02 novembre 2021

Qualche scatto dei Kings of Convenience al Teatro Manzoni di Bologna

Per trent’anni Joseph Mitchell fece la stessa cosa, ogni giorno. Andava nella redazione del giornale dove lavorava, il New Yorker, si sedeva nel suo ufficio, prendeva la macchina da scrivere e provava a buttare giù un articolo. Era al New Yorker dal 1938 ed era considerato uno dei più bravi giornalisti degli Stati Uniti, in grado di raccontare la città come nessun altro, eppure non riusciva a finire un articolo dal 1964. Aveva il blocco dello scrittore e la sola idea di scrivere qualcosa di nuovo gli pesava, schiacciato da quello che definiva un “oscuro e vacuo isolamento”.  Morì nel 1996 senza aver finito nessuno degli articoli e dei libri ai quali stava lavorando e ancora oggi è il perfetto esempio della paura di fronte ad un foglio bianco.

Ogni volta che mi approccio ad alcuni dei miei gruppi o artisti preferiti che si sono presi delle lunghe pause mi torna sempre alla mente questa storia, a sottolineare come talvolta i meccanismi della nostra testa possano farci attendere anni prima di regalarci qualcosa che di nuovo ci soddisfi veramente. E nonostante ci sia ancora chi fa navigare i propri ascoltatori nell’incertezza di quando potrà uscire del nuovo materiale inedito (coff... coff... qualcuno ha detto Paolo Nutini?) per l'atteso ritorno dei Kings of Convenience, duo indie-folk norvegese composto da Erlend Øye e Eirik Glambek Bøe, le lancette dell’orologio sembrano davvero essersi fermate a più di 12 anni fa.

Se con il nuovo album Peace or Love, quarto capitolo della loro carriera di vent’anni di attività, avevamo già avuto un assaggio, è con la data del tour al Teatro Manzoni di Bologna che abbiamo la prova di come tutto il mondo sonoro che li ha sempre contraddistinti sia rimasto assolutamente intatto in questi anni: la purezza e l’innocenza delle melodie, l’eterea chimica di chitarre, suoni e armonie, da salvaguardare come qualcosa di prezioso e da preservare nel corso degli anni. Le canzoni dell’ultimo album (su tutte Rocky Trail, Catholic Country, Fever) trovano infatti perfetta collocazione nella scaletta di venerdì sera, riuscendo a creare una coerenza e una perfetta amalgama con i brani più datati (Misread, Cayman Islands, Mrs. Cold, Stay out of Trouble, 24-25, per citarne solo alcuni), che non lascia minimamente trasparire più di 12 anni appena trascorsi. Le melodie acustiche, talvolta accompagnate dal violino e dal contrabbasso, ma più delle volte dal solo e semplice approccio a due voci della coppia, crea un suono sottile, raffinato ed evocativo, che riesce a creare una piccola isola felice dove poter fare scalo in santa pace e dove si percepisce una magia che non ha saputo piegarsi al tempo.

Poca musica leggera dà un senso di armonia come quella del duo norvegese, regalando per tutta la serata al Teatro Manzoni incastri vocali e chitarristici amalgamati nella naturalezza di un abbraccio. E quando ci si perde nell’abbraccio giusto, spesso non si ha più voglia di ritrovarsi.