Sono cambiate molte cose dal 2019 per i Gilla Band. La prima volta che ve ne avevamo parlato si chiamavano Girl Band e ci avevano sconvolto per la crudezza del rumore e le distorsioni vertiginose. Tre anni dopo li ritroviamo con un nome nuovo e un album che a dispetto del titolo, Most Normal, suona in maniera unica. La stanza mentale claustrofobica di Dara Kiely, tinta di verde nel precedente The Talkies (2019), non è più impermeabile e dalle finestre filtrano, seppur labili, brevi melodiche boccate d’ossigeno.
Nel nuovo disco, come sembra voler spiegare l'artwork in bianco e nero con quella figura umana che spicca su uno sfondo di assi di legno irregolari, proprio dalle differenze nascono simmetrie inaspettate. Sia a livello lirico, con l’ormai stile inconfondibile di scrittura che oscilla continuamente tra serio e ironico, tra personale e universale; sia a livello musicale, con influenze provenienti da mondi che mai ci si sarebbe aspettati e che si insinuano alla perfezione tra i banchi di nebbia distorta. A Dublino, grazie ai Gilla Band, qualsiasi trincea mentale può trasformarsi in rumore creativo, talvolta anche sorprendentemente danzereccio.
La pandemia ha allungato i tempi e ha stimolato la creatività della band irlandese che, per quasi due anni, ha lavorato e registrato nella capitale. E a quanto pare continua a farlo, dato che il bassista Daniel Fox ci raggiunge su Zoom in tarda serata proprio dallo studio.
Come stai vivendo l’uscita dell’album?
È sempre divertente quando, appena finito il disco, nessuno può ascoltarlo e quasi te ne dimentichi. Poi due mesi dopo, quando esce, inizi a ricevere i primi feedback, ti rendi conto di averlo completato e ti ricordi di averlo effettivamente registrato. Sono contento, sembra che alla gente stia piacendo.
Questo è per voi una sorta di primo album, almeno per quanto riguarda il nome Gilla Band. Come è stato prendere una decisione così complicata, non avevate paura di perdere parte del vostro seguito o di disorientarlo?
Ci sono molti aspetti da prendere in considerazione quando compi una scelta del genere. Noi volevamo semplicemente cambiare nome e l’abbiamo fatto, senza preoccuparci del fatto che qualcuno dei nostri fan avrebbe potuto cambiare idea nei nostri confronti per questa decisione. Cambiare nome d’altronde non ha avuto alcun effetto sulla nostra musica, non ha influenzato il nostro modo di suonare.
In fin dei conti siamo felici e convinti della scelta fatta e una delle cose più interessanti e divertenti è stata, ora che ci penso, proprio la lista di persone che su internet ci davano delle teste di cazzo per averlo fatto (ride n.d.r).
Most Normal, anche per via della pandemia, vi è costato quasi due anni di lavoro. Quale è stata l’evoluzione di questo terzo disco?
Alla fine del 2019 noi eravamo in tour per The Talkies e le date sono durate fino al marzo del 2020, quando siamo tornati ognuno a casa propria per il primo lockdown. Non ci siamo visti per un paio di mesi e nel frattempo non abbiamo nemmeno scritto nulla. Quindi, probabilmente l’inizio dei lavori sul disco risale più o meno alla fine dell’estate del 2020, quando ci siamo ritrovati per suonare. Sapevamo che non avremmo potuto fare concerti per un bel po’, così i primi tempi improvvisavamo e suonavamo senza nulla di particolare in mente. C’è anche da dire che non c’erano molti posti aperti in cui andare in quel momento, i bar e i locali erano chiusi, per cui suonare era l’unico modo per socializzare e stare in compagnia. Lo ricordo come un periodo molto piacevole e appassionante, al termine del quale ci siamo ritrovati con un sacco di materiale grezzo. La registrazione e il perfezionamento delle tracce poi sono stati molto lenti, abbiamo lavorato con calma, anche perché la deadline per la realizzazione del disco continuava ad essere spostata sempre più in là. Non abbiamo avuto pressione o fretta e questo ci ha reso liberi.
Di cosa parla Most Normal, come lo descriveresti?
Se devo fare riferimento ai testi, sicuramente molti di essi hanno a che fare con le sensazioni personali di Dara; tuttavia, è difficile circoscrivere una tematica ben precisa. Ci sono riferimenti alla vita quotidiana, ma anche cose più astratte.
Ascoltando l’album si sente il lavoro dettagliato che c’è dietro e si percepisce anche la voglia di provare nuove soluzioni. Per cui mi viene da chiederti, quando scrivete o suonate, seguite l’istinto o avete in mente una mappa?
Direi che abbiamo un approccio più istintivo. Qualche volta ci capita di avere una qualche idea riguardo al modo di eseguire la canzone, a un particolare suono che vogliamo ottenere oppure alla direzione finale che vogliamo intraprendere, poi però non è detto che ciò avvenga. Talvolta si segue la linea dettata, ma in altri casi succede che vieni “distratto” da ciò che ti circonda e allora prendi una via totalmente diversa da quella prefissata in precedenza. Va bene provare cose nuove - devi provarle - ma alla fine devi fare ciò che senti che funziona, quello che ti fa stare bene.
La prima cosa che colpisce delle nuove canzoni è la direzione che date al rumore. Nell’utilizzo dei pedali e degli effetti di chitarra e basso ho notato delle influenze inedite, quasi dance floor o persino vicine al mondo hip pop.
La cosa principale che ci ha guidati in questo lavoro è stata la volontà di creare qualcosa di completamente diverso dall’ultimo album. The Talkies era complicato, strano, pieno di curve, questo nuovo disco invece volevamo che fosse molto più diretto. Ovviamente sempre con una produzione pesante, ma con canzoni e suoni più definiti che andassero dritti al punto. Questa scelta naturalmente ci ha condotti verso strade molto differenti tra loro.
A proposito di risultare diretti, c’è la questione della melodia. Qui più presente rispetto al passato, sebbene nella maggior parte dei casi venga poi soffocata dal rumore. Quale è il vostro rapporto con essa e come ne calibrate l’utilizzo?
Noi sicuramente proviamo ad avere una melodia. Qualche volta ci sfugge via dalle mani senza volerlo, anche se spesso proviamo a crearne alcune più catchy in mezzo al rumore. Ma nella maggior parte dei casi veniamo attratti dal giocare un po’ troppo con essa (ride n.d.r).
Una delle tracce più interessanti è The Weirds, soprattutto per il suo incipit strumentale che ricorda le colonne sonore dei film di Jordan Peele.
Molto bravo lui, anche se non ho ancora recuperato il suo ultimo film (Nope n.d.r.).
Noi amiamo tantissimo quel tipo di colonne sonore dove tutto è molto distorto. Mi ha colpito molto quella di The Lighthouse di Robert Eggers - credo sia stato l’ultimo che ho visto al cinema prima del Covid – dove all’improvviso, in alcuni momenti, senti questi rumori molto forti e inumani che nel contesto del film, con i suoi dialoghi in spiaggia, non ti aspetteresti mai. Per un istante mi sembrava quasi che si fossero rotte le casse della sala, è stato divertente.
The Weirds parla tra le altre cose del sentirsi strani e diversi in un contest dominato dalla normalità. Il che riflette in parte il titolo dell’album.
Per certi versi sì, anche se non so se fosse effettivamente questa l’intenzione iniziale. Io penso più che altro che al giorno d’oggi non abbia senso dare una definizione di normalità. È una cosa soggettiva: se parli con due persone che abitano a cinque minuti di strada di distanza, queste potrebbero descriverti due mondi completamente opposti. Basta guardare il mondo che ci circonda per capire che è una follia tentare di definire una “normalità”
The Talkies era un album incentrato sulla salute mentale, pieno di flussi di coscienza attraverso cui Dara ha raccontato e descritto la sua situazione personale e il suo processo di guarigione. In questo nuovo album, l’ultima canzone Post Ryan sembra trattare certe tematiche.
Post Ryan è una canzone dove Dara esprime tutto se stesso, parla del suo mondo e della sua vita. È una canzone che rispecchia quell’obiettivo che ci siamo prefissati di risultare più diretti, una delle tracce dove lui lascia trasparire maggiormente il suo lato personale, anche se talvolta nel testo fa riferimento a cose astratte. Abbiamo lavorato molto tempo su questa canzone e, se non ricordo male, la prima versione del testo era molto sciocca, meno seria. Quando invece Dara è tornato con le nuove strofe era molto nervoso, perché sapeva di aver messo il suo cuore in quei versi. È stato molto coraggioso. È una cosa molto difficile, se toccasse a me, non avrei il coraggio di farlo. Sono grato di non doverlo fare (ride n.d.r).
In Italia parlare di salute mentale in alcuni contesti è ancora complicato. In Irlanda com’è la situazione?
È certamente migliorata rispetto a quando eravamo adolescenti, parlare di certe tematiche sta diventando normale. Sempre più persone trovano il coraggio di chiedere aiuto. Penso che sia un punto di partenza importante.
Pensi che la musica possa aiutare a cambiare l’attitudine che le persone hanno nei confronti di queste tematiche?
Credo che ogni forma di cultura possa tornare utile e avere un’influenza. Attraverso la musica, per esempio, puoi renderti conto che ci sono altre persone che hanno vissuto la tua stessa esperienza.
Negli ultimi anni molte band post-punk, o simili, sono nate intorno a Dublino. Mi vengono in mente The Murder Capital, Pillow Queens e Fontaines D.C.. Può essere considerata come la nascita di un vero e proprio movimento? Quale è il rapporto tra voi, immagino vi conosciate.
Sì, l’Irlanda è un paese piccolo, per cui ci siamo conosciuti quasi immediatamente, è impossibile non incontrarsi. Ora i Fontaines e i Murder Capital si sono trasferiti a Londra, ma prima con tutte queste band che hai nominato condividevamo l’edifico della sala prove. Suonavamo tutti nello stesso palazzo, spesso nello stesso momento. Nel nostro Paese non ci sono molti luoghi disponibili per provare e registrare, per cui talvolta diventa un po’ problematico (ride n.d.r). Tuttavia, non credo si possa definire come un movimento, siamo band diverse.
Hai fatto riferimento al fatto che alcune di queste band si siano trasferite a Londra. In Skinty Fia I Fontaines D.C. hanno parlato della difficoltà di fare musica rimanendo in Irlanda, oltre che del loro dispiacere per essersene dovuti andare. Voi invece siete rimasti a Dublino per registrare. Quindi, è veramente difficile emergere a livello musicale in Irlanda?
Io credo che dipenda più da ciò che tu, come band, desideri. Personalmente non penso che serva per forza spostarsi in un luogo più grande, come può essere Londra, anzi qualche volta non è neppure così semplice. Trasferirsi in Inghilterra o in un’altra parte d’Europa vuol dire fare un lungo viaggio, porta via tempo e soldi. A Londra, per esempio, il costo della vita è molto alto. C’è anche da dire però che forse l’idea di partire e lasciare il Paese per andare in Inghilterra o in America è qualcosa insito nel carattere degli irlandesi. È una storia che si ripete da sempre, per cui capisco perché lo desiderino. Ma noi no, preferiamo restare. Mi piace l’Irlanda anche se è lontana dall’essere un paese perfetto. D’altronde ogni posto ha i suoi pro e i suoi contro, no?
I Gilla Band saranno live in Italia a novembre:
mercoledì 16 novembre - Arci Biko, Milano, biglietti disponibili qui