La grandezza una band di solito non si misura dal suo pubblico, ma dalle canzoni, dagli album e dalla capacità di traferire dal vivo tutto quanto registrato in studio. Finora, quando si è parlato degli IDLES dal vivo, il più delle volte, lo si è fatto facendo riferimento agli spettatori. Il pogo, il canto che diventa preghiera e quella rassicurante sensazione di sentirsi parte di una comunità. Che poi, su questo aspetto, si potrebbe scrivere a oltranza: muoversi, spingersi e “collidere” a un concerto della band di Bristol è come se assumesse un significato ulteriore, più profondo. Uno scambio di empatia fisico, un amore violento che fa TANGK, come direbbe Joe Talbot.
Dopo le due ore piene e prive di pause di ieri sera all’Alcatraz di Milano è arrivato il momento di parlare d’altro. Gli IDLES sono energia, esorcismo del dolore e divertimento, ma non solo. Ormai sono anche cura del suono, improvvisazione e tecnica. Tre aspetti di cui non si è mai tenuto troppo conto. Il nuovo corso della band, iniziato con CRAWLER, è proseguito in una direzione meno immediata e più complessa con l’ultimo album prodotto dal chitarrista Mark Bowen (qui la nostra intervista) in collaborazione con Nigel Godrich.
E tutto questo ormai si riflette nelle esibizioni dal vivo e non solo perché la setlist inizia con IDEA 01 anziché con Colossum (che comunque, anche come seconda, resta l’inizio del concerto ideale). Lo si nota da come alcuni vecchi brani, per esempio Mr Motivator o l’immancabile Never Fight a Man With a Perm, proposta con una lunga coda strumentale, vengono influenzati nel suono dall’elettronica ancora più noisy dei nuovi brani.
Le nuove canzoni, su tutte POP POP POP, Roy e Grace, rappresentavano il grande dubbio prima del concerto: riusciranno a rendere dal vivo tutti quei dettagli sonori? Riuscirà la voce di Talbot a reggere il passo anche sul palco, quando non le sarà permesso di spezzarsi, ma dovrà solamente cantare? La risposta a tutte queste domande è sì. Gli IDLES sono cresciuti e sono diventati ancora più grandi, anche dal punto di vista della qualità del suono. Questo non vuol dire che si sia persa la carica, non si stanno “radioheadizzando”. L’attitudine rimane quella di sempre e brani come Danny Nedelko, War, Television, Mother e via dicendo, sono delle dolci violenze sonore. Nella scaletta, ad eccezione delle uniche due assenti illustri, Grounds e The Beachland Ballroom (che sono state suonate solo in Spagna), c’è tutto quello di cui un fan degli IDLES ha bisogno.
E per spiegare di cosa abbia bisogno un seguace della band bisogna tornare al punto di partenza. Perché poi, il succo è sempre quello. La condivisione del dolore, della rabbia e dell’amore, in un unico luogo. Insieme. Senza necessità di immortalare l’esperienza, senza alcuna FOMO, perché lì in mezzo alla bolgia, come ai lati del parterre, nessuno è solo. E non è un discorso retorico, fidatevi.
A tal proposito, c’è stato un momento rivelatorio ieri, alla fine di The Wheel, subito dopo che Joe Talbot ha sostituito il verso «Can I get a hallelujah?» con «Viva Palestina!». Davanti a me il movimento ondulatorio del pogo si è appena fermato, per tutta la durata della canzone l’avevo osservato a distanza, prendendomi una pausa. Saranno stati il mio sguardo un po’ stralunato, o la mia aria stanca, fatto sta che uno dei ragazzi rientrando dalla bolgia, riconoscendomi tra quelli che fino a qualche brano prima era là in mezzo a muoversi, mi guarda e, stupito di vedermi lì fermo, mi chiede se va tutto bene. Non sapevo il suo nome e non lo so tuttora, ma durante le due ore di concerto è stato come se ci conoscessimo da una vita.