Il mio breve e sintetico diario della settimana più attesa dell'anno
Mi sono voluta prendere qualche giorno per riprendermi sia psicologicamente che fisicamente da una delle esperienze più belle, forti ed emozionanti che mi sia mai capitata. Partire completamente da sola, in compagnia solo della mia grande forza di volontà è stata un’immensa sfida, ma per vostra fortuna, non sono qui per raccontarvi della mia avventura con me stessa, ma desidero scrivere di come quei giorni passati sull’isola della libertà si siano volatilizzati grazie al centinaio di concerti che Obuda ci ha regalato allo Sziget Festival. Allacciate le cinture, mettetevi la crema solare, montate la tenda: bene, ora siete pronti a rivivere questo viaggio con me.
Riassumere in solo un articolo la mia esperienza alla ventiseiesima edizione dello Sziget è letteralmente impossibile. Credo, però, che la maniera migliore di raccontarvi quella tanto attesa settimana ungherese sia tramite gli artisti che più mi hanno colpito, per fortuna più in positivo che in negativo. Per quanto mi riguarda, questa edizione dello Sziget è stata anche quella delle rivelazioni, due nello specifico: Parov Stellar e Who made Who.
Che vi piaccia o no l’electroswing, Parov Stellar allo Sziget è riuscito a mettere d’accordo tutti. Era il dieci agosto, il sole stava cominciando a tramontare dietro all’immenso Main Stage e tutti noi sorseggiavamo una birra fresca seduti sotto gli alberi, cercando di evitare la calca di gente che popolava il parterre prossimo al palco, ma è stato tutto inutile. Sono bastate pochissime note a risvegliare i nostri riflessi involontari e in pochi minuti eravamo già tutti in piedi a ballare quello swing che tanto caratterizza il genere musicale del Dj austriaco. Una delle esibizioni migliori a parer mio: coinvolgente nonostante pochi nella folla conoscessero bene l’artista, unico perché il suo genere è inconfondibile, geniale perché riuscire a presentare in chiave così moderna uno stile musicale così antiquato non è affatto semplice. Numerosi gli accompagnatori del Dj sul palco, tra cui un in formissima Max The Sax, il suo fedele sassofonista. Ballare e cantare tutte le canzoni della setilist (e non solo All night, che ci crediate o no!) è stato veramente soddisfacente, i miei più grandi complimenti a Parov Stellar.
La mia più grande rivelazione, nonostante tutto, sono stati gli Who Made Who, un trio danese attivo dal 2003 che si è esibito il secondo giorno di festival su uno dei palchi principali: l’A38, probabilmente l’unico stage tra i tanti al coperto, sotto un tendone, che ha permesso alla band di giocare con effetti di luce e scenografie semplici ma efficaci. Sono convinta che solo una piccola percentuale dei presenti conoscesse la band prima di quel concerto, ma sono ancora più convinta che la maggior parte del pubblico li abbia approfonditi successivamente al loro live. Sono stati una bomba, una bomba lanciata a inizio concerto che ad ogni canzone continuava a ticchettare fino a poi esplodere negli ultimi pezzi. Tutti saltavano, tutti ballavano e tutti si scatenavano: una vera e propria rivelazione. É difficile categorizzarli, perché in cuffia non rendono così bene come live e quindi è molto difficili ricondurli a uno specifico genere. Ricordano un po’ i Radiohead, un po’ gli Alt-j e gli MGMT, ma nulla a che vedere con tutto ciò, perché sono stati unici, originali e fortissimi.
Immensi e indescrivibili sono stati i Mumford and Sons, che si sono esibiti il giorno 11 agosto come headliner nella loro unica data europea. A completare una setlist già perfetta si sono aggiunti anche tre dei nuovi brani contenuti nel loro prossimo album in uscita: Guiding light, See A Sign e Woman. Con questi tre singoli i Mumford ci hanno dimostrato che non hanno intenzione di prendere strade traverse, ma di seguire sempre quello stile che tanto li fa riconoscere: il folk rock.
Il gruppo londinese è partito a bomba con una delle tre delle nuove canzoni, per poi mandare in visibilio il pubblico con Little Lion Man, proseguire con brani tratti dai loro tre album rilasciati dal 2007 ad oggi e concludere con due pezzi carichi di energia, che live rendono il duecento per cento in più rispetto al disco: Ditmas e I Will Wait. Con quest’ultimo brano appena citato il frontman Marcus è riuscito a dare il meglio di sé, facendo scatenare il pubblico con la sua calda voce, mentre con Ditmas ha saltato ed è corso avanti e indietro sul palco come il grillo parlante, armato solo del suo microfono e durante la parte finale del brano di una torcia. Il loro genere sembra davvero appartenere ad un’altra epoca, ma con questo loro concerto ci hanno dimostrato, ancora una volta, che l’indie folk rock country (così si potrebbe definire il loro genere per nome completo) è capace di coinvolgere, far cantare, far ballare, far divertire. Immensi Mumford and Sons!
Una menzione d’onore la ricevono anche i Siberia, la band dark pop livornese che si è esibita durante l’ultima giornata del festival sul palco del Lightstage, nell’Alternativa Camping, chiudendo in bellezza la sezione di artisti italiani allo Sziget. Sono giovani, belli, simpatici, originali e freschi: originali perché la voce profonda del loro frontman Eugenio Sournia è inconfondibile e unica nel panorama musicale italiano attuale, freschi perché il loro ultimo album “Si vuole scappare” è uscito per Maciste dischi da pochi mesi, e durante la loro esibizione sul Lightstage sono riusciti ad allietarci con numerosi brani provenienti dal nuovo disco.
Il mio momento patriottico continua citando altri due artisti italiani che si sono esibiti sull’Europe stage durante la settimana di festival: Willie Peyote e Motta. Con la loro musica sono riusciti a rendermi fiera di essere italiana, perché hanno fatto ballare e scatenare non solo noi con la bandiera tricolore, ma anche numerosi stranieri di passaggio, che si sono uniti al pogo o che semplicemente si sono soffermati ad ascoltare quelle note. Willie Peyote è riuscito nel suo intento di dominare l’Europe Stage durante la prima sera, mercoledì 8 agosto, davanti ad una folla che lo acclamava. Un bellissimo concerto, concluso con C’era una Vodka, contenuta nell’album "Educazione Sabauda", che è riuscita a mettere d’accordo tutti, anche i non amanti del genere. Anche Motta, neo vincitore del premio Tenco come miglior album dell’anno ("Vivere o morire") con la sua calda e coinvolgente voce è riuscito a creare uno show unico, forte e carico di energia.
I Milky Chance hanno dominato il palco pomeridiano del Main Stage il giorno 13 agosto, deliziandoci con brani tratti dai loro due album: "Sadnecessary" e "Blossom". Un po’ sfortunati con i tempi del loro soundcheck (si sono ritrovati a svolgerlo pochi minuti prima dell’inizio del loro show), si sono immediatamente ripresi, presentandosi al pubblico con Ego e con una potentissima Flashed Junk Mind, per poi terminare il loro live con una versione un po’ diversa di Stolen Dance, ma comunque molto apprezzata dal pubblico che l’ha cantata dalla prima strofa all’ultima. I Milky sono stati una delle esibizioni che più ho apprezzato nella loro semplicità e nel loro tentativo di coinvolgere anche chi di loro non conosceva altri brani oltre Stolen Dance. Giovani, bravi e originali: da loro ci possiamo aspettare ancora tanto.
I Kooks hanno spianato la strada a Parov Stellar e a Lana del Rey e ci sono riusciti alla grande! E’ risaputo che con loro si va sul sicuro e ascoltandoli non si può fare a meno di ritornare al 2006 con la splendida Naive (qua il live report di Milano dello scorso novembre), che ovviamente tutto il pubblico ha cantato a squarciagola, probabilmente ricordando vecchi amori adolescenziali passati. Il forte carisma ed il fascino del frontman Luke Pritchard è stato il protagonista per tutta la durata dello show, facendo deliziare gli occhi a tutte le ragazze presenti. La band britannica ha suonato diciassette brani provenienti da tutti i loro dischi precedenti ed inoltre hanno deciso di farci ascoltare live anche due dei singoli rilasciati pochi mesi fa (No pressure e All The Time) provenienti dal prossimo album in uscita proprio questo mese ("Let’s go Sunshine").
Che piaccia o meno il genere, i Kooks ti danno una carica di energia fortissima ma, soprattutto, sono stati in grado di riportarti indietro nel tempo in solo un’ora e mezzo di concerto.
I miei ultimi grandi apprezzamenti li lascio agli altri fantastici headliner che non ho citato e che hanno reso ancora più vivo un festival già immenso: Gorillaz, Kendrick Lamar, Kygo e Dua Lipa. Sono tutti artisti che provengono da mondi musicali diversi, oserei dire opposti, ma che grazie al loro fascino e alla loro bravura di saper coinvolgere sono riusciti comunque a dominare un palco enorme, difficile e tosto. Ma sbaglio o manca qualcuno all’appello?
