C’era già tutto nel suo sguardo. Occhi che si affidano per un attimo al vuoto, fino a vincere l’angoscia e rincorrere velocemente l’obiettivo, mostrandosi intimidatori e al contempo protettivi verso se stesso. È bastato un primo piano di Alex Turner nel videoclip di There’d Better Be A Mirrorball per anticipare la scomposta inquietudine di The Car, settimo lavoro degli Arctic Monkeys.
Quell’occhiataccia, indubbio omaggio a Sergio Leone e degna di un cultore del cinema come lo stesso cantautore, per l’occasione regista del video musicale, è come se volesse annunciare: “Apertura straordinaria del mio vero io, affrettatevi”. È riassunto in questa breve inquadratura, l’album The Car: c’è la necessità di raccontare le proprie emozioni attraverso la tecnica del travestimento, di accennare qua e là episodi vissuti in prima persona e spargerli in dieci tracce, mescolandoli alla quotidianità delle persone qualunque. Infine, legare queste storie a un fil rouge inaspettato, un mezzo di trasporto apparentemente banale ma evocativo: la macchina. Chi non conserva un ricordo personale avvenuto sulle quattro ruote.
Dieci brani come dieci numeri da illusionisti, un mestiere che sa ben fare il quartetto di Sheffield, anche stavolta accompagnato dal produttore James Ford e dai musicisti Tyler Parkford e Tom Rowley, quest’ultimo autore con Turner di due canzoni di The Car. In mezzo a questo autentico «Guazzabuglio del cuore umano» – citazione colta d’obbligo – viene incontro la musica, costruita con una perfezione maniacale: ci sono volute due sedute di registrazioni di gruppo prima di ottenere il lavoro strumentale completo, realizzato l’estate dello scorso anno nell’ex monastero di Butley Priory nel Regno Unito, mentre le voci sono state incise poco dopo a La Frette, lo studio di registrazione francese di Tranquility Base Hotel & Casino.
Registrazioni che hanno cominciato a prendere forma proprio con la traccia di apertura, There’d Better Be A Mirrorball. Una canzone che si avvicina ai ritmi di Tranquility Base Hotel & Casino, come se volesse fare un ultimo saluto a un’era giunta al capolinea. Una rottura come quella cantata dolcemente nel testo, un racconto insolito per cominciare un album nuovo. «Don’t get emotional, ain’t like you», si rivolge Turner a se stesso. Leggasi: “Non c’è spazio per le smancerie, chiudiamola senza farci del male, lasciamo alle spalle i rimpianti”. Ci vogliono nervi saldi per affrontare la chiusura di una relazione e secondo Turner il segreto sta nel prendersi non troppo sul serio. Così si avvia in macchina, per non rivedere più la propria partner. Avviene un attimo di esitazione, enfatizzato da tristi violini ed espresso con un tenero falsetto. “Ma una volta chiusa la portiera, ci sarà un riscatto finale, una luce in fondo al tunnel lucente e rassicurante come una sfera specchiata sul soffitto di una sala da ballo?”, si domanda il cantautore. «Oh, there’d better be a mirrorball for me», riflette deciso, premendo l’acceleratore sul domani.
Tante le novità in questo disco: fanno il loro debutto gli arrangiamenti di archi, per la prima volta orchestrati da Turner, un poderoso Moog, manovrato da Jamie Cook, mentre il basso di Nick O'Malley e la batteria di Matt Helders smorzano i toni, senza però nascondersi.
Fa la sua prima apparizione anche un pedale tipicamente dad-rock: è il wah-wah, quasi ripescato dal gruppo da uno scatolone di oggetti impolverati, che rende squisitamente funky la seconda traccia di The Car, I Ain’t Quite Where I Think I Am. Un’altra divagazione semi-seria tipica di Turner, che si perde nel bel mezzo di una festa noiosa immersa in un’atmosfera sexy alla Charlie’s Angels, mentre i bonghi rendono il tutto molto esotico. Un viaggio a bordo di una nave da crociera – piace pensare che sia la Love boat dell’omonima serie tv – in una località ignota che solo alla fine l’autore riesce a individuare. È stata la prima canzone di The Car a essere rappresentata dal vivo – il debutto risale al 23 agosto scorso, a Zurigo – ed è stata scelta come terzo singolo dell’album.
The Car è l’album più cinematografico degli Arctic Monkeys. Non c’è strofa che non possa essere immaginata come una sequenza di un film, con le panoramiche degli esterni, le battute degli attori pronunciate, i primi piani che evidenziano le espressioni, infine le azioni che scorrono sullo schermo, che spesso danno l’impressione di assistere a una spy story.
L’esempio più evidente è Sculptures of Anything Goes, il brano più vicino a Humbug, terzo album della band di Sheffield uscito nel 2009. L’ascoltatore viene accolto da una fortezza sonora fatta di Moog e drum machine, tipica dei capolavori di John Carpenter. A grande sorpresa, Jamie Cook dà il meglio di sé usando uno strumento diverso dalla sua fedele chitarra. Qui, il secondo chitarrista della band è anche in veste di coautore. È una canzone cupa, come lo spazio metafisico descritto. Procede lenta come una camminata investigativa, che termina con alcuni dei versi più geniali scritti da Turner: «Flash that angle grinder smile, gasp, and roll your eyes / And help me to get untied / From the chandelier / And twizzlin’ ‘round an umbrella / I’ll sing a tune». Una frase carica di pathos, dettata dal memorabile verso di sussulto e dal falsetto finale del cantante. Potrebbe essere la canzone perfetta per aprire la tournée di The Car.
Con i lenti arpeggi di Jet Skis on the Moat, cambia la scena. L’ascoltatore viene proiettato all’aperto, in una giornata che non può che essere soleggiata, come lo stile soul e groove che caratterizzano il brano. Un’immagine fiabesca, quella delle moto d’acqua che navigano su un fossato, apre la canzone, che mescola riferimenti all’infanzia («Subbuteo cloak») e una malinconica riflessione su quanto l’uomo può essere veramente soddisfatto della propria vita.
A chiudere il lato A di The Car, Body Paint, il secondo singolo dell’album. È una deliziosa ballata in stile grandi classici inglesi, che omaggia Paul McCartney e il personaggio di Ziggy Stardust creato da David Bowie. Una canzone interessantissima, strutturata in più parti: c’è il Moog in apertura, mentre il piano fa da base. Poi, nel bridge, si aggiungono le corde tesissime dei violini, nel momento esatto in cui il narratore realizza di essere stato tradito. Uno struggimento che ha il suo apice nel refrain, quando va in scena un intenso dialogo tra gli archi e la band al completo, fino allo sfogo dell’assolo di una chitarra piangente. Anche qui, come nel brano precedente e nella prima traccia di The Car, Turner scrive di dolci metà in lacrime: era da tempo che il leader degli Arctic Monkeys non ne cantava, prediligendo donne con personalità forti.
Il motivo di questo cambiamento è dato dal senso di quotidianità e di semplicità che traspare in ogni traccia dell’album. Lo troviamo anche in The Car, che apre il lato B, la canzone probabilmente più autobiografica dell’album. Si tratta di un’altra ballata, questa volta ispirata a Leonard Cohen, ma non solo: conferma l’apprezzamento della band alle colonne sonore di Ennio Morricone, che ritroviamo in quasi i tutti i pezzi di questo album. La macchina è spettatrice muta della vacanza del narratore, raccontata fino ai minimi dettagli con un misto di nostalgia e tristezza, accentuate dall’acustica e dalle spazzole per tamburi di Helders.
Il film di The Car si tramuta in musical con Big Ideas, commovente dedica di Turner alla sua band. Ha quella patina datata che la fa pensare come una canzone pop statunitense portata sui palcoscenici di Broadway, che contiene anche nuance italo-francesi. Quelle sedute di gruppo – oggi sempre più rare per il quartetto, diviso tra il Regno Unito e gli Stati Uniti – possiedono ancora quella magia di 20 anni fa, quando in un garage di Sheffield sono nati gli Arctic Monkeys? Risponde Turner, con “Sì” e “No”. Quanto è rimasto invece delle grandi idee da cui sono nati i vecchi successi planetari del gruppo, quanto ancora è possibile credere di riprovarci e farne altri e migliori? Anche se la band è entusiasta di compiere un nuovo passo, galvanizzata dal suono dell’orchestra, «I cannot for the life of me remember how they go»: è impossibile ripetere quello che è ormai diventato passato. Affiora l’insicurezza del compositore, in costante competizione con se stesso e l’immagine della rockstar che fan e stampa gli hanno cucito addosso, come un vestito scomodo da indossare.
La nostalgia torna come tema in Hello You, un dialogo intimo del cantautore con il proprio io, che continua a combattere con i suoi fantasmi. Qui però, a differenza del brano precedente, il passato viene salutato con ironia. I tenerissimi momenti trascorsi da ragazzo del narratore non possono essere replicati: è la natura. L’istinto, il veicolo principale dell’estro della band in The Car, porta il gruppo a dirigersi verso tonalità retrò, più definite rispetto ai lavori precedenti. Niente riff serpeggianti, niente Stratocaster graffianti: ora la band preferisce intraprendere una lotta serrata all’ultima nota contro l’orchestra. Altra nota relativa a questa canzone, la presenza dell’ermetismo tanto amato da Turner, uno stile poetico che scarseggia in The Car: quasi tutti i testi dell’album sono di facile lettura.
