Il cantautorato milanese non è solo Dente (e di rimando anche Le Luci Della Centrale Elettrica e tutti gli altri…), non più almeno. Ora che i localini da aperitivo si riempiono all’inverosimile per i musicisti più che per l’alcol poco economico, ora che andare all’Ohibò è diventato figo e i jazzisti non fanno poi così schifo, Milano s’è riempita di una nuova scuola di cantautori, alcuni un po' folli, altri sentimentali e altri di ancora d'indole un po' rock and roll. Abbiamo raccolto dieci nuovi nomi del cantautorato milanese, più o meno famosi, appartenenti a una scena viva e brulicante di ispirazioni di cui non potrete più fare a meno.
Sylvia
Racconti di solitudine, e paure. Cantautrice silenziosa dal fascino retrò e una voce bassa che si insinua tra i suoni di archi e pianoforte (ne “Lo Spettacolo”), senza risultar datata. In Sylvia c’è tutto il grigiume di Milano, l’eleganza gracchiante e triste e neutra della metropoli che nasconde tante storie che, come tutte le storie milanesi che si rispettano, non sempre son da raccontare in italiano. Sentimenti severi, austerità in primis, echi sotterranei, estraneità di confusioni cervellotiche e paranoiche, con un’innegabile sacralità di fondo. É una delle voci più particolari e nascoste della nostra Milano, particolare e unica, riconoscibile al primo ascolto che consiglio che sia concentrato e notturno, non adatta ai deboli di cuore né ai romantici più ottimisti, che ascoltandola potrebbero cambiare idea.
Elton Novara
Personaggio della fervida scena milanese. Fuori da Milano e lontano dai frequentatori abituali dell’Ohibò, quello di Elton sarà infatti un nome che dice infatti abbastanza poco, ma qui dove viviamo davvero (si fa per dire) Elton è ben conosciuto grazie a set di deliranza musicale prima dei più conosciuti Dente e Nicolò Carnesi. Si distingue per un umorismo pensato, quasi retrò, cervellotico, e allo stesso tempo incomprensibile, lontano da tutta quella demenzialità che sfocia nel nonsense di Pop X, fino al dadaismo di Young Signorino. Fuori dal tempo, con tendenze psichedeliche, sconnesso dalla scena, eppure così infiltrato. Il classico amico di tutti, e dovrebbe essere anche amico vostro se volete essere abbastanza fighi per sopravvivere a questa scena indie meneghina. É anche chitarrista degli audaci The Van Houtens, con i quali firma l’ultimo singolo “Papango” (titolo che deriva dal meno celebre frutto nato dall’unione di papaya e mango).
Kaufman
Portavoce estremi di questa nuove tendenza di far pop leggermente tunz tunz, senza comunque mai esagerare (che poi domani si va a lavorare), nei piccoli club e nei centri sociali. Sentimenti spiccioli, senza la pretesa di raccontare qualcosa di nuovo, solo tanta voglia di snocciolare e descrivere situazioni banali in cui chiunque (sì anche quel jazzista che frequentava le prime jam session del Lume a Milano) può ritrovarsi. Formula à la Calcutta, insomma. Sono i Kaufman, che raccontano la Milano più pop, quella che si ritrova più triste, falsa, un po’ beffarda, degli aperitivi di cui parlavo prima, dei finti intellettuali e delle prime sigarette, dei film porno di cui si parla apertamente e delle collaborazioni senza vergogna con Asia Ghergo (ne “L’età Difficile”). Per gli amanti delle tastierine, dalla musica da sabato sera (anche se è lunedì) e per sentirsi soli, in compagnia.
Saffelli
Uno dei pochi milanesi puri, razza rara e da riguardare come una specie in categoria protetta (dovremmo cominciarlo a fare anche con i cantautori e non solo con gli animali). Nasce dalla scena rap, per poi ritagliarsi un piccolo e meritato spazio nella scena dei nuovi cantautori (tra tutti i vari figli e derivati della scuola di Dente che ormai sembra un po' il padre di tutti questi ragazzini così naif). Il suo è un songwriting pulito, che nasce dai canoni del genere it-pop, un altro classico voce e tastierine, per sporcare il tutto con nuovi scenari urban (che piaceranno ai fan de L’Officina Della Camomilla). É anche il caso del suo nuovo singolo “Amsa” che descrivere una storia d’amore sdolcinata e banalotta, ma ambientata in una discarica, mentre proiettano un film di Woody Allen. Immaginate qualcosa di più hipster? Ci sono le belle parole, c’è Milano in tutta la sua essenza più giovistra intellettualoide, lui è bello e bravo.
Qualunque
“A vent’anni è difficile far stare il mondo in equilibrio” e basterebbe questa frase per descrivere il minimalismo gracchiante, cantilenante e un po’ stonato di Qualunque. Testi ubriachi, pessimismo cosmico e tratti di psichedelia nei testi, rock and roll anni Novanta nella musica, con i respiri nei momenti giusti. Si parla di droga (ora che ci penso, ci sono gli anni Novanta anche nei testi), paranoie in situazioni comuni. É un po’ come la band del tuo migliore amico, che di fatto fa un po’ schifo, però la ascolti perché parla anche di te, di quelle persone e situazioni che conosci, è come uno spettegolare lecito, solo che Qualunque mica lo conosci davvero.
Andrea Poggio
Ci spostiamo nella Milano delle Clarks anche in piena estate, Miraggi Metropolitani, luci al neon, fascinazioni vintage di una città che si vive tra le bancarelle di libri usati che stanno chiudendo e i bar che sembrano bettole ma che fanno pagare una birra dieci euro (perchè si sà che è compreso l’aperitivo). Andrea Poggio sembra un po’ il Franco Battiato di Patriots, senza i volteggi arabeggianti che si sostituiscono ai rigidi ecosistemi di Milano e movimenti in quattro quarti martellanti. Per i frequentatori di Porta Venezia, per chi ama la moda uomo e i maglioni a collo alto, per chi potrebbe trovare interessante una band di asiatici (se lo avete mai visto dal vivo, avete capito sennò vabbè ok...), per gli asettici, quelli che razionalizzano, per gli psicologi e gli amanti del cinema italiano, se siete fan di Vasco Brondi (sia il primo che l’ultimo) e ultimamente non state più dietro alle uscite de La Tempesta e volete vederci più chiaro (e comunque fallirete).
Settembre
C’è una sua canzone, 1999 che dice “E non ho voglia di uscire, di vestirmi un po’ meglio, di andare a ballare per cercare parcheggio”, che dice praticamente tutto, di questa Milano un po' insopportabile che non riusciamo a non amare. Nonostante una voce e un’attitudine datata (da pianobar, insomma…) , come canterebbe mio padre se facesse questa cosa qui, c’è una bella abilità da storyteller. Lui canta, tu immagini. E poi ci sono tutti quei rimandi à la Oasis, Noel Gallagher de noialtri ma anche contaminazioni che derivano dalla vecchia scuola (Rino Gaetano, Lucio Battisti…). Lui è Settembre, e parla di caffè, notti insonni, caos metropolitani, gruppi whatsapp, chiacchiere inutili. C’è una volontà di apparire un po’ vintage, a partire dalla copertina della copertina e dal titolo del suo album di debutto “Di questi tempi”, ma non ce la fa del tutto, perché Stefano Riggio, Settembre, parla della Milano di oggi. Per tutti quelli che hanno solo da fare solo poche fermate di metropolitana per andare al lavoro, che aspettano gli amici e si sbronzano di giorni cantando canzoni che si prestano a cori da stadio ma che nessuno conosce.
Cri + Sara Fou
Un eccellente esempio di cantautorato è quello del duo acustico Cri + Sara Fou. Solo due elementi, le abili mani sulla chitarra di Cri, e una delle voci più potenti e intense, quella di Sara Fou, dell’underground italiano. Solo due elementi, due mondi apparentemente distanti che si uniscono per creare il nuovo, musicalmente essenziale e pensato, emotivamente immenso. I fortunati che li hanno potuti vedere in uno degli ultimo Sofar organizzati a Milano (ambientato in una cripta sotterranea della bellissima Chiesa Rosa vicino p.za Abbiategrasso), hanno potuto incantarsi di fronte a uno degli ultimi esempi di purezza, in un periodo in cui le nostre orecchie sono abituate a produzioni stratificate e abbondanza di suoni. Il primo giugno esce il loro debut album “Non Siamo Mai Stati”. Da non perdere se volete fare i fighi (durante le chiacchiere altezzose in Isola) e dire di averli scoperti prima di tutti gli altri.
Manfredi
Solo due singoli all’attivo e già il nome di Manfredi continua a risuonare in tutti i vari ambienti pseudo Rockit, e anche su Rockit. Solito "nuovo" songwriting che si inserisce perfettamente nel nuovo panorama del cantautorato con le tastierine, ma dalla sua questo ragazzo ha una freschezza estrema, la gioventù addosso e tanta rabbia che (diciamolo, in questo momento di pop dilagante preconfezionato tutta la rabbia che abbiamo visto finora è il Ueeee di Calcutta). Il suo primo singolo s’intitola “20143 Milano Navigli”: una storia d’amore raccontata e vissuta sui Navigli, in piena notte, in settimana quando non c’è nessuno. E perché non farsi una nuotata, in queste acque torbide, e in preda a qualche delirio alcolico immaginare di essere un gabbiano? Da ascoltare dopo almeno tre o quattro bicchieri di rosso, così ha tutto senso, anche il gabbiano.
Ernia
Orgoglio milanese dal quartiere QT8, rapper che può piacere anche a chi non mastica di rap. Rappresenta il lato oscuro (Il Cavaliere Oscuro del rap, diceva qualcuno) di un genere spesso sottovalutato dai vari hipster che ancora non sanno dell’esistenza del Gate di fianco all’Alcatraz, e che al massimo si fermano a Ghali quando finisce in qualche playlist Spotify. Ci sono i virtuosismi classici di un pianoforte à la Erik Satie (questo ripetetelo in giro, che fate bella figura) e contemporaneamente i suoi versi recitano “… ho più figa che flow” (se non ne capite il senso è perché non avete visto una schiera di quattordicenni urlarlo). Nei suoi versi non c’è solo la madre, l’esser partito da niente e avercela fatta (e i vari tops del genere), ma anche tradimenti, sentimentalismi (quelli veri), non comuni nel songwriting maschile in generale (questo invece lo diceva Giorgie dei Giorgieness), ancora di più nel rap. Potrebbe piacere a chi si è mai addentrato nel genere. Ed è pure figo.
NB: In questa session di ascolti dettata dal mio costante desiderio di stra-parlare di qualsiasi singolo o band che mi capiti alle orecchie, ringrazio la fedele compagna di autostop Federica Di Gaetano e lo spacciatore notturno di press-kit Simone Castello.