono delle chitarre e nel flow del bridge, My Bloody Valentine e Vampire Weekend. Il caso vuole che alle percussioni della successiva I’m Sorry ci sia Garret Ray, batterista dal vivo di questi ultimi. La decima traccia del disco è la sintesi tra il soul emotivo di Collapsed in Sunbeams e l’apparente leggerezza di My Soft Machine. Le chitarre e il pianoforte sono a corredo di un testo struggente che si alza leggiadro su un sinuoso giro di basso. Torna il racconto di un evento quotidiano che assume un significato universale: l’ambientazione è il Dayglow Cafè, la protagonista sembra essere la stessa Arlo Parks che qui forse sarebbe più opportuno chiamare col suo vero nome, Anaïs. Il trauma e gli abusi segnano in profondità chiunque li abbia subiti, a quel punto tornare ad avere fiducia in qualcuno è difficile.

Il disco si chiude con Ghost: il fantasma del passato si dissolve in un brano sommesso in cui l’artista torna alle proprie origini. Si tratta infatti di una canzone scritta nel 2020 i cui versi però rappresentano la conclusione perfetta di una storia di rinascita. Arlo Parks si apre a chi le vuole bene realmente e canta «Wanna let you in, wanna let you help me». Raccontarsi per liberarsi dal dolore, dal PTSD che l’ha tenuta legata a terra nonostante la sua carriera stesse prendendo il volo con il Brit Award come artista rivelazione e il Mercury Prize per il suo album di debutto.
My Soft Machine al primo ascolto potrebbe sembrare manchevole di quell’originalità che caratterizzava il suo predecessore. La presenza più marcata rispetto al passato della produzione di Paul Epworth, lo scivolamento verso suoni affini al pop tradizionale e il gusto ritrovato dalla nostra per le chitarre anni 90 sono spiazzanti. Però poi il cantato, i ritmi, ma soprattutto i testi conducono l’ascoltatore nel mondo interiore di Anaïs. La sua scrittura e la capacità di parlare per mezzo di versi che uniscono poesia e cruda realtà, la rendono una delle autrici migliori della sua generazione. Con l’aumentare degli ascolti si apprezzano i cambiamenti: i fuzz di chitarra trasmettono la stessa nostalgia provata dall’artista inglese, mentre il flow adottato senza preavviso è sintomo di onestà. Sì, prima di tutto My Soft Machine è un album onesto in cui l’intimità non è un manifesto per le vendite.
La cosa più incredibile però è un’altra. Ascoltare un disco di Arlo Parks, soprattutto questo secondo dove l’alternanza tra luci e ombre propende di più verso le seconde, è un’esperienza rigenerante. Raccontare il proprio dolore può essere doloroso a sua volta: «I don't wanna be that friend that's always in pain» canta nel finale Anaïs. Ma la realtà è diversa, si tratta solo di uno dei meccanismi complicati della mente, della Soft Machine. La verità è che nel corso del viaggio sonoro ci si sente abbracciati e non si viene mai lasciati soli. E in fondo è anche quello che desidera Arlo Parks. D’altronde, chi non vorrebbe abbracciarla dopo quaranta minuti così emozionanti?
