La storia di venticinque anni di vita condensate in nove tracce, dal retrogusto più amaro che dolce.
Un disco sperimentale, brutale, vero.
Vieri Cervelli Montel, con I [primo], si prende tutti i rischi nel pubblicare un album concept, che è un'autobiografia dolorosa ma anche una nuova rinascita.
È un disco che non può essere ascoltato alla leggera, poiché non va giù, se non dopo che è stato metabolizzato più e più volte. Per ascoltarlo serve tempo, molto più della durata effettiva del disco.
Il viaggio è appena cominciato e siamo stati veramente onorati di aver fatto una bella e lunga chiacchierata con l'artista.
Come mai la scelta di pubblicare un solo singolo prima dell’uscita effettiva dell’album?
In realtà non avrei voluto pubblicare alcun singolo. Il disco per me ha una storia omogenea, sia sul piano narrativo-letterario che musicalmente e meta-narrativamente che mi addolora un po’ separare. Le tracce, per quanto siano collegate tutte, dall’inizio alla fine, in un unico movimento musicale, sono pensate anche per poter essere divise, ognuna senza le altre. Ad ogni modo, estrarre un singolo è comunque sempre un’operazione un po’ violenta.
Il tuo feed di Instagram è particolarmente curato: qual è il tuo rapporto con i social?
Ho un rapporto di convivenza pacifica, diciamo, di rispetto ma con delle regole apparentemente strette. Li uso e cerco di curarli e di dare una comunicazione e un’immagine che mi facciano stare a mio agio. Attraverso questi canali, ti comunico soltanto ciò che faccio e se ti interessa sono contento, ma non la vedo mai come una cosa che ti devo vendere.
Mi piace molto curare le mie stesse grafiche e mi piace avere un’immagine veicolata attraverso materiale grafico, anche se ritengo che la musica sia principalmente un’arte uditiva.
In sintesi, mi piace molto che ognuno possa dire la propria, ma personalmente li utilizzo in maniera classica, “vecchio stampo”.
Adesso, però, mi hai incuriosito: quindi sei anche grafico?
Sì, ma non soltanto per la musica... però nell'universo musicale ho fatto vari packaging e copertine: dagli Off Clouds a Ernst Reijseger…
Sempre parlando di artwork: cosa rappresenta la copertina?
È l’ennesima e ultima dopo anni di prove. Ci sono un sacco di piani e letture che do, così come nella musica e nel progetto grafico tutto. Ogni singolo dettaglio per me ha significato. Ogni parola, ogni movimento… non significa che questo rapporto di causa-effetto deve essere palese e chiaro, però è un mio modo di creare e sovrainterpretare. Non amo tanto spiegare le cose, ma alcune letture sono abbastanza facili da spiegare anche soltanto ascoltando il disco.
Com’è stato collaborare con Iosonouncane per Primo?
Molto bello e illuminante. Jacopo è intervenuto in una fase del disco in cui i brani erano già tutti terminati (un pezzo non esce dalla mia stanza se non è finito: parole, armonia, melodia) ma questo non significa che non ci si possa rimettere su le mani. Già avevo abbandonato il “delirio” in cui pensavo per due anni di poterlo autoprodurre. Con Jacopo non eravamo sicuri di uscire proprio con un disco… insomma lui quantitativamente non ha fatto tanto. Ma ha fatto delle singole cose che insieme hanno avuto una potenza clamorosa: ha questo dono di essere estremamente chirurgico. Trova quel mattoncino che, se spostato, cambia l’equilibrio di scrittura e fa nascere nuovi livelli. È sicuramente un punto di riferimento prezioso e sicuramente il suo talento specifico è questo.
Primo, credo, non solo cronologicamente come primo album. Ma c’è qualcos’altro di nuovo in quest’album? A primo impatto, il tuo primo rapporto vero con la musica? La tua prima volta in cui fai sentire veramente ciò che hai da dire?
È la prima volta musicalmente parlando, è tautologico, certo. Primo è il titolo dell’ultimo brano che ha a sua volta un rapporto particolare con ultimo e la scaletta tutta. Con la concezione della narrazione ciclica, una scelta precisa in un disco che parla principalmente di morte. Primo è riferita anche al primogenito: per me è sicuramente la prima volta che faccio qualcosa di così totalizzante per me stesso. Subliminalmente ci ho passato 25 anni della mia vita e non soltanto i cinque della produzione per immagazzinare, processare, a far fermentare e macerare le cose.
Hai anticipato con un concerto a Firenze l’uscita di quest’album: dovremmo aspettarci qualcosa per quest’estate?
Sì, il progetto è quello di lavorare al tour. Ho molta voglia di suonare, ma non posso dire molto altro. Mi piace molto suonare costantemente con varie formazioni diverse: i brani sono quelli e ogni volta acquisiscono vita nuova.
Sei la prima uscita per Tanca Records: perché l’hai scelta come etichetta?
Mi ha scelto, in realtà. Non so da quanto tempo Jacopo covasse di realizzare la sua etichetta, però è successo che noi ci trovassimo e collaborassimo, prima che questa idea e disco prendesse forma concreta. Dunque mi ha raccontato di Tanca, l’ho trovata un’idea fantastica e, a proposito di primo, abbiamo pensato fosse bello essere la… prima uscita dell’etichetta.
C’è qualche influenza non musicale in questo album?
In letteratura ci sono sicuramente. Anche solo nell’estetica e nel senso di formulare i versi… molte di queste influenze le ho ricevute dopo, successivamente ai brani. Riguardo ai testi, l’approccio è stato quello di esprimermi con parole semplici, da bambino.
L’influenza principale, è antropologica: quasi come il madrigale, la musica e le parole sono intimamente legate e non sono separabili: la melodia rispecchia le liriche e viceversa. Mi è successo spesso, scrivendo il disco, di avere la necessità di spezzare i versi in due e di iniziare a fare sorgere la frase, lasciarla sospesa e poi chiuderla, dando un’enorme importanza a ciò che veniva detto in chiusura. Completano o spiazzano, come un particolare tipo di musica tradizionale sarda: la cantattadjia. Questo canto in cui c’è una voce solista che si alza, come l’uccello in volo, dopo una certa sospensione, l’uccello stesso fa la calata e si riposa assieme al coro.
Ecco, questa è un’influenza importante, anche se l’ho realizzato molto tempo dopo.
Alcuni brani sposano alla perfezione un po’ il rumