17 ottobre 2022

"Per far suonare forte una cosa, la devi suonare piano": intervista a Emma Nolde

Con Emma Nolde ci eravamo già presentati in pieno luglio pandemico. Erano altre condizioni di vita (c'è proprio da dirlo e sottolinearlo), i concerti stentavano a partire, si stava tutti con la mascherina anche all'aperto e i live si passavano da seduti. Un altro mondo. Come di un altro universo è Dormi rispetto a Toccaterra. Due dischi incredibilmente vicini cronologicamente, ma emozionalmente distanti tra loro: diverse sensazioni, emozioni, volontà. La continuità (e ne abbiamo parlato ampiamente in questa chiacchierata) è lo stare con gli occhi chiusi, per analizzare se stessi, il proprio io, restando concentrati, come Emma nella cover dell'album. Se per Toccaterra abbiamo infranto il muro della realtà per sentirci vivi, con Dormi abbiamo fatto risuonare forte le nostre intenzioni, suonandole... piano. Forse ossimoricamente, Emma Nolde è diventata grande, sotto l'ala protettrice di Motta, non sbaglia un colpo e il disco si candida ed essere una possibile definizione del significato di "pieno", che si alterna a situazioni in cui il "vuoto" (anche musicale) la fa da padrone.
Ora luci soffuse, come quelle d'apertura di un concerto e della sensazioni che ti lascia l'inizio del nuovo, secondo, disco di Emma Nolde.
L'intervista può cominciare.

Senti ma, partiamo con un dubbio: alla fine a Berlino ci sei stata?

No, ma quella sarà la meta finale. Della vita. Non è arrivato ancora il momento propizio, non ci posso andare adesso. Magari mi ci trasferirò.

Avevi delle ensamble spesso diverse nei tuoi live: questa cosa l’ha rispettata anche nel tour di presentazione dei due nuovi singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album?

Adesso abbiamo trovato una forma stabile che useremo per i live di questo inverno. Prima giravano un po’ i turnisti, ma il fulcro comunque rimaneva lo stesso: la batteria, ad esempio, era sempre presente. A volte magari veniva un trombettista o un violoncellista, però per Dormi abbiamo una formazione fissa: chitarra, basso, sax, batteria, violoncello e piano. Portiamo quindi una cosa più strutturata anche a livello di scaletta: prima avevamo soltanto 8 pezzi, adesso una ventina (con cose extra). Abbiamo messo su una cosa più solida, narrativa, che nel tour di Toccaterra volevo fare, ma era di difficile realizzazione.

La cover del secondo album è per certi versi un po’ una ripresa del primo?

Assolutamente sì. Per prima cosa in entrambe le copertine ho gli occhi chiusi. In Toccaterra ho della terra attorno, mentre in Dormi sono sulla bocca di un vulcano, quindi in entrambi i casi c’è un elemento centrale che mi circonda. La mia idea è quella di voler fare una cover con gli occhi aperti, ma in questo album qui non ho per nulla gli occhi aperti. È molto introspettivo, dico cose in cui faccio fatica a dire alla persona in questione e mi riguarda molto da dentro. 

Mi parlavi, nella chiacchierata che ci eravamo fatti un anno e mezzo fa, di “collection of canzoni” per Toccaterra. Anche per Dormi è stato così?

Per Dormi nelle sonorità potresti pensare ad una cosa simile, ma ci sono grandi differenze tra i due lavori. Inizialmente pensavo proprio di voler fare un concept a partire dalla tracklist, ma musicalmente suonava peggio e allora non abbiamo proseguito su questa strada. Il concetto magari poteva passare solo nella mia testa e sarebbe stato rischioso. Un concept, che parte dal chiuso e arriva alla fine che è un’apertura verso l’altro e se stessi, ma ho preferito far passare questo messaggio più dal punto di vista sonoro.

Ho notato più attenzione sui suoni e sperimentazione: il team di produzione e missaggio è cambiato? Quali sono le scelte magari differenti di impostazione del disco che hai cambiato da Toccaterra?

