In un giorno d’ottobre del 1957, un palla dotata di quattro antenne sorvolò sul Nuovo Mondo per comunicargli ad intermittenza un irriverente e breve segnale: «Do svidanija, cowboy». Da laggiù si decise di investire la stizza in capsule di latta equipaggiate di impavidi omini gonfiabili dai volti riflettenti capaci di rimbalzare sulla gigante groviera dello spazio. Qualche rincitrullito terrestre, deluso dalla qualità delle immagini che riproducevano la portentosa missione, si convinse che Cape Kennedy fosse una succursale di Hollywood. Chi poteva essere immune all’ipnosi inguaribile dei complottisti? Sicuramente non un compositore eccentrico di trent’anni del terzo millennio. Situata a Beverly Hills, la saletta prove di Alex Turner degli Arctic Monkeys è stata ribattezzata nel 2016 Lunar Surface, come quel palcoscenico calcato dai dilettanti diretti in quattro e quattr’otto da un Kubrick timoroso per le sorti del fratello comunista: è proprio in questo luogo tappezzato di locandine dei capolavori di Fellini che hanno avuto origine i demo del sesto album della band, Tranquility Base Hotel & Casino (Domino Records, 2018), una raccolta di undici novelle ambientate in un immaginario futuro nel quale l’uomo è dotato di protesi mediali che alterano la percezione, acquista accattivanti pacchetti relax presso i maria della Luna, si impelaga in discussioni aventi come soggetto tutto ciò che concerne la post-verità.
Uno Steinway Vertegrand, una sorpresa per il suo terzo decennio nel mondo dei vivi, aveva stravolto un processo compositivo assodato in quattordici anni di labor limae in piedi e plettri tra le dita. Quel gioiello fu la porta di accesso ad un passato ormai sepolto: tra un sorso di birra messicana ed un gorgheggio, Turner riuscì ad intravedere la propria immagine di bambino che seguiva con ammirazione le lezioni di jazz di papà David. Mani da autodidatta si avventuravano in accordi inauditi, esploratrici in avanscoperta in una giungla di suoni registrati in un Tascam 388, con gli occhi sempre alla ricerca di possibili predatori, quei serpenti velenosi chiamati riff. Alcune larve vennero portate in salvo, persino quel macho di Jamie Cook - il fondatore del gruppo, ricordiamocelo - rimase spiazzato al primo ascolto di quelle birichine, ma le accolse affettuosamente e partecipò ad abbellirle. Vennero portate in una villa liberty a La Frette-Sur Seine e con l’aiuto di Nick ‘O Malley, Matt Helders, il fido produttore James Ford ed altri vecchi amici, seppero costruirsi attorno a sé dei confortevoli favi dorati, numerosi richiami al Rhythm and Blues, alla Lounge Music e al Dream Pop in grado di stuzzicare chiunque fosse avvezzo alle retrospettive. Zackery Michael scattò una foto inequivocabile: tutto si svolgeva attorno ad un Turner barbuto, rappresentazione di maturità, soccorso da tre intraprendenti e coraggiose guardie del corpo.
Sebbene sia risaputo che l’io narrante nei testi degli Arctic Monkeys non è Turner ma il suo multiforme alter ego, la ricerca di frasi allusive alle sue esperienze private è un’attività ricorrente presso i fan. Eccoli accontentati: l’inglese non poteva che offrirgli un bell’antipastino bollente da pregustare in compagnia della sua versione “sirena ululante”: «I just wanted to be one of the Strokes / Now look at the mess you made me make». Star Treatment è il racconto rap in Rythm and Blues di una nana bianca, un musicista vissuto bistrattato da sé a causa del suo blocco dello scrittore, impegnato in una lotta per la sopravvivenza in cui lui, seppur karateka, ha avuto la peggio; l’ascoltatore si annota un promemoria per il futuro: guardare Blade Runner. Si torna sulla Terra, si cerca di osservare un nuovo punto di fuga (One Point Perspective), ma è impossibile perché è nascosto da un ancheggiante nostalgico che ripercorre i momenti della sua giovinezza, quando si immedesimava in profili migliori di quello che ha assunto nel tempo. Un tasto martellante (quasi un hip-hop beat) lo riporta alla realtà, laddove regna sovrana la decadenza della sua civiltà: non gli resta che darsi al soul e piangere con sensualità. La canzone è interrotta bruscamente, rispettando quanto descritto, il tema della perdita del proprio «train of thought».
Arrivati a questo punto, è necessario che l’autrice intervenga per un appunto personale. Provo ribrezzo per le immagini del nostro pianeta dal satellite, un motivo che vi spiegherò chiedendo in prestito a Turner i primi due versi di American Sports: «So when you gaze at planet earth from outer space / Does it wipe that stupid look off of your face?». Io mi coprirei la faccia con entrambe le mani, non avrei il coraggio di affrontare la nostra vacuità di esseri in mezzo a luoghi screziati, odio la tonalità scura del blu del mare; di conseguenza, ritengo che questa sia la canzone più melanconica dell’album. Un groove che ci spinge sino ad un pezzo celebre dei Last Shadow Puppets, un assolo anni Settanta che chiude il bridge nel quale le batoste prese in quel campo di battaglia che è la vita sono paragonate ai dolori muscolari degli ex atleti di football americano. Il tono sinistro adottato da Turner è solamente una prova della sua recita che si terrà al Tranquility Base Hotel & Casino. Qui gli Arctic Monkeys indossano le loro vesti migliori: quel tremolio del sintetizzatore nell’intro, chitarra e batteria esotiche, il basso alla Bond style che fa da ossatura al brano, a cui si aggiungerà un clavicembalo che controbilancerà l’atmosfera futuristica andatasi a creare. Quest’ultimo è il classico motivetto che si riproduce automaticamente durante il trasferimento di una telefonata, azionato da Mark, il receptionist del gigantesco complesso turistico che ha sede nel mare Tranquillitatis, il cui modellino realizzato da Turner è riprodotto nella copertina del disco. Si percepisce una modulazione della voce magistrale quanto l’idea di porre due frasi-ossimoro in apertura. È un rapporto tra l’io, adulto ma ancora incapace di esprimersi, e una parte di mondo, la tecnologia, così sexy che ruba il tempo necessario per trovare la risposta ai propri deliri filosofici.
Introdotta da una chitarra inquietante quanto i film di Dario Argento, Golden Trunks è una ninna nanna ispirata ad un recente litigio malsano scongiurato dall’intercessione dell’amore. La notte avanzava e concedeva esclusivamente frasi irrazionali: «il leader del mondo libero sembra un wrestler che indossa pantaloncini attillati dorati; ha trovato una musichetta rappresentativa, la suonano ogni volta che sale sul ring». Siamo sicuri che queste parole siano dettate dal sonno? Perché «nel giorno» - e qui cambia l’arrangiamento - «delle figure flessibili con dei fardelli carichi di bugie freschissime sono alla ricerca di qualcosa di più nuovo da pubblicizzare».
Siamo appena giunti nel lato oscuro della luna. Ehi, che succede? Un riff sta tornando a carponi verso di noi...alla faccia del “questi non sono gli Arctic Monkeys, ma un progetto solista di Turner”! Four Out Five è un addio al lavoro passato, come si può facilmente percepire dal continuo cambio di toni. Ciao belle muse da amare al chiaro di luna, il vostro Alex ha una taqueria da gestire presso il cratere Clavius, non è male, i feedback sono positivi. Prendetela comoda ma andate a trovarlo, il viaggio sarà sereno. In questa canzone è condensato il concetto di information-actio ratio (qui usato come nome del taco shop) coniato dal sociologo Neil Postman, che nel 1985 era molto preoccupato del destino dell'umanità; già da allora, la parola è in pasto ai media, che come delle mamme pellicano offrono delle poltiglie rigurgitate a modo loro. Quanta tenerezza, ci lisciano pure le piume con il loro becco! L’entertainment, con il suo linguaggio semplice ed accessibile, ha favorito ad un arretramento culturale: Four Out Of Five è costruita sulla base di questa constatazione, difatti è l’unica canzone facilmente apprendibile ed è il primo singolo dell’album; il videoclip è un omaggio al genio di Kubrick.
Da queste parti le disquisizioni su Postman vanno di moda perché si viene costantemente bombardati da un verso di un jingle allegro: «You push the button and we’ll do the rest». Che atmosfera onirica...no! È impossibile dimenticarsi della situazione attuale sul nostro pianeta di origine, è messo così male che succedono cose inimmaginabili, come The World’s First Ever Monster Truck Front Flip. Ma in tre minuti l’ascoltatore si è rilassato, ora è fresco, può affrontare tre ore e quaranta di Welt am Draht, il film del 1973 che diede il La alla stesura delle prime bozze di Tranquility Base Hotel & Casino, per provare poi ad immaginarselo con le musiche di Belladonna of Sadness (Columbia Records, 2017). In un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento e le persone partono per colonizzare nuovi pianeti, il progresso tecnologico, dio assieme al denaro che ha scalzato le religioni, ha trasformato radicalmente la società. In quest’epoca in cui la realtà è divenuta Science Fiction, Turner perde tempo a costruire metafore argute per parlare dell’amore. Come nel film di Fassbinder in cui la comunità in cui vive il protagonista non è altro che una simulazione virtuale del mondo reale, questa canzone ha un significato apparentemente complesso.
Turner è un fottuto genio, ama fare finte, un po’ come la rete, non è forse vero che She Looks Like Fun? Un divertimento che può creare dipendenza e mostrare il nostro lato ferino: «there ain’t no limit to the length of the dickheads we can be». La riflessione del narratore si accompagna in due tempi, veloce come lo scorrimento delle nostre timeline; lento come l’invettiva contro questa crisi d’identità, la cui origine si trova nella nostra vanità. Il discorso viene ripreso in un locale jazz simile a quello in cui ruotano le vicende di Le Samouraï, film del 1967: «ti ho mai raccontato di quella volta in cui sono finito dentro un buco, perché risucchiato da un dispositivo mobile?». Ci risiamo, il solito intellettualoide romantico; poverino, è succube degli aggiornamenti del sistema del suo Batphone, da esso ha costruito con arguzia una metafora dei primi istanti di una liaison.
C’è ancora del carburante a sufficienza per un ultimo viaggio, è ora di rientrare nella Lunar Surface. Tornato a casa, lo sguardo del narratore incontra quello di una persona ritratta in una vecchia foto. Un tempo erano amici, andavano nella parte esterna di un bar per osservare la partenza dei razzi; le aveva pure dedicato una canzonetta dozzinale, oggi la chiamerebbe The Ultracheese. Si accorge di essere cambiato, la sua voce è più chiara e raggiunge note più alte, è bravissimo nel crooning, ma gli albori della sua carriera «non hanno smesso di pesare una tonnellata», perché «I’ve done some things that I shouldn’t have done / But I haven't stopped loving you once». Avvolto da questo alone di mistero, l’uomo chiude la comunicazione.
Un suono compatto anche se riprodotto a basso volume, perfetto sottofondo per una hall di albergo; continui cambi di tempo, toni e generi; scambi di strumenti tra i musicisti; un flusso di parole che richiede un ascolto paziente e attento nel recupero dei numerosi rimandi culturali ai quali si ispira; adozione di timbri differenti per impersonare al meglio i personaggi o per dare maggiore enfasi al racconto: un album che sembra più una colonna sonora di un film noir che il prodotto successivo al successone AM (Domino, 2013), è un risolutivo tassello di un puzzle iniziato con i tentativi di crooning in Cornerstone e No. 1 Party Anthem, proseguito con i singoli You’re so Dark e Vertigo e gli album Belladonna of Sadness e Everything You’ve Come To Expect (Domino, 2016).
Registrato con apparecchiature analogiche, i muri del Tranquility Base Hotel & Casino sono stati innalzati seguendo i dettami di Phil Spector, una creatura fantastica che un tempo stimolò l’estro di Brian Wilson per comporre Pet Sounds, l’album che ha rivoluzionato l’idea di produrre musica per la massa. Scritto durante il periodo da eremita di Wilson, orchestrato per clacson e theremin, è annoverato tra le cause della grande svolta dei Beatles. È a loro che Turner riserva le suite più confortevoli, è con loro che condivide un parallelo: il viaggio sulla luna ha diviso la critica allo stesso modo del Magical Mystery Tour; Golden Trunks e She Looks Like Fun paiono estratte dal primo medley di Abbey Road, un guizzo artistico a cui il libretto fa da contraltare piccolo e traballante. Se dagli anni Sessanta abbiamo appreso che le orchestre possono entrare a far parte della musica commerciale e dal pattume dei testi possono fiorire melodie sempreverdi, nel 2018 gli Arctic Monkeys sono riusciti ad unire le istanze dei Beach Boys e dei Beatles con il benestare di Dion DiMucci, seguace del wall of sound; del camaleontico David Bowie, primo musicista a lanciarsi nello spazio; dei sublimi poeti Serge Gainsbourg e Leonard Cohen, accorti ed ermetici osservatori della realtà.
Tranquility Base Hotel & Casino ci destabilizza al primo ascolto perché vuole distruggere i nostri desideri di ascoltatori moderni. Dai nostri beniamini pretendiamo tre minuti accattivanti, con uno schema preciso, con parole semplici, ritmi che se valutati nel complesso, spiccherebbero rispetto agli altri; l’ascoltatore medio ha un gusto per le hit e scarta i resti non reclamizzati. Andare contro l’industria musicale pur restando sulla cresta dell’onda grazie al fermento dei fan creatosi in cinque anni di stallo, non proporre tormentoni ma undici canzoni imprescindibili con continue variazioni all’interno di esse: cambiando nuovamente forma, gli Arctic Monkeys hanno saputo rioffrire una ricezione classica di cui c’eravamo amaramente disabituati.