C'è una cosa a cui teniamo particolarmente a noisyroad: dare spazio agli emergenti. E c'è una cosa che in questi anni è diventata il nostro cavallo di battaglia: dare spazio agli emergenti internazionali per cui all'estero sta crescendo l'hype e si parla in testate come Pitchfork e DIY mentre in Italia non se li bada ancora nessuno. Ci piace sguazzare nei meandri di Spotify e trovare la Next Big Thing e ci piace portare qualche nome inglese, francese o americano in un mercato sempre più saturo e nazionalista. Nel panorama indipendente non esistono solo gli Arctic Monkeys o gli Strokes ma una miriade di band, cantautor* e artist* più piccoli che stanno portando una ventata di freschezza nel genere e che aspettano solo di essere scoperti. Ecco perchè il nostro annuale articolo su chi ha debuttato quest'anno è di fondamentale importanza.
Se volete conoscere anche le uscite e i debutti italiani trovate la nostra guida agli album italiani 2020: https://www.noisyroad.it/liste/breve-guida-approfondita-agli-album-dellindie-italiano-usciti-nel-2020_28234
Dance like no tomorrow
AG Cook sicuramente non è un artista sconosciuto anzi, la sua fama lo precedeva anche prima della pubblicazione dei suoi lavori di quest'anno. Fonda la sua etichetta (e collettivo artistico) PC Music nel 2013, con lo scopo di trovare e pubblicare nuovi artisti facenti parte di quel filone che gira attorno al pop sperimentale (hyperpop, bubblegum pop o come lo volete chiamare) collaborando anche con Sophie, anche se forse la fama vera gliel'ha portata la collaborazione con Charlie XCX. Nel 2020 AG pubblica due album, 7G e Apple. 7G è un progetto che era in preparazione dal 2018, dove AG sperimenta di tutto in 49 tracce, dagli originali alle cover di Crimson and Clover con annessi chitarroni, mentre Apple in un certo senso è un album più tradizionale, sia dal punto di vista della forma album, che da quello della produzione e distribuzione (7G non ha video ufficiali, solo live zoom di promozione). Insomma, "we live in a society", quella di AG Cook.
Artista della Domino Records - già culla di nomi come Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Hot Chip e Jon Hopkins - ha annunciato la nuova artista colombiana con la pubblicazione del singolo they told us it was hard, but they were wrong. facendo il botto. Ela Minus si muove sinuosamente, ti trasporta in un locale underground dalle pareti nere e dalle luci in grado di stordirti, ti ipnotizza e ti regala la scioltezza di un drink di troppo con le sue sequenze acide, sintetiche e oscure, ti fa entrare a forza con lei nel loop dell'elettronica, anche se hai sempre fatto spallucce verso questo genere. I singoli e il debut album acts of rebellion ti faranno ricredere su tutte le potenziali idee pregresse tu potessi avere su questo genere; il canto di Ela, con quella pronuncia non perfettamente americana, quasi timido e pigro, dalle sfumature leggermente malinconiche, è l'elemento che rende l'ascolto più accessibile, anche a coloro a cui solitamente non piace. Ad aiutare l'ascoltatore interviene anche la divisione dell'album, diviso in due parti, una sorta di notte e giorno musicale: la prima contenente i 3 singoli pubblicati in precedenza (oltre a quello sopra citato anche megapunk e el cielo no es de nadie) dalle note martellanti, aspre e aride, su cui perdere completamente la testa. E la seconda su cui accasciarsi stremati dopo il calo di tensione e d'energia, da ascoltare quando si è perso completamente il fiato, una parte più calma e dolce, dove brani come close e dominque assumono le sembianze di ninna nanne elettroniche per rientri casalinghi albeggianti in solitaria. acts of rebellion è una magnifica scoperta, un esperimento innovativativo dove si è voluto contaminare la purezza del suono con la parola dando vita ad un genere assestante ed ad una delle uscite più interessanti di questo 2020.
Jordan Edward Benjamin il suo esordio l’aveva già fatto nel 2018 col primo EP della trilogia a modern tragedy, ma questo album uscito circa una settimana fa è il suo debut ufficiale per la Fueled by Ramen. Da sempre caratterizzato da testi fortemente politici e polemici e da uno stile musicale ibrido tra rock, hip pop ed elettronica, anche in Death of an Optimist grandson conferma la propria tendenza a sfruttare e mescolare più generi musicali, questa volta però condensando il tutto in un concept album incentrato sul proprio dissidio interiore: il protagonista è il suo io ottimista che si scontra con un alter ego oscuro di nome X che ricorda vagamente un certo Blurryface. Come avrete capito il primo riferimento che viene in mente ascoltando grandson sono i Twenty One Pilots (che guarda caso fanno parte della stessa casa discografica), in particolare per lo stile e le rotte musicali percorse, nel caso di grandson con una direzione che protende spesso verso l’indietronic, pur non rinunciando in alcuni casi ad una chitarra vicina al metal (We Did It!!!), per alcune inflessioni vocali nelle parti rap come nell’antibellica WWIII, oltre che per l’impalcatura narrativa. Se siete fan della musica di Tyler Joseph e Josh Dun, o più in generale del crossover, dovete assolutamente recuperarlo, anche per tracce come Identity, Dirty e Riptide.
In un anno del genere, è un po’ difficile trovare un motivo per fare festa. Per fortuna, le Haiku Hands non si sono fatte scoraggiare dal vibe generale, anzi, hanno presentato al mondo un coloratissimo debut degno dei migliori rave, l’omonimo Haiku Hands. All’estero, soprattutto in UK, c’era tantissima aspettativa per il primo album del trio australiano, che si è fatto conoscere già nel 2017 con il singolo Not About You e ha poi solcato i palchi di quasi tutti i principali festival internazionali. Il segno distintivo delle Haiku Hands? Un pop-dance da festino semi-legale a cui è impossibile resistere. Il debut è il riassunto esplosivo di un percorso fatto di piccoli assaggi che ora prendono forma e definiscono il sound della band. E se non lo avete mai ascoltato, provate ad iniziare con Jupiter e capirete subito perché ci piace così tanto: attenzione, potrebbe creare dipendenza.
Nonstante quello che si penserebbe dal nome e dai titoli in inglese dei brani e nonostante il fatto che abbiano fatto da spalla ai Blossoms in diverse date, il terzetto è originario di Parigi. Nel DNA musicale dei francesi sembra esserci un cromosoma imprescindibile, l'elettronica, che anche nel caso dei Keep Dancing Inc non poteva mancare e che emerge sottoforma di tastierone anni '80 e sintetizzatori perfetti per un classico indie party. Più che ai connazionali, come L'imperatrice oppure Polo & Pan, la band strizza più l'occhiolino alla scena oltre la Manica, in particolare a nomi come Genghar e Sundara Karma, si scrolla di dosso la patina aristocratica e altamente ricercata della scena francese, abbracciando accordi di chitarra semplici e melodie giovani, allegre e spensierate con riverberi del passato, ne sono esempi Long Enough e Start up Nation, un po' quello che ha fatto proprio la band sopracitata con cui sono stati in tour. Il legame con il Regno Unito è così forte che a produrre il debut Embrace hanno chiamato il produttore inglese Tom Carmichael, già collaboratore di Haim e Alaskalaska.
L'emozione di sentire quegli stessi sound che mi ha cullato nella mia adolescenza ribelle mi scalda il cuore. I Public Practice riportano in auge il post punk anni 70 con azzardi dance - etichettatura che limita molto quelle che sono le sfumature della band - frutto di un lavoro incessante in un studio homemade a Brooklyn del chitarrista. Tra i brani che compongono il disco ce ne sono alcuni registrati in presa diretta, live direttamente dallo studio. I componenti del gruppo si fanno da fonici, producer, arrangiatori e tutto ciò di cui hanno bisogno. Il loro EP del 2018 aveva già incuriosito la critica che nel maggio di quest'anno è stata soddisfatta con Gentle Grip: una vera e propria coccola per chi adora i pantaloni a zampa eppure sia i capelli decolorati male dal taglio assimetrico. Perle come Compromised, My Head o Disposable sono brani che unificano piuttosto che di dividere sottolineando come un album solo possa essere pieno di temi stimolanti e influenze diverse eppure che funzionano tutte molto bene fra loro. E ascoltando loro vi mancherà ancor di più il dancefloor.
Rina Sawayama col suo debutto omonimo ci ha fatto ballare (nelle nostre camerette). La Sawayama, classe '90, è giapponese naturalizzata britannica; proprio in UK, durante l'università comincia a fare la modella e a pubblicare i primi lavori musicali. Dopo un EP, quest'anno col suo debutto si è imposta come una delle novità più interessanti del panorama pop, anche grazie al traino del singolo Comme Des Garçons, una vera e propria hit. Il resto del disco si nutre delle influences della Sawayama che sono i più vari: da Avril Lavigne a Hikaru Utada, da Beyoncè ai Limp Bizkit. Se queste sono delle premesse estremamente interessanti, in pratica forse il disco risente un po' di questa eterogeneità di generi, rimanendo un'ottima raccolta di singoli ma risultando un po' poco coeso e richiamando altre artiste più solide (a me ha ricordato la già citata Charli XCX e Poppy ad esempio). In conclusione però è un disco sicuramente interessante di un'artista da tenere d'occhio.
Sofisticatezza
Il duo alternative pop inglese è sulle scene da almeno tre anni e tra un EP e l’altro si è pure esibito al Glastonbury festival nel 2019. Always in My Head è un esordio che conferma le potenzialità mostrate in passato, questa volta con un’identità più calibrata. Degli otto brani dalla durata complessiva di mezzora, sette sono infatti inediti, testimoniando l’intenzione di creare un progetto a sé stante e non una semplice raccolta di quanto rilasciato in passato. L’unica traccia già nota, forse la loro più famosa, è Without Your Love, qui rieditata in una veste tutta nuova che in alcuni punti pecca di troppa produzione (come nel caso della comunque apprezzabile Hello), causando la perdita di quella freschezza che caratterizzava la versione del 2018. Resta comunque uno dei pezzi migliori insieme a quelli che riescono ad equilibrare gli elementi pop elettronici con suoni acustici, come possono esserlo un arpeggio di chitarra o un giro di basso. La loro forza sta nel connubio di queste due direttrici e solo quando ciò avviene si hanno le prove migliori (Bad Boys, I Know I’ll Find It, Grab My Hand) e gli APRE diventano riconoscibili distinguendosi all’interno di un panorama musicale pop sempre più saturo. Questo debut album conduce chiunque lo ascolti in un’atmosfera colorata, trenta minuti tra nostalgia e spensieratezza.
Un album che inizia con queste parole: «Three years ago I said / The West is dying right underneath my nose» promette cose molto interessanti. Uno statement provocatorio per i HMLTD, quintetto londinese che dal 2015 ha fatto dell'eccentricità e della stravaganza il proprio punto di forza, a partire dal nome che agli inizi era Happy Meal Ltd., e non si può che dire: I'm loving it! A questo si aggiungono abiti femminili, performance appariscenti, rossetti e trucco a cancellare qualsiasi tipo di barriera, non pura e mera provocazione come spiega il cantante: «A lot of it comes down to wanting to create something beautiful. But something that doesn’t necessarily fall within the standard confines of what you might call beauty». Dopo una serie singoli che hanno portato il gruppo a non passare inosservato a febbraio è uscito West of Eden, concept album che vuole proporre e riflettere su «new visions of masculinity, the decadence of western capitalism and the violence of insecurity and repression», nato già 4 anni fa ma procastino a causa degli impegni universitari dei giovani ragazzi. Il disco contiene una miscellanea di generi diversi, troviamo rimandi agli Spaghetti Western che si intersecano a beat acidi di elettronica che a loro volta si uniscono a chitarre post punk, dando vita ad un'anarchia sonora avaguardistica. Ci sono talmente tanti spunti diversi nella musica degli HMLTD che diventa difficile paragonarli a qualcuno e non ci stupiamo del fatto che questo disco sia stato lodato dalla stampa inglese. Se siete in cerca di qualcosa di particolarmente strano e nuovo allora questo disco fa al caso vostro.
Pierre Mottron, classe ‘87, è un musicista francese, al suo debutto con l’album Giants. La musica di MOTTRON è un art-pop sognante e sensuale con rimandi che spaziano dalla musica classica, al jazz, al folk e alla minimal techno. I suoni e le atmosfere del disco fanno pensare a alt-j, James Blake e Thom Yorke. Consigliato l’ascolto in contemporanea alla visione dei video: uno affidato alla regia di Charlotte Le Bon (Walk Away) e quattro a quella di Olivier Groulx (che già ci aveva deliziato con video per alt-j, Arcade Fire, Scott Walker, Wild Beasts e Bastille). Qui il regista crea proprio un mini-film di quindici minuti, di cui i quattro brani sono la colonna sonora (un'operazione simile a quella di Francesco Lettieri con Capri Randez-vous per LIBERATO, ma con un taglio completamente diverso). Fun fact: Alcuni brani di MOTTRON sono stati usati nella soundtrack della serie tv teen-drama spagnola firmata Netflix, Elite.
Breathe Deep è album d'esordio di Oscar Jerome. Un disco dove il giovane chitarrista jazz londinese ha modo di confrontarsi con la propria crescita personale e con i grandi problemi dei nostri tempi: migrazioni, cambiamenti climatici e parità di genere sono solo alcuni dei temi che questo esordio tratta. Il disco vede numerosi ospiti, fra cui i membri del collettivo KOKOROKO ed il rapper e poeta Brother Portrait, fondatore del collettivo artistico Steam Down. Questo disco non fa che confermare il momento di rinascita che sta vivendo il movimento jazz nel Regno Unito e non ha paura di contaminarsi con altri generi come il neo soul o l'hip hop.
Come avrete capito, l'indie francese ci piace proprio tanto. Sofisticata, elegante e ricercata, la scena francese riserva spesso delle scoperte molto interessanti, come i Terrenoire, duo composto da Raphaël e Théo, fratelli cresciuti a Terrenoire, distretto popolare di Saint-Etienne. I ragazzi si sono fatti subito notare in Francia grazie ad un mix di hip hop elettronico e cantautorato, dai risvolti cupi e notturni, che Le Parisien sintetizza come se "Claude Nougaro fosse prodotto da Frank Ocean". Nell'estate del 2020 è arrivato il primo album Les Forces Contraires (le forze opposte) incentrato su quattro punti cardine: la morte, l'amore, la luce, le tenebre. Il risultato è un racconto colmo di esperienze personali ed intime, come la perdita del padre all'inizio della stesuara di questo disco, emozioni vive e travolgenti su velati tappeti elettronici che per certi aspetti possono ricordare quelli malinconici e oscuri dei Radiohead. Per chi ha dimestichezza con la lingua potrà notare una scrittura elaborata e unica, lodata da tutti i magazine d'Oltralpe, che porta alla scoperta e alla ricerca della parte più interna e buia di sè.
Ha collezionato voti altissimi e recensioni di gran riguardo per il suo debut Your Hero Is Not Dead. Westerman, ha uno stile tutto suo, tutt'ora difficile da spiegare. Lo hanno etichettato come electronic folk artist per i suoi suoni ridotti all'osso e quel folk nuovo, contemporaneo ed elegante. Ai classici elementi quali chiarra e piano aggiunge dei lievi elementi di elettronica donandociuna chicca introspettiva e poetica per odierni animi sensibili e fragili come il suo debut album. Però lui si definisce semplicemente un cantante-cantautore. Il suo primo singolo Mother Song è uscito nel 2016 e solo ora, a distanza di quattro anni e un lockdown che gli ha permesso di concentrarsi su questo nuovo lavoro, Will (Westerman) ci ha regalato dodici brani. Questo disco possiede un'essenzialità e una tale delicatezza da essere commoventi e ammagliata da tanta raffinatezza. Hanno anticipato il disco Blue Comanche e l'omonima Your Here Is Not Dead insieme ad altro mezzo album. Il primo singolo potrebbe sollevare l'intero disco ed innalzarlo nell'Olimpo comeuno dei debut migliori del 2020. Eppure anche con i temi delicati affrontati da Westerman in Walking On Design e Think I'll Stay si rasenta la filosofia. Ma ve lo può spiegare meglio lui nell'intervista che abbiamo fatto qualche mese fa.
Cosa si ottiene a mischiare la synthwave anni 80 e il nuovo movimento punk degl ultimi anni? Il termine tecnico non so se esista, ma lasciate che ve lo spieghino con i fatti i Working Men's Club. Partiti agli inizi come quello che sarebbe potuto sembrare un essesmo gruppo indie rock dal muso facendosi strada dal Nord Inglese a soli colpi di mosh pit e chitarre elettrice, la band ha infatti preso una piega piacevolmente opposta. I Working Men's Club e il loro omonimo debut sono tutt'altro che il solito quartetto britannico alla The Smiths, rivelandosi piuttosto molto più team New Order e Kraftwerk, veri cultori dell'elettronica vecchia scuola scheggia denti. Se siete puristi che storcono il naso al pensiero d autotune e band sponsorizzate Gucci, e che non non si perderebbero mai il loro amichevole rave in fabbrica di quartiere, questo è il disco per voi. 50 minuti di sintetizzatori analogici in legno massello pronti a sparare note dure come chiodi, come nel caso di Teeth e A.A.A.A., passando per toni Depeche Mode-iani di Outside, e veri inni moderni del synthpop come nella traccia d'apertura Valleys. Il tutto scandito dalla voce schietta e glaciale di Syd Minsky, che colpisce duro per tutto il disco senza mai abbassare la guardia. Era un po' che non si vedeva un gruppo tosto come i WMC, si prospetta una brillante carriera per il quartetto a ritmo di socialimso e drum machine.
Chitarrine comaback
Probabilmente la maggior parte del mondo è venuta a conoscenza di beabadoobee senza veramente sapere chi fosse grazie alla sua canzone death bed (coffe for your head) campionata e colonna sonora di mille Tik Tok. Nonostante avesse una manciata di canzoni pubblicate c'era molto hype per il suo primo disco, Fake It Flowers, uscito lo scorso 16 ottobre, anche grazie alla nomination ai BRIT Awards 2020 per il Rising Star Award. Le vibes anni '90 accompagnano tutto il lavoro e in particolare modo il video di Care, che è stato girato durante la pandemia, assieme ai suoi collaboratori bedroom. beadbadoobee con questo disco è riuscita a prendere le atmosfere di quei favolosi anni e renderle perfette per il 2020, con un disco che affronta temi personali ma universali e ha quel sound da cameretta, tra ballate, chitarre distorte, e canzoni acustiche lo-fi perfetto per accompagnarci in questo periodo. Un esordio promettente di una giovane artista da cui ci possiamo aspettare molto.
I Disq sono cinque ragazzi poco più che ventenni provenienti dal Wisconsin con tanta voglia di suonare, (hanno aperto il tour americano degli Shame e quello europeo dei The Districts), che circa un anno fa hanno attirato l’attenzione dell’illustre casa discografica Saddle Creek (Bright Eyes, Big Thief per citarne due). Collector è un disco d’esordio che, come suggerisce il titolo, è una raccolta delle esperienze giovanili e musicali della band. Chitarre distorte e una tastiera sorprendente si alternano in tracce rumorose vicine al garage rock di stampo britannico (I’m really trying) ed in altre più acustiche come la ballata D19 e la breve ma intensa Trash, tutte accomunate dal tono ironico-tragico dei testi che narrano le ansie e la routine di un tipico teenager americano. I suoni che richiamano gli anni Novanta si mescolano spesso ad un ritmo imprevedibile costituito da saliscendi continui che garantiscono varietà evitando il rischio della monotonia rumorosa di canzoni troppo simili. Dimostrazione di questo linguaggio musicale variegato sono la stupenda Gentle e la penultima traccia I Wanna Die dove Isaac DeBroux-Slone mette in mostra le proprie capacità vocali. L’esordio dei Disq è una delle promesse per l’avvenire più belle che in questo tragico 2020 qualcuno potesse fare all’indie rock, un album che già dall’esplosivo primo singolo Daily Routine si dimostra uno dei migliori debut dell’anno.
I Giant Rooks possono essere descritti con due aggettivi, raffinati ed estremamente coraggiosi. Su quest’ultimo aspetto in realtà c'erano ormai pochi dubbi, i cinque membri sono consapevoli delle loro capacità e non hanno paura di prendersi dei rischi. Il pregio più grande è tuttavia in gran parte insito nel loro sound riconoscibilissimo, nonostante la commistione dei generi più disparati che la stessa band non fa mistero di apprezzare. I testi enigmatici, poetici e costellati di domande si sposano alla perfezione con il loro genere che passa dal jazz di Duke Ellington e John Coltrane alla musica classica e il pop sfocia talvolta nella trap pur rimanendo ancorato ad un sostrato di indie rock che fa da collante e protegge l'intera struttura da crolli. ROOKERY è un esordio (se così può essere definito dopo tre EP e due tournee in giro per il mondo) che non delude e stupisce, rassicurando chiunque temesse che i Giant Rooks sarebbero rimasti per sempre prigionieri del successo di Wild Stare, il successo che nel 2019 li ha portati a rimanere per ben due mesi nella Top20 italiana e che li ha portati alla notorietà internazionale. Un viaggio musicale che spazia in numerosi territori, un album che già al secondo ascolto suscita nostalgia per ciò che è stato e si avrebbe voglia di ricominciare daccapo senza conoscere l'esito finale.
Se volete una sferzata di energia per risvegliarvi dalle vostre sonnechianti giornate di questo 2020 i Pottery sono ciò che fa per voi. E se la realtà vi sembra difficile da affrontare allora avete proprio bisogno del loro mondo funky, chiassoso e coinvolgente. Sono cinque ragazzi from Montreal, Canada. Frizzanti, energici e fuori di testa hanno presentato a giugno il loro debut album che li rappresenta alla perfezione. Un vortice di suoni e incalzanti rif di chitarra portano l'ascoltatore giù in fondo in quel coloratissimo baratro che si chiama Welcome to Bobby's Motel in cui risuonano a tutto volume le due parti di Texas Drums, Pt. I & II. La narrazione del frontman è psichedelica e allettante mentre la band trasporta l'ascoltatore tra frenetiche chitarre e batterie piene e onnipresenti. Con l'EP del 2019 erano stati relegati più al genere post-punk ma con questo nuovo lavoro grazie anche a Hot Heater o Bobby's Forecast la musica è cambiata. Inoltre non è difficile pensare come i loro live siano stati osannati in lungo e in largo per la loro energia (nonstante fossero anche i supporter di band come Fontaines DC o Viagra Boys). In mancanza dei live, vi lasciamo qui sotto questo video creato dallo stesso batterista della band.
L’espressione anglofona pretty sick, che dà il nome alla band, letteralmente significa “abbastanza malato”, ma è usata anche nel senso di “piuttosto figo”. E direi che gli si addice decisamente. I Pretty Sick sono una rock band di New York composta da: Wade Oates dei Virgins alla chitarra, Austin Williamson degli Onyx Collective alla batteria e Sabrina Fuentes al basso e alla voce. La figura più interessante della formazione è proprio quest’ultima, che ha fondato la band quando aveva tredici anni. Ora Sabrina di anni ne ha venti e, dopo vari singoli, i Pretty Sick hanno debuttato quest’anno con l’album Deep Divine. 7 brani, 20 minuti e 35 secondi, per un concentrato di rock incontrollabile e senza tempo, che alterna ritmi grunge e shoegaze a ballate morbide e lente. Dal look ai suoni, i Pretty Sick sembrano essere stati teletrasportati direttamente dalla fine degli anni Novanta. Soprattutto la ipnotica frontman, che con i suoi crop top e i jeans a vita bassa ricorda una giovane Dolores O’riordan con una spruzzata di ribellione adolescenziale alla Avril Lavigne. Probabilmente non è un caso che Fuentes faccia anche la modella posando per marchi quali Converse, Alyx, Stussy e Apple.
Cara vecchia South London, non la smetti mai di sfornare talento eh? Sono ormai tanti i talenti a sud del Tamigi che hanno preso il volo oltre gli umidicci pub della capitale per arrivare fino al bel paese. Se vi hanno entusiasmato gli HMLTD, Black Midi, Goat Girl, Shame eccetera, i Sorry non vi deluderanno. Se dovessi darvi una descrizione più veloce possibile del loro debut sarebbe: dark, sexy, e strafottente. Dark e sexy, perchè seppur tendenti decisamente all'indie rock, la voce della frontgirl Asha e le chitarre del compagno Louis si mescolano per creare un sound decisamente più tagliente, denso e ipnotico di molti dei loro colleghi del genere, come evidenziato da pezzi come Right Round the Clock, More e Starstruck. Strafottente, perchè 925 è carico di ambizioni e self confidence che contraddinsgue una gioventù Londinese cresciuta a pane e mdma, che sogna, o meglio pretende, di avere la loro chance di vivere il sogno del rock con la propria band di quartiere. E' proprio questo acerbo muso duro che si rivela un po' l'arma a doppio taglio di questo disco: seppur un ascolto interessante nel suo complesso, 925 è un puzzle di buone idee non eseguite nella loro completezza. Chitarra, sax, synth si scazzottano nei 43 minuti di durata del disco ognuno per aggiudicarsi la cntura di strumento dominante del disco. Classica situazione da diamante grezzo che fa dei Sorry un bel gruppo da tenere d'occhio per il futuro.
Se musicalmente parlando il quintetto di Cambridge non abbia proprio scoperto l'acqua calda, loro e il loro debut Deep Down Happy si meritano come minimo un applauso dal punto di vista dello show business. Era da tempo che la scena indie e, specificamente parlando, quella delle vere e proprie band d'oltremanica non vivevano un momento così sentito da parte del pubblico, dai tempi del primo posto in classifica ottenuto dai Blossoms nel 2016. Gli Sports Team sono una band di giovani per i giovani, 2 chitarre, basso, voce e batteria - facile facile. Già visto altre tremila volte? Gli IDLES sono meglio? Lamentele che scivolano addosso a orde di fan impegnate a scolarsi birre e sudarsi addosso in mosh pit attraverso il paese. Un classico misto vincente di canzoni easy e catchy, e il puro star power del frontman Alex Rice, un cosplay millenial di Mick Jagger assoluto torero delle folle di under 18 che popolano i loro parterre. M5, Fishing, Here's the Thing - tutti pezzi che ogni principiante musicista potrebbe suonare, ma che proprio per questo non riescono che a strappare un sorriso per la loro immediatezza. Aggiungete al tutto con una battaglia alla prima posizione in classifica contro Chromatica di Lady Gaga combattuta a suoni di dischi limited edition e digital download a 99 centesimi persa per un pelo e otterete il movimento Sports Team che conquista i giovani Britannici da un paio d'anni a questa parte. Facile si, ma divertente un botto. Benvenuti nella crew.
Gen Z alla riscossa
Per godersi al meglio questo disco è necessario fare una premessa fondamentale. Hey u x è un disco mainstream. Mainstream fino al midollo. C'è poco di indie qui dentro, il debut d BENEE contiene 44 minuti di puro e semplice millenial pop, e va affrontato da tale. Detto questo, possiamo concentrarci su quanto il suddetto millenial pop possa suonare alla grande. Se riuscirete a mettervi per un attimo nei panni di una teenager Gen Z come Stella Bennett, Hey u x vi si rivelerà carico di sonorità pronte a farvi l'occhiolino con la loro accessibilità e mancanza di pretese. Se preso a cuor leggero come inteso, è facile impersonarsi con le turbe adolescenziali con la quale la popstar Neozelandese dipinge la sua tela: solitudine, problemi di cuore e verso se stessi, solo poche delle tante condizioni che fungono quasi da Manifesto Marxiano per la più giovane generazione. Tocca capirli i giovani, il mondo non si prospetta un grande posto da abitare nei prossimi decenni eh? Musicalmente, Hey u x è sorprendentemente versatile e fluido, correndo dall' R&B all'alt-pop incrociando super mega hits alla TikTok, pezzi acustici e funkettoni. Sarà il disco che cambierà la vostra vita e vi farà riscoprire voi stessi scuotendovi nel profondo? Probabilmente no, ma diavolo se funziona bene domenica mattina in cucina, in metro tornando da lavoro o in qualsiasi altro momento abbiate bisogno d staccare un pò, anche musicalmente. Una roba easy dai, è stato un anno troppo ansioso per ascoltare solo Joy Division e Aphex Twin.
Partiamo già a bomba perchè questo album si chiama come una canzone dei Glass Animals che io adoro (Heatwaves ndr). MICHELLE non è la ragazza cantata dai Beatles, ma un collettivo di nove studenti del college in giro da un po' (questo album è del 2018), come un'ondata calda, appunto. Suonano freschissimi, come una notte d'estate o come un profumo fruttato, freschi come avere vent'anni ed esserne felici, fra una lamentela e l'altra. Sono tanti e si sente: un mix di voci ed essenze diverse come è giusto che sia. Infatti mi vengono in mente mille riferimenti diversi ascoltandoli, dalla calma di girl in red alla poliedricità delle mie amate HAIM, con cui condividono anche il capslock usato in tutta la tracklist (THE BOTTOM, GET OFF YOUR PHONE, LOVE UR NAME, sono dei concetti espressi con una certa convinzione, seguendo sempre quella dittatura sentimentale tipica dell'essere giovani che vi citavo sopra). Ma ho sentito soprattutto rimandi ai Fugees. Non sarà un caso l'aver trovato subito dopo una loro cover di Killing Me Sotfly che testimonia cosa son capaci di fare ed essere questi bravi collegians.
C'è un verso ormai inflazionato dei Coma Cose che dice «che schifo avere vent'anni, però quant'è bello avere paura» e sarebbe perfetto per descrivere The Baby, l'album d'esordio della cantautrice newyorkese Samia, pubblicato lo scorso 28 agosto per Grand Jury. Un album essenziale e urgente al tempo stesso, in cui una voce splendida, contornata principalmente da chitarra, batteria, tastiere e qualche synth, accompagna versi strettamente personali ma in cui ogni ventenne del mondo potrebbe ritrovare un po' delle proprio speranze e paure. Il picco più alto del disco viene toccato sicuramente con la traccia conclusiva Is There Something In The Movies?, in cui la sua voce si spezza mentre canta un delicato e doloroso omaggio all'attrice, Brittany Murphy, protagonista di Clueless, prematuramente scomparsa nel 2009. Vi sfidiamo a non commuovervi.
Prendete un sintetizzatore, dei testi in coreano, una lava lamp fluorescente e una produzione fuori da ogni schema: avrete creato il concept dietro a What We Drew, il debut dell’interessantissima artista e produttrice coreano-americana Yaeji. L’album si può tranquillamente classificare tra le uscite più strane dell’anno e, paradossalmente, anche tra le più intriganti. In un mix di elettronica, house pesante e pop, What We Drew è decisamente un disco futuristico, sia per quanto riguarda i contenuti che per le modalità di produzione. Oltre a giocare con gli stili, Yaeji mescola anche le lingue, alternando inglese e coreano a seconda dell’effetto che vuole trasmettere agli ascoltatori. Il risultato è un album da esplorare, per nulla facile o immediato, ma che regala infinita fonte di ispirazione e spunti per trip pazzeschi. Non c’è alcun dubbio: dopo quest’anno, Yaeji schizza in testa alla lista degli artisti da tenere d’occhio in futuro.
Super Chill
Ho scoperto i Buscabulla, quindi il loro spagnolo, quindi pane per i miei denti. Raquel Berrios e Luis Alfredo Del Valle sono una coppia vera e propria prima di essere un duo, vengono da Porto Rico e il resto del mondo è pronto ad accoglierli. Buscabulla è una parola che potremmo tradurre con troublemaker, rappresenta qualcosa di fastidioso già nel suono che fa, una storia scomoda che però ti fa ballare. Una storia che nasce ai Caraibi, sì, ma fra i postumi e le macerie dell'uragano Maria del 2017. Lo dice già il titolo dell'album con un semplice imperativo: ritorna. Le loro radici, infatti, si sentono eccome, pur mimetizzate fra l'electropop e i tratti più universali. Il cuore latino dei Buscabulla pulsa in Vámono, traccia di apertura, influenzata dalla salsa gorda e in generale dal vintage della loro tradizione, in Mío, in Volta e la voce di lei fa quasi sempre da padrona, trovando spazio fra le melodie create da lui.
Potrei parlarvi delle connessioni artistiche che il mio cervello (e il mio cuore) hanno subito messo in atto entrando in contatto con la voce di Helena Deland, ma la verità è che penso di aver ascoltato qualcosa di inedito e speciale. L'album d'esordio dell'artista canadese, preceduto da alcuni EP, era attesissimo per questo 2020 e non ci delude. La grafica elegante della cover di Someone New (Luminelle Recordings) , con lei ritratta senza troppe pretese nel suo maglione rosso e i capelli raccolti, ci introduce in questo mondo delicato formato da 13 pezzi che, pur piano piano, arrivano potentissimi a chi ascolta. C'è Pale, la mia preferita, Dog (qui concettualmente sento vibes di Soccer Mommy e la sua Your Dog, sì), Truth Nugget e Clown Neutral, testimoni di un linguaggio indie che si sposa perfettamente con i synth che riscaldano un po' tutte le tracce ma soprattutto brani come Comfort, Edge e Lylz, il primo singolo estratto. Insomma, è tutto così bello, non so come dirvelo.
*Non fare paragoni con Mac DeMarco, non fare paragoni con Mac DeMarco, non fare paragoni con Mac DeMarco*! Ok, forse è impossibile non paragonare il sorriso beffardo e il cappellino IDC di JW Francis alla nonchalance di Mac, ma lo faccio in buona fede, giuro, e al massimo per complimentarmi. Sarà questa la gioia simile di cui si parla nel titolo? (indubbiamente bello). Forse non è da lodare per l'innovazione, ma ricreando quei suoni Lo-Fi a cui non sappiamo resistere Jw Francis va sul sicuro e si lascia apprezzare; sarà per questo, sarà perchè mi sono innamorata di Gold. Rimane solo da capire, come dice Picasso, se "gli artisti mediocri imitano" e "i geni copiano", considerare anche che rimangono comunque degli artisti.
Lupin è un progetto in cui ci siamo imbattuti quasi per sbaglo, alla ricerca di talenti freschi nei meandr dell'internet. Poche informazioni a riguardo online, un paio di foto criptiche e l'annuncio di un imminente debut album in arrivo in Ottobre. Ma notando il coinvolgimento della magica Transgressve Records (Foals, Arlo Parks, SOPHIE, Flume, insomma roba buona per tutti i gusti) ci siamo incuriositi e fidati un po' della copertina. E anche l libro non è male! Con sole 8 tracce con una durata complessiva di mezz'ora spaccata, Luppen he messo in piedi una piccola, divertente gemma alt-pop davvero non male per essere agli inizi. La vena homemdade del progetto è evidente ma funzionale, con vocals super lo-fi unite a una produzione pulita e genuina, fra synth e drum machine dalla semplice complessità. E' chiaro come queso primo approccio di Luppen al publico sia il disco di un ragazzo e la musica che lo appassiona creata con le risorse limitate di ogni artista emergente, lavorando di creatività e stile per superare i mille ostacoli tecnicni della creazione di un disco. Per i fan del bedroom pop e dell'elettronica lo-fi, Lupin è uno di molti artisti alle prime armi su cui scommettere per il futuro.
Uno dei debutti più a sorpresa del 2020 è stato sicuramente quello di Maya Hawke, star di Hollywood e figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke. Nel 2019 l’abbiamo vista aggiungersi al cast di Stranger Things e apparire in C’era una volta a…Hollywood di Tarantino. Dopo aver sfondato le porte del piccolo e grande schermo, il suo debut Blush ha attirato l’attenzione anche di chi la tv non l’accende mai e ha confermato che la Hawke non è solo una promettente attrice, ma anche una stella nascente del cantautorato. Per apprezzare questo album bisogna andare oltre all’etichetta di figlia d’arte e concentrarsi sugli elementi chiave di Blush: la delicatezza, la carica emotiva dei testi e il vibe generale a metà tra il folk e le classiche ballate rock. Brani come Coverage e Goodbye Rocketship fanno fare un tuffo nel passato ad una scena di un film color seppia ambientata in Arizona, mentre Generous Heart e River Like You fanno venir voglia di prendere il taccuino per segnarsi ogni singolo verso. Sebbene sia ben lontano da un capolavoro rivoluzionario, il debut non poteva che uscire in questo 2020 martoriato: Blush è come un abbraccio dopo una giornata faticosa, da gustarsi in vinile accompagnato da un buon bicchiere di vino e una coperta calda.
Pane e chitarra acustica
Quello di Christian Lee Hutson è un nome che, probabilmente, risulterà sconosciuto ai più. In realtà ha già registrato due album da solista qualche anno fa, ma non sembrano essere attualmente disponibile su alcun servizio di streaming, proprio per questo Beginners, registrato presso i Sound City Studios di Los Angeles e pubblicato lo scorso 29 maggio, viene considerato il suo debut album. Si tratta di disco malinconico, raffinato e delicato, che esplora il dolore in tutte le sue sfaccettature. Un lavoro che diventa più ricco a ogni ascolto, imprescindibile per gli amanti dell'indie folk. Per convincervi a dargli una possibilità dovrebbe bastare sapere che la produzione è stata curata da nientepopodimeno che la nostra amatissima Phoebe Bridgers (con la quale ha già collaborato sia singolarmente, che insieme a Boygenius e Better Oblivion Community Center) e che, disseminate nel disco, si possono scovare le tracce di gente come Lucy Dacus e Conor Oberst.
Non è un caso che questo debut si collochi geograficamente fra Bristol e le grandi campagne inglesi. Con il suo Return, la cantautrice Katy ha sfornato un disco a metà fra il pop a cuor leggero della città e un country/folk che sembra venir trasportato da una fresca brezza di collina. Musicalmente non c'è un mondo da dire, le sonorità sono semplici, delicate - il disco ti accompagna per mano senza troppi sforzi o ragionamenti da inizio a fine senza troppe pretese. E' il potere evocativo di Return che si dimostra la sua carta vincente, ogni strofa e accordo sono una strada a senso unico verso il vostro happy place personale o la vostra banca dei ricordi, come nel caso della dolceamara Tonight, o della malinconica Beautiful Soul. Reunion è la trasposizione acustica del crescere in paese lontano dalla città, in un contesto vintage e beatamente spensierato. Può non fare per tutti certo, ma per chi vuole godersi un attimo di tranquillità musicale questo disco fa al caso vostro. E anche per chi vuole rivivere i propri momenti migliori passati lontano dal traffico, dalla metro e dai semafori per ritrovarsi momentaneamente altrove, all'interno di una vecchia foto scattata in analogico, qualsiasi sia il vostro panorama. Poi se siete nati a crescuti a Milano cosa vi devo dire figah.
Oldies al debutto
Ed pensava ancor prima dell'uscita di OK Computer a questo disco. Sono passati giusto una ventina d'anni affinché il "chitarrista" dei già acclamati Radiohead venisse allo scoperto. Earth concentra dentro di se nove tracce dove si lambiscono la musica rave, il folk e l'anternative rock. I brani sono stati scritti con la presenza alle spalle di ben due carnivali a Rio come si può intuire anche dal titolo Brasil - nonostante sia uno dei brani più rilassati e cerebrali dell'album grazie ai suoi sintetizzatori avvolgenti-, del buon vecchio rock in Shangri-La o Banksters e tante collaborazioni. La prima con la voce di Laura Marling nella chicca folk Cloack Of The Night per poi allargare la cerchia ai molteplici nomi illustri di musicisti e produttori che hanno collaborato alla riuscita del debut album di uno di quegli artisti che, si potrebbe definire, "della buon vecchia guardia". Ed era arrivato a dire che "l'ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è un album di merda fatto da me". E invece, per fortuna, ha trovato finalmente il coraggio e il tempo per mettere a punto Earth diventando così il quarto Radiohead a pubblicare un album solista, ora manca solo il ritmico Greenwood.
Se sei cresciuto a pane e indie britannico tra i tuoi punti di riferimento avrai sicuramente i Vaccines: accordi basici, canzoni corte, ritmi scanzonati e giovani perfetto per un indie party casereccio a base di birrette e pogo. Purtroppo però la patina di freschezza della band è appassita da un po' e anche loro con l'ultimo disco sembrano esserci incastrati in un impasse di ripetitività, un vano tentativo di duplicare i fasti del passato. Justin Young però non si è fermato a Combat Sports, si è tenuto impegnato scrivendo per altri e dando vita ad un side project in compagnia del batterista Tim Lanham (che a sua volta ha un altro side project solista T Truman): gli Halloweens. Il progetto a partire dalle grafiche ha un sapore bizzarro e vintage, colonne greche si intersecano a collage di gattini nelle copertine di Hannah, You're Amazing e My Baby Looks Good With Another, i due singoli che hanno anticipato il debut Morning Kiss At The Acropolis. Un titolo evocativo e romantico su cui campeggia la foto del duo con maglioncini a collo alto e basco, Truffaut ne sarebbe orgoglioso. L'aurea nostalgica e retrò pervade tutto l'album che si compone di ballatone perfetti per una serata velata dalla malinconia (vedesi Broken English o Ur Kinda Man) e pezzi leggeri da pomeriggio caldo e soleggiato (Rock Bottom Rock). Per qualche strano motivo questo disco mi fa venire immediatamente in mente una vacanza estiva in stile Moonrise Kingdom oppure un lungo viaggio su una crociera alla Love Boat con Justin Young, microfono alla mano alla vecchia maniera dei crooner e palco di festoni dorati, sul cartellone della residency. Il progetto è un'esperimento senza troppe pretese, che non si prende troppo sul serio, ma ciò che emerge è comunque la dote di Young nella scrittura, i testi sono concentrati di poesia pop,romantici e irreverenti allo stesso tempo, e con una forte carica immaginifica: «We DJed at the pizza shop / And just about survived the drop / But no one ordered rock and roll /With pineapple on top».
Ad un anno di distanza dall'ultima gemma regalataci dai National I Am Easy To Find, a diversi anni di distanza dall'album in coppia sotto lo pseudonimo di EL VY, il frontman veste finalmente i panni dell'artista solista e si mette in gioco con il suo debut Serpentine Prison. Ad un primo ascolto le dieci tracce sembrano i provini per un nuovo disco dei National, le idee preliminari scarabocchiate su un taccuino da Berninger e messe in atto in una sessione preliminare in studio. Ne sono esempi Silver Spring, un lento, un duetto, la voce di Berninger che fa eco e lascia egual spazio a quella già nota di Gail Ann Dorsey, oppure All For Nothing, con quelle note di piano iniziali che danno il via anche a England e quel finale decadente e maestoso dove si mescolano voci e archi in un connubio potente come quello di Venderlyle Crybaby Geeks. Ma l'aggiunta di fiati, una lap steel guitar tra una dichiarazione d'amore e l'altra oppure l'introduzione di un Hammond B3 anni '60 dona al disco una nota agrodolce ma raffinata, in un timbro dal sapore marcatamente americano. L'album sprofonda tra le radici del folk americano, quello tenero e pervaso costantemente da una sottile vena di tristezza, una forma semplice e senza troppi orpelli di cantautorato pervaso dalla voce di Matt, porto sicuro dove si potrà sempre attraccare.
La super band dei The Jaded Hearts Club è tornata per farci innamorare. Questa cover band d'eccezione è composto da Miles Kane dei Last Shadow Puppets e il frontman dei Jet Nic Cester alla voce, seguiti da Matt Bellamy dei Muse al basso e voce, Graham Coxon dei Blur e Jamie Davis (Transcopic Records) alla chitarra e Sean Payne (The Zutons) alla batteria. Niente male, vero? Nato per caso nel 2017 con il nome Dr. Pepper’s Jaded Hearts Club, questo curioso progetto musicale inizialmente aveva come unico obiettivo quello di suonare le canzoni dei Beatles. Ma dopo essersi trovati insieme sul palco quasi per gioco, però, i sei musicisti hanno deciso di portare avanti la loro passione comune per il rock'n'roll vecchio stile e la musica soul, continuando a esibirsi in occasione di eventi privati e di beneficenza. Nobody But Me è stato il primo singolo pubblicato e suonato in una rivisitazione in chiave più energica, decisa e rockeggiante del brano del 1962 degli Isley Brothers. E dopo qualche altro brano rilasciato viene pubblicato l'album You've Always Been There che conta cover come Money (That’s What I Want) dei Beatles, Reach out (I’ll be there) dei Four Tops e Have Love, Will Travel dei Sonics. Senza dimenticare I Put A Spell On You, accompagnata da un videoclip ispirato ai vecchi horror degli anni '20.
Chitarrine comeback
Accostata fin dagli esordi ai Killers, la band inglese pur affondando le proprie radici nei caratteri tipici dell'indie rock strizza fortemente l'occhio al pop ed è ormai uno dei prospetti più interessanti nel panorama inglese. Con canzoni dalla struttura classica che sfociano spesso in un ritornello esplosivo da stadio, i Sea Girls sono candidati ormai da un po' a rappresentare uno degli esempi maggiori dell'evoluzione contemporanea del britpop. Le canzoni sono frutto delle esperienze personali del cantante Henry Camamile che racconta dei suoi problemi di salute mentale, delle dipendenze e di amori finiti male, spesso rivolgendosi alle dirette interessate. Violet, Do You Really Wanna Know?, Violet e Shake sono le tre tracce che meglio rappresentano il percorso della band nel loro album di debutto tra un basso carico di groove, ritornelli dettati dai synth e un rock inaspettato cullano i testi introspettivi e malinconici al meglio. Il continuo destreggiarsi tra il rock anthem da stadio ed il pop diventa un carattere preponderante nella parte centrale del disco. Ascoltando i ritornelli esplosivi cresce la voglia di live ed è inevitabile lasciarsi cullare dall’immaginazione e da pensieri del tipo questa canzone non vedo l’ora di ascoltarla dal vivo cantandola a squarciagola.