Non so quanti artisti e artiste abbiano la capacità di sentirsi a proprio agio su un palco fin dalla prima nota che suonano quando iniziano un concerto. Marta Del Grandi ce l'ha. Una fondamentale e rara caratteristica che si svela mostrando grande consapevolezza e una maturità semplice ma determinante.
In un Monk semi-pieno durante un sabato di inizio febbraio orario aperitivo (il concerto, che fa parte di una rassegna (splendida) più ampia denominata Concerti Presto, è iniziato alle 19:30), Marta sale sul palco con Alessandro Cau alla batteria e Vito Gatto alle tastiere iniziando il suo viaggio nella Selva.
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Il disco è praticamente suonato nella sua interezza, alcuni brani prendono aria e hanno ancora più sostanza di quanta non ne abbiano mostrata già in studio. Mata Hari in particolare è una hit che incontra la dolcezza di Marika Hackman e i suoni dritti à la Daniela Pes, creando un miscuglio eterogeneo ma ben distinguibile. Selva è un disco che ha già due anni d'età e Marta tiene a ribadirlo anche al pubblico: alcuni pezzi fanno parte di un passato che sembra lontanissimo ma che si stagliano come eternamente presenti per via di suoni a volte minimali ma ben cadenzati.
Marta Del Grandi prende a piene mani dal rumorismo in salsa jazzistica e lo destruttura, riuscendo nell'impresa di portare sul palco romano persone di ogni ordine e grado: da una bambina in prima fila che in un inglese perfetto canta il ritornello di Chameleon Eyes a ex-giovani che si muovono sulle note tribali di Snapdragon. La cantautrice italiana si svela pian piano e, come durante una chiacchierata con tanti amici, aggiorna sulla sua vita mediante le canzoni. A tre quarti del live, offre il palcoscenico a Valentina Polinori e Vera Di Lecce, componendo per un paio di brani un trio che, nonostante l'amicizia al di fuori del mondo musicale, si rivela con poco carattere. Stay, la più "rockettara" dell'intero set è uno stacco interessante, che aumenta il coinvolgimento e permette di esprimere al massimo le capacità tecniche di Cau e Gatto.
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L'ultimo brano, Lullaby Firefly, una chicca tratta dal suo primo album Until We Fossilize (che ci tiene a dire non suona spesso, anzi) è un inno alla ricerca dell'identità: "in un momento storico in cui pare che invece l'individualità di un singolo sia di secondaria importanza". Un messaggio senza troppi giri di parole, contorsionismi inutili, che arriva dritto al punto, come la cover (emozionante) di Hotel Supramonte o lo snippet che svela anche il suo esordio in lingua italiana e che è anche una chiusura perfetta per questo report:
"Sentieri tortuosi / si intrecciano stretti / in forme mai viste / il cuore si perde"
Fotogallery a cura di Liliana Ricci: