Sembra esser passato pochissimo tempo da quando quattro ragazzi di Brighton lanciarono Naive all’interno del loro primo album "Inside in/Inside Out". In realtà di tempo ne è passato parecchio ma in questo caso probabilmente vale la regola del vino: più invecchia più è buono!
I Kooks ormai hanno ormai più di dieci anni di storia alle spalle, ma tutti noi possiamo confermare che se li portano benissimo e che soprattutto continuano a crescere. Al Fabrique l’hanno dimostrato in tutto e per tutto, proprio con quelle melodie che ti entrano in testa e difficilmente riescono ad uscirne.
Non è un caso che la band abbia scelto il nome da uno dei brani più particolari di David Bowie (dall’album del 1971 "Hunky Dory"), anche se il loro intento non è né di celebrare il Duca Bianco né di imitare il passato. E’ infatti con questa decisione che i Kooks sanciscono il loro futuro nel campo musicale, contaminando poi il loro sound tipicamente brit con influenze soul, gospel e hip hop e diventando ufficialmente una band completa al cento per cento. Il rock che propongono ha avuto numerosi stimoli, partendo da David Bowie fino ad arrivare ai Rolling Stones o ai Police.
Come ormai saprete dai miei precedenti articoli, amo studiare le diverse tipologie di fan che popolano i concerti e stranamente quelle presenti a quello della band di Brighton non mi hanno stupito. Delle circa duemila persone presenti quella sera facevano parte in particolare: sedicenni (ah, sembra che i Kooks siano molto apprezzati nelle aule della seconda liceo da molto tempo) che con le loro urla causate da ogni piccolo movimento delle chiappe di Luke mi hanno rotto il timpano destro; persone di un’età più avanzata che probabilmente erano lì solo per il semplice gusto di godersi un buon concerto e della buona musica e infine gli immancabili fan storici, in coda dalle 10 del mattino e sfidare il gelo di una giornata fredda di novembre per vedersi i loro amati beniamini in prima fila. A differenza di quanto ci si possa aspettare dagli stereotipi, non erano presenti solo hipster e ragazzine che urlano a prescindere, ma per fortuna la band è riuscita a crearsi nel tempo un seguito in diversi contesti, sia musicali che sociali.
Ad aprire il fatidico concerto del 13 novembre è stata una band irlandese chiamata The Academic, che senza giri di parole è riuscita a spaccare davvero tanto! Il quintetto è composto da Craig Fitzgerald alla voce principale e chitarra al fianco di Stephen Murtagh al basso, Matt Murtagh alla chitarra solista e Dean Gavin alla batteria. Il loro sound è molto simile a quello dei Kooks, e infatti ho scoperto successivamente a delle ricerche che sono stati proprio una delle loro fonti di ispirazione, assieme agli Strokes, Killers e Kings of Leon.
L’intervento dei The Academic è riuscito a scaldare il pubblico e a prepararlo al vero fulcro della serata: il concerto dei Kooks. La band è stata accolta da numerose urla e applausi e si approccia al proprio pubblico con il primo brano: Eddie’s Gun.
I nostri occhi erano tutti concentrati su di lui, il frontman: Luke Pritchard. I suoi movimenti risultavano quasi ipnotici, perché se non aveva “l’impedimento” della chitarra saltava da una parte all’altra del palco come una ranocchia mostrando tutto il suo lato atletico e ruffiano, come chi giustamente dovrebbe fare se ha venduto milioni di dischi. Inoltre Luciano (così è chiamato dai fan accaniti durante il concerto) si prende tutto il palco per sé durante Seaside, il primo brano contenuto nell’album "Inside In/ Inside Out", in compagnia solo della sua chitarra e della sua voce, dopo la breve pausa dell’encore.
Numerose sono state le hit cantate e ballate da tutto il pubblico, prima tra tutte probabilmente è stata Be Who You Are, seguita anche da Junk Of The Heart e Down.
I quattro ragazzi inglesi sono riusciti a creare uno show in generale semplice, con una scenografia scarna (c’era solo un piccolo Buddha accanto alla gran cassa) in cui sono gli effetti di luce a dominare il palco. La presenza scenica di Luke faceva da padrone assieme alle luci verdi e blu, ma bisogna ammettere che anche gli altri componenti hanno dato il loro contributo: Hugh Harris, Peter Denton e Alexis Nunez. Tutti assieme hanno provato a farci sorridere tentando di comunicare col pubblico in un italiano pessimo: “bellissima”, “grazie milla”.
La band britannica si inserisce in un contesto musicale attuale molto particolare in cui in generale i gruppi sono trascinati verso il successo da un’unica hit per album pubblicato. I Kooks, appunto, dimostrano di avere più di quattro canzoni, tanti quanto sono i loro album pubblicati dal 2006, anno dell’esordio nella loro immensa discografia.
Commentando lo show con alcuni fan a fine concerto molti mi avevano confessato che con le loro note erano riusciti a fare un salto nel passato, spolverando loro la memoria e facendo riaffiorare vecchi ricordi dell’adolescenza ormai lontana. Riflettendoci poi ho scoperto che è davvero così, la band britannica ha un suono molto particolare tipico sia del gruppo, sia di alcuni precisi momenti dei primi anni del 2000. Scorrendo nella home di Instagram e controllando sull’hashtag relativo al concerto di lunedì, erano numerosi i post in cui venivano citate le adolescenze passate e i ricordi, soprattutto relativamente al brano Naive.
Inoltre il concerto dei Kooks ha confermato il fatto che al mondo per fortuna esistono ancora gruppi che fanno della buona musica così come loro e che soprattutto dal vivo spaccano, offrendoci un sound ottimo e melodie giuste e che ci facciano venire voglia di ballare e saltare assieme al frontman e a tutta la band.
Setlist
Eddie’s Gun
Always Where I Need To Be
Sofa Song
Ooh La
Bad Habit
Down
She Moves In Her Own Way
Westside
Sweet Emotion
Sway
Matchbox
You Don’t Love Me
Is It Me
Be Who You Are
Shine On
Forgive & Forget
Junk Of The Heart
Sea Side
Around Town
Naïve