Ahimè, ora è giunto il momento di passare alle mie stroncature e per quanto mi riguarda, il premio per le peggiori esibizioni lo ricevono solamente due artisti: Lana del Rey e gli Arctic Monkeys.
Credo che inserire la band capitanata da Alex Turner come chiusura della line up del festival sia stata una scelta non molto azzeccata e soprattutto molto criticata. Ho trovato il loro show piatto e per alcuni versi noioso. Sicuramente il mood del loro ultimo album ("Tranquillity Base Hotel + Casinò", che Noisyroad ha recensito qui) non li ha aiutati, anzi, purtroppo ha solo permesso ad una buona percentuale della folla di dileguarsi e cercare altri concerti in contemporanea sparsi per l’isola. Ad un certo punto del loro live, molti locali posizionati accanto al Main Stage pensavano che lo show fosse finito e hanno cominciato ad alzare il volume della loro musica, peccato che agli Arctic Monkeys mancassero ancora quattro canzoni per completare la loro setlist. Il risultato finale è stato quello di ascoltare con l’orecchio destro Somebody Told Me, mentre con quello sinistro la voce di Alex Turner che cantava Arabella. Sono del parere che l’ambiente di un festival non sia lo stesso di un concerto dedicato solo a uno specifico artista, ma credo però che una buona band debba essere in grado di coinvolgere la folla, consapevole del fatto che non possa piacere a tutti. Questo fattore importante l’ho ritrovato in numerosi artisti che si sono esibiti allo Sziget, ma purtroppo non negli Arctic Monkeys.
Ho trovato Lana del Rey, invece, sublime ed elegante. L’unico fattore negativo è proprio il genere di musica che produce, che non le permette di esibirsi sul palco in show spettacolari che ti lasciano senza fiato. Per colpirci ha cercato di puntare su alcune scenografie accattivanti molto “jungle”, risultando però così finta da sembrare parte di un video musicale registrato e facendoci pure ipotizzare un possibile playback. Le scenografie non hanno aiutato la dolcissima Lana nel coinvolgimento del pubblico, dove la maggior parte della folla non la ascoltava (se non durante Summertime Sadness) e si perdeva in chiacchiere con gli amici vicini piuttosto di godersi il suo spettacolo. Un vero peccato!
Nonostante tutto questo, credo che la medaglia d’oro non debba riceverla nessun artista in particolare, ma che sia destinata proprio allo Sziget Festival, che ogni anno riesce sempre più a stupirci, a farci innamorare, a farci divertire e farci tornare a casa con quell’amaro in bocca un po’ nostalgico. E la cosa che più apprezzo di questo tanto atteso evento europeo, è il melting pot di culture e usi che si formano all’interno. Non c’è un modo giusto e un modo sbagliato di vivere l’isola, la maggior parte delle persone scelgono di rimanere con la tenda all’interno del festival in modo da non perdersi neanche un secondo di questa magica settimana, combattendo con mal di schiena, code chilometriche per la doccia e decine di paia di tappi per le orecchie per riuscire a dormire almeno quattro ore a notte. C’è chi invece, tentato dalla comodità di ostelli e appartamenti sceglie di viziarsi un po’, consapevole del fatto di rischiare di perdersi una buona percentuale del festival. C’è chi si vizia all’interno dell’isola, noleggiando casette di legno attrezzate o prenotando il Vip camping.
Lo Sziget è davvero fatto per tutti: per chi ama solo la musica e che quindi si presenta al Main Stage alle 16 e torna in ostello a mezzanotte appena finiti i concerti; per chi sceglie di vedere solo una band e quindi soggiornare a Budapest per massimo due giorni; per chi vuole divertirsi e che quindi si sveglia alle 17 del pomeriggio e torna nella propria tenda alle 7 del mattino dopo una nottata brava; per chi si vuole fare una vacanza con gli amici diversa dal solito e vuole conciliare la sete di buona musica con il desiderio di visitare una città europea nuova; per le famiglie, perché si, lo Sziget pullola di famiglie con bambini, anche molto piccoli; per i curiosi, che bombardati dai social e da amici che ci sono già stati non vedono l’ora di scoprire la magica isola della libertà; infine c’è chi, come me, armato di tenda e sacco pelo parte da solo, con l’intento di vivere questo paese dei balocchi ventiquattro ore su ventiquattro e di ritrovare sé stessi su un’isola che a parole è davvero impossibile da descrivere.
E voi? Da che parte state?