Giovedì 22 novembre il circolo Magnolia di Segrate ha ospitato gli IDLES, i capitani di quella giovane generazione inglese geniale impegnata nella riproposizione stilistica del punk, un genere incagliato da vent’anni nelle stesse acque acquitrinose di accordi esasperanti, di costanti colpi sul crash per fingere una consapevolezza dello strumento, di voci perforanti ma poco profonde che cercano di rappresentare con frasi aride il proprio dissenso. Attivi dal 2011, il gruppo di Bristol si è aggiudicato il primo posto dei migliori album del 2018 con Joy as an Act of Resistance (Partisan Records), un secondo lavoro più solido e liricamente raffinato del ringhioso Brutalism (Balley Records), uscito l’anno scorso dopo una lunga gavetta. Il successo di questo straordinario quintetto irriverente e giocherellone è dovuto al loro solerte sostegno di tematiche ed attività sociali importantissime quali l’immigrazione, la crisi interiore dei giovani disoccupati, l’istruzione come tattica vincente contro il progressivo arretramento culturale, la lotta al machismo e all’omofobia, il richiamo all’attenzione alle malattie psichiatriche, il dolore immenso dei genitori che sopravvivono ai figli, la delusione della politica e della spazzatura televisiva, un interesse svolto con una sensibilità molto umana e alquanto lontana dall’astrattismo tipico delle frasi del punk rock (per citarne una, fuck the system). Il loro tenero altruismo si mostra sul palco nella totale umiltà e nel desiderio di vedere il proprio pubblico soddisfatto e con qualche livido in più, auspicandosi un divertimento attivista, come appunto recita il titolo del secondo album.
Non potevano non farsi accompagnare dai JOHN, tipi tosti come loro. Sono John Newton e Johnny Healey, batteria e chitarra come ogni classico duo che si rispetti ma a differenza della maggior parte di essi, la batteria di Newton prevale senza sottomettere il suo strumento da accompagnamento. Hanno chiacchierato e riso con il pubblico, hanno detto di essere in Italia da un giorno e mezzo, hanno apprezzato tantissimo la cucina locale. C’è chi ha comprato il loro LP God Speed In The National Limit (Pets Care Records, 2018) con la speranza di rivederli presto in un localino spazioso per pogare.
Gli IDLES sono entrati in scena in punta di piedi, sereni e con un atteggiamento dimesso, quasi fossero delle bombe ad orologeria, il cui ticchettio è stato ripreso dai colpi di bacchetta di Jon Beavis, introducendo il primo brano, perfetto nel suo climax, grande apertura di Joy as an Act of Resistance: Colossus. Prevedibile? Forse non lo è stata la carica del pubblico durante la reprise, un caloroso saluto agli ospiti. Personalmente devo ringraziare la poca fama del gruppo: gli astanti, prevalentemente omoni sulla quarantina, non avevano alcun ritegno per nessuno, nemmeno per le donne mingherline che non erano intenzionate a spaccarsi le ossa nella bolgia di carni che venivano librate e poi strappate subitamente dal mosh-pit dalla sicurezza; sono rimasta attaccata alla transenna con i gomiti sul petto sperando che qualcuno non mi prendesse per i capelli. Sono momenti rari che, ricordati ora nella quiete della mia stanza, mi segnano positivamente, come guardare dal proprio divano Apocalypse Now. A proposito del film, l’aspetto di Chef è molto simile a quello del chitarrista Mark Bowen, indomito sulla folla durante Danny Nedelko.
La loro semplicità nell’essere parchi di strumenti e la loro estetica eclettica (ogni membro rappresenta uno stile di moda “underground” definitosi negli ultimi anni) sono dei “surplus” che determinano il loro posto tra le migliori live band del momento. Nonostante creino un gradevole caos, la loro performance è molto simile alle registrazioni in studio, sul palco sanno essere contemporaneamente pazzoidi e concentratissimi: può sembrare scontato, ma nel mondo del punk è difficile trovare band del genere così equilibrate e coscienziose. Il loro punk non è basato sulla predominanza della chitarra solista, è molto ritmico, segue la cerchia del garage, resta fedele a quella musica di periferia che nel Regno Unito si mescola con i principi della working class, tema pregnante dei loro album, i quali rispettano un coerente filo logico e compositivo, di conseguenza sono molto vicini all’idea di concept album. Questi sono i motivi che li rendono originali ed attraenti anche a chi non è cresciuto a pane e Sex Pistols o a chi si definisce indie, perché “l’indipendenza” degli IDLES è la loro libertà di espressione, la loro effrazione a quegli schemi freddi del punk rock degli anni Ottanta e Novanta, una moda effimera che rischiava di far naufragare il genere in acque difficili da ripercorrere, situazione già esposta nel primo paragrafo di questo reportage.
Non sappiamo se le loro parole erano delle frasi di circostanza o provenienti dal profondo del loro cuore, ma i ringraziamenti al popolo italiano del cantante Joe Talbot, pronunciati con un’inimmaginabile voce flebile (quando canta quasi in growl), ci ha ammorbiditi: ha detto che abbiamo la peculiarità di essere molto cortesi con il prossimo ma dei pessimi guidatori, personalmente questa battuta mi ha fatto sorridere. Abbiamo fatto tanto buon chiasso quando ha affermato di far parte di una band di antifascisti. I suoi compagni non sono stati da meno, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan hanno preso a caso dal pubblico due ragazze per farle suonare la parte di accompagnamento della cover di Solomon Burke Cry To Me: sotto lo sguardo vigile del bassista Adam Devonshire, le due ragazze hanno seguito egregiamente le indicazioni dei due chitarristi, che nel frattempo erano riscesi tra la folla per trovare qualcuno abbastanza sobrio e capace di intonare il ritornello. Da questo momento, il concerto è degenerato nel meglio. Una delle due ragazze ha chiesto cortesemente di eseguire Queens, una loro vecchia gloria: «è da tanto che non la suoniamo, ma la faremo lo stesso», ha commentato serenamente Talbot. A fine esibizione, lo stesso ha chiesto se volevamo fare un’altra richiesta. Un ragazzo abbastanza ubriaco ha urlato «SCUM!», la quinta canzone della serata. La band si è messa a ridere, Talbot ha detto: «l’abbiamo già suonata…ti voglio bene» ed è sceso dal palco per abbracciarlo. Insomma, è stato veramente piacevole vedere tutta quella gente stralunata con il sangue carico di birra tedesca e danese di scarsa qualità, alcuni di loro hanno perso le scarpe, i maglioni e altri effetti personali, mentre le scalette sono state richieste da uomini di mezza età abbastanza ansiosi di ottenere quell’ambito trofeo. Sono andata via con lo sguardo stupito di un ragazzo inglese che mi ha detto: «ma come, mi hai trovato solo una scarpa?» e con una fotografia in compagnia di Jon Beavis, stranamente più entusiasta di me.
Questa è la scaletta della serata:
- Colossus;
- Never Fight a Man With a Perm;
- Mother;
- Faith in the City;
- I'm Scum;
- Danny Nedelko;
- Divide & Conquer;
- 1049 Gotho;
- Samaritans;
- Television;
- Great;
- Love Song;
- White Privilege;
- Gram Rock;
- Benzocaine;
- Exeter;
- Cry To Me (cover di Solomon Burke);
- Queens;
- Well Done;
- Rottweiler.
Si ringraziano Stefania D'Egidio e Fabio-Marco Ferragatta (Dunkelheit PH) per le fotografie.