La traccia successiva, Mr Schwartz, entra leggera nell’album, introdotta da un morbido arpeggio suonato senza l’ausilio di un plettro, quasi volesse anticipare il tema agrodolce che andrà a unirsi all’effervescenza del ritmo latino prodotto dalle percussioni. È la storia, scritta da Turner e Rowley, di un personaggio famoso affascinante, ma al contempo spregiudicato come lo showbusiness. Sfugge al pubblico, incuriosito di sapere chi è l’uomo che si cela dietro alla maschera. Un po’ come gli Arctic Monkeys, che si divertono in ogni album a creare per i loro ascoltatori una versione inedita di sé.
È arrivato il momento di parcheggiare l’auto. Riaffiorano nuovi ricordi, si cerca di pescare un altro frammento rasserenante di vita. Qualcosa che possa avere un Perfect Sense, come il titolo dell’ultima traccia di The Car, dai toni baroque pop. Il gruppo accetta il percorso intrapreso, «If that's what it takes to say goodnight», scrive l’autore. Poi, tutto si ferma e cala il silenzio tra gli archi. Il motore della macchina si è spento, quasi all’improvviso. Questo viaggio intorno a sé è stato doloroso, ma doveroso. Un toccasana per la band, stelle dello spettacolo che non si ritengono più brillanti come nei bei vecchi tempi.
La sperimentazione sovrabbondante dell’album precedente, Tranquility Base Hotel & Casino (2018), ha dunque portato i suoi frutti. In The Car la musica scorre leggera come una boccata d’aria fresca, energica come una vitamina. Il piano, fondamentale per la realizzazione del disco precedente, si fa da parte in The Car, così come la critica alla società odierna viene scalzata dai sentimenti, che da sempre hanno arricchito il repertorio degli Arctic Monkeys. Qui, i dialoghi interiori si fanno sempre più intensi, grazie al rapporto costante con gli archi, mentre le chitarre si riprendono i loro spazi ed esplorano nuove tecniche. La voce di Turner appare più rilassata, è piena e le parole sono ben scandite, la tecnica del crooning è studiata. Le scimmie dell’Artico sono tornate dal loro viaggio spaziale: hanno rimesso piede sulla Terra.
Ma la figura di Mark, il receptionist dell’albergo lunare di Tranquility Base Hotel & Casino continua ad aleggiare, è un convitato di pietra che fa storcere il naso ad alcuni ascoltatori storici del gruppo, rimasti ancora una volta con l’amaro in bocca. Si critica maggiormente la mancanza di coraggio della band, che non ha voluto giocare troppo con il motore di The Car: i ritornelli tendono a sparire a causa dei troppi ragionamenti ansiogeni, le chitarre non sono più potenti come prima. La band è irremovibile, preferisce continuare ad assaporare il gusto dei suoni vintage dei loro strumenti. E così ne sono compiaciuti e si rilassano parcheggiati, come quel vecchio modello di Toyota Corolla fotografato da Helders sulla copertina del nuovo disco: non c’è nessun motivo per andare a tutto gas e fare un’inversione a U verso i ritmi di Whatever People Say I Am, That's What I'm Not e Favourite Worst Nightmare, gli album della band usciti nel 2006 e nel 2007.
Il sogno di un’eterna gioventù, il regalo più bello che gli Arctic Monkeys hanno fatto ai loro ascoltatori, è svanito, così come è scomparsa quell’immagine sbarazzina e spensierata del quartetto. Quei ragazzi dal viso rovinato dall’acne, dai capelli arruffati e con le tute da ginnastica non ci sono più. Ed è forse meglio così, perché sono stati gli unici a fermarsi quando hanno capito che del linguaggio musicale dell’indie non si poteva dire più niente. Era stato esaurito dalle loro stesse chitarre stridule e dai duri colpi assestati alla batteria. «The funk might fracture your nose», scriveva sulla grancassa Helders quando era ancora un ragazzino, quasi anticipando The Car. Restano quattro amici e una chitarra troppo emotiva, espressione che la crisi dei 30 anni colpisce anche gli uomini con un conto in banca a sei cifre. La mente umana è fragile anche in un albergo lussuoso di Parigi.
Bastava guardare per un attimo gli occhi di Turner, così luminosi e profondi, per capire che il viaggio degli Arctic Monkeys è un’avventura complicata.