08 febbraio 2022

“Un ricco non potrebbe mai scrivere il nostro album”: intervista agli Yard Act

In UK in questo periodo c'è grande fermento nei riguardi di una band emergente che ha tutte le carte in regola per andare alla ribalta e rimanerci: gli Yard Act. Un gruppo post-punk anti-capitalista con un forte senso dell'ironia, il cui leader James Smith è capace di creare e raccontare storie popolate di personaggi surreali. La band è nata durante la pandemia, e il disco d'esordio The Overload, uscito lo scorso 21 gennaio, è nato proprio dietro gli schermi di un computer, con i membri del gruppo a distanza per via del lockdown.

Ho raggiunto telefonicamente il frontman per farmi raccontare meglio questo album d'esordio e l'universo che si cela dietro a questa band. Ne è uscita fuori una chiacchierata che svaria dalla Brexit al conflitto generazionale, da Tom Waits a Kurt Vonnegut, grande influenza per Smith.

C’è stato un momento preciso in cui gli Yard Act sono nati?
Erano secoli che io e Ryan, il bassista, volevamo mettere su una band. Suonavamo entrambi in altri gruppi di Leeds quando siamo diventati amici. All’inizio questo sarebbe dovuto essere un side project, ma alla fine in poco tempo ha dato vita agli Yard Act come progetto full-time, perchè ci piaceva tantissimo e abbiamo avuto successo in tempi brevi. E quindi sì, la band è nata come bedroom project con un paio di date live nel 2020, e poi è esploso tutto. 

Com’è stato tirar su una band proprio nel bel mezzo di una pandemia?
È stato strano all’inizio, ma poi ci siamo abituati: non avevamo scelta. Potevamo mettere tutto in pausa e aspettare che il mondo tornasse alla normalità, oppure potevamo fare buon viso a cattiva sorte e vedere cosa succedeva. Abbiamo scritto un sacco di canzoni in remoto, e questo è stato un po’ quello che abbiamo fatto finché non abbiamo potuto suonare dal vivo. In questa fase non eravamo neanche una band, eravamo solo in due, e neanche suonavamo insieme nello stesso posto, ma registravamo le nostre parti separatamente a distanza. Ma è stato divertente, ci siamo potuti focalizzare esclusivamente sulla scrittura e composizione. Penso che stare con le cuffie su in camera mia invece che in una chiassosa sala prove  (e con Ryan in camera sua) mi abbia aiutato molto a concentrarmi e a ottenere un mio stile. Alla fine questa fase è stata un po’ un “making of”, anche se in realtà non era quello che avevamo programmato di fare quando abbiamo fondato la band. Questo periodo ci ha sicuramente plasmati.

Ti saresti mai immaginato tutto questo hype attorno a voi in così poco tempo?
No, non eravamo proprio pronti per tutto questo. Ma penso che in un certo senso ci abbia aiutato la pandemia, perché alla fine non potevamo uscire né fare nulla. E quindi siamo potuti rimanere con i piedi per terra e abbiamo avuto molto tempo per pensare alle nostre prossime mosse e prendere le decisioni giuste. È stato strano, col secondo singolo, in pratica, ogni mattina aprivamo la casella postale e ci ritrovavamo centinaia di email da parte di persone che ci facevano offerte. La gente era veramente entusiasta per le cose che stavamo facendo.

Avete cambiato in corsa il chitarrista. È stata dura per lui ambientarsi in fretta?
Conoscevamo Samuel da anni, e fra l’altro era anche venuto a vederci durante la nostra prima esibizione. Tempo dopo, quando era già entrato nella band, ci ha detto che aveva deciso che avrebbe fatto parte degli Yard Act proprio grazie a quel concerto. Penso che lui avesse già programmato nella sua testa che in qualche modo sarebbe riuscito a far parte della band, proprio perché ne era un grande fan. Quando abbiamo avuto bisogno di rimpiazzare il chitarrista, quindi, ci è venuto subito in mente lui. E così è entrato ufficialmente nel gruppo, ma di fatto per via del lockdown non lo abbiamo visto dal vivo per tre mesi, il che è una situazione molto strana per una band (ride). “Abbiamo bisogno di un nuovo chitarrista, ti va di unirti a noi?” “Certo, non vedo l’ora!” “Ottimo! Bene dai sei nella band allora, ma visto che siamo in lockdown ci vediamo fra tre mesi” [ride]. Comunque non gli abbiamo dovuto fare nessuna audizione e si è ambientato molto in fretta.

Sembra ci sia un nuovo rinascimento per il post-punk nel Regno Unito: IDLES, Fontaines D.C., Porridge Radio… Secondo te è una risposta a tutto quello di negativo che sta succedendo nel mondo?
Penso che per molte band la possibilità di esprimersi sia una cosa davvero catartica. Si tratta di riuscire a sfogare la propria frustrazione in musica. È davvero un mondo strano quello di oggi. Sembra che le cose stiano diventando sempre più difficili di anno in anno, specialmente qui nel Regno Unito. La maggior parte della gente creativa, la maggior parte dei giovani è contro quello che il governo sta facendo, è contro la Brexit, e sentono che la loro voce rimane inascoltata. E quindi la musica, come l’arte in generale, rimane il posto dove potersi esprimere. È un bene che le band si formino per questo motivo e facciano in modo che le loro voci vengano ascoltate. E che le loro idee circolino. Penso che adesso ci stiamo avviando verso una seconda fase di revival post-punk: la prima ondata c’è stata 5-6 anni fa e ora c’è la seconda, che include anche la nostra band e che sviluppa le idee della prima: siamo sempre arrabbiati e frustrati e contro il governo, ma ora le idee si stanno sviluppando verso qualcosa di più complesso. Ed è quello che noi come Yard Act proviamo a fare, capire dove stiamo andando prima di tutto come Nazione e poi come Pianeta.

Il vostro album è molto politicizzato. Pensi sarebbe possibile per un artista già ricco e famoso scrivere una cosa del genere?
Non penso che qualcuno di ricco potrebbe scrivere un album come questo [ride]. Penso di essere a un giro di boa nella mia vita: ho 30 anni, e penso di non essere vecchio, ma nemmeno giovane. Sono in questo punto dove la realtà ti colpisce e provare a estraniarti da essa non funziona. Anche se le cose che ti circondano non piacciono, non riesci a cambiarle. Non vuoi far parte del sistema per il quale hai sempre pagato, ma ci sei dentro. Non voglio contribuire al capitalismo. L’album descrive in qualche modo tutto questo. Penso che i giovani abbiano le energie e le idee e andrebbero ascoltati molto di più di quanto accada. Ma dall’altro lato, con l’età arriva anche la saggezza e ci sono molte voci più anziane che hanno ancora molto da dire. Al momento io sono in una sorta di purgatorio: non sono nessuna delle due cose, ma sono più vicino all’essere vecchio che all’essere giovane. Spero di far parte anch’io delle sagge voci anziane quando sarò vecchio! [ride] Ma se diventerò davvero ricco con questo album, starò zitto e mi ritirerò sulla mia isola privata. [ride].

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Come ci si sente a far uscire il proprio album d’esordio sulla propria etichetta discografica ?
Abbiamo fondato l’etichetta durante il lockdown, perchè era l’unico modo per pubblicare le nostre canzoni e perchè avevamo molto tempo per lavorarci. Ma dopo il secondo singolo eravamo in un punto in cui non riuscivamo fisicamente a gestire contemporaneamente sia l’etichetta che la band e quindi abbiamo rallentato, perché non volevamo perdere l’etichetta visto che era parte della nostra storia. Ad ogni modo non posso dire molto, ma quest’anno inizieremo a pubblicare anche altri artisti tramite l’etichetta, ed il primo singolo non-Yard Act uscirà prossimamente sulla Zen F.C. e ne sono veramente super emozionato. Utilizzeremo quest’etichetta per pubblicare musica che amiamo veramente. Sai, ho sempre amato le etichette indipendenti e la loro cultura: ogni volta che esce un libro che parla di un’etichetta indipendente lo compro. L’ultimo che ho letto era sulla storia della Heavenly Records. 

Land of the Blind cita direttamente Tom Waits. Nella tua interpretazione chi è il re del paese dei ciechi?
Wow! Da dove hai riconosciuto la citazione di Tom Waits? Sei un suo fan? No perchè l’ho citato giusto in un’intervista qualche giorno fa, e mi ero pure dimenticato da dove avessi preso quel verso, non mi ricordavo fosse di Tom Waits. Quando l’ho scritto, ricordavo fosse di qualcun altro ma non riuscivo a ricordare chi, e poi durante l’intervista dell’altro giorno mi sono ricordato, quando il giornalista mi aveva chiesto se fosse una citazione biblica. E io non ho mai letto la Bibbia. Poi ho realizzato: “Ah, ma è tratta da Singapore di Tom Waits!”. E quindi chi è per me il re nel paese dei ciechi? Eh bella domanda… sicuramente l’orbo! [ride] Quel verso per me è una metafora sul non sapere più riflettere davvero sulle cose che stiamo guardando. Riguarda internet, riguarda tutti noi che fissiamo i nostri cellulari, consumiamo news, e siamo sempre alla ricerca di un nuovo articolo, ancor prima di finire di leggere quello che avevamo appena iniziato. Abbiamo sempre un occhio puntato sul contenuto, ma non leggiamo davvero, scrolliamo le immagini e i testi in modo automatizzato, senza renderci conto. 

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Qual é il brano del disco che meglio vi rappresenta?
Probabilmente direi Tall Poppies: è una canzone che racconta una storia che non ha risposte e quindi rappresenta in qualche modo tutto ciò che sono gli Yard Act.

Ci sono influenze extra-musicali (cinema, letteratura, ecc.) che ti hanno aiutato nella scrittura?
Kurt Vonnegut ha avuto una grande influenza sulla mia vita, in particolare La colazione dei campioni.  Mi piace il modo in cui si rivolge direttamente al lettore e come metta se stesso nelle proprie storie. Il modo in cui scrive i libri ha influenzato il mio modo di scrivere le canzoni. Quindi Vonnegut è sicuramente una mia influenza non-musicale. E poi… mi piacciono i documentari stile Planets della BBC con Brian Cox, non so se siano arrivati da voi in Italia. Adesso c’è una nuova serie che si chiama The Universe che è assurda. Non riesco a capire benissimo la scienza ad un livello avanzato, ma mi piace guardare documentari scientifici riguardo a Terra e l’Universo. Siamo così piccoli dopotutto.

Avete in programma di venire a suonare in Italia prossimamente?
Sì! Al momento siamo in trattativa per alcune date in Italia (fra cui Milano) per la prossima estate.