Eravamo molto più improntati nel togliere che nel riempire, a differenza di quanto accaduto in Toccaterra. Questo inizialmente a me faceva molta paura, ma la regola non scritta della musica in studio è che se togli e lasci elementi ben definiti lì per lì può sembrare meno impattante, ma quando poi sei nella fase del mastering e mixing si nota tutta la differenza. Quel basso, quella voce, quello specifico strumento o arrangiamento, magari, esce più nettamente. Poi ovviamente la mia voce in Toccaterra è stata registrata con un tri-traccia che creava un effetto triplo che la toglieva dall’“essere in faccia”, cosa che invece è accaduta con Dormi, in cui c’è una sola traccia audio. Un po’ meno compulsivi nell’aggiungere, quindi ci facevamo sempre la domanda: “Davvero serve?”, “Davvero è utile nell’economia del disco?”. Perché se vuoi far suonare forte una cosa, paradossalmente, la devi suonare piano. È un’idea contro-intuitiva, ma penso che se ci ragioniamo su, sia vero.

Sei d’accordo con chi dice che il secondo album sia più complesso da realizzare rispetto al primo? Secondo te, perché?

Dipende da che primo album fai. Per me non è stato così difficile. Se l’uscita del primo ha un successo clamoroso e fai delle hit clamorose, allora sì che c’è un’aspettativa così alta per il secondo, che però spesso viene disattesa perché poi la palla passa all’artista o gruppo musicale che spesso stravolge o cambia indirizzo, linea, genere tra un album e l’altro, spiazzando gli ascoltatori. Nel mio caso, comunque, questo non c’è stato, penso di aver fatto un disco molto bello con Toccaterra, ma per il secondo ho avuto una grande libertà e poca pressione che mi hanno permesso di dare il meglio con Dormi. La pressione spesso è negativa, perché magari non indirizzi bene il progetto e la forma che vuoi dargli e posso reputarmi fortunata perché ho avuto sia tempo che libertà, due elementi, per me, fondamentali. 

Mi parli un po' di come è organizzata la tracklist...

Gioca un po’ sui contrasti. Inizi l’album e pensi a tematiche molto soffuse, cupe e poi c’è Voci Stonate con un cantato molto più duro. Poi c’è La stessa parte della luna che vorrei arrivasse diretta. È molto poco poetica la tracklist, cerchi di mettere il fulcro nei primi 3-4 pezzi, per far ascoltare in un ordine musicale l’organizzazione della scaletta del disco. 

Quindi sei anche d’accordo un po’ con Adele che non ha inserito lo skip casuale su Spotify per far ascoltare il suo nuovo album…

Sì, sono d’accordissimo con la mia amica Adele… (ride, ndr.)

La chiusa dell'album è con una versione live in studio di Ti Prometterei: come mai questa scelta?

È nata che stavamo registrando le batterie allo Studio Nero a Roma. Era fine giornata, non ce la facevo più, poi era una di quelle giornate infinite in studio in cui non si cavava nulla e allora con Francesco abbiamo fatto un voce e piano di Ti Prometterei. Io ero veramente distrutta, quindi, almeno inizialmente, sembrava la cosa più crudele che qualcuno potesse dirmi. Capita, comunque, che c’era Alberto Camanni con il quale sto collaborando per delle visual e ci siamo ritrovati poi il video e la traccia di Ti Prometterei di quel momento lì. Non la provavo da quasi tre mesi e si crea una storia che si merita di essere presente lì, nuda e cruda, come ultimo pezzo. 

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Te ne sei andata per ballare è la canzone che mi ha colpito più di tutte. Ho letto che parla di tua sorella: che rapporto hai avuto e hai oggi con lei? Quanto è stata importante per la tua carriera musicale?

Anche per me è il pezzo al quale sono più legata. L’ho terminato di scrivere con Francesco (Motta, ndr.) in studio ed è stato fatto in modo più corale. Mia sorella è andata via a 13 anni di casa proprio per ballare e l'ho sempre avuta molto vicina poiché abitavamo in campagna, un po’ isolate. Quando se n’è andata e poi dopo diversi mesi ci tornava a trovare, aveva perso l’accento toscano, i gesti, il suo modo di comportarsi poiché ti fuorvia, ti cambia, ha un impatto su di te la danza classica. Però poi negli anni abbiamo trovato un nostro equilibrio trovato negli anni. Avevo voglia di scrivere una canzone che ci riportasse un po’ indietro, a quello che eravamo prima di quei grandi cambiamenti. Quando non c’era tempo, potevamo stare nella via di casa nostra. L’idea è quella di ricordarle da dove veniamo e cosa siamo diventate ora con un punto di vista e degli occhi da bambine.

Ph. Marco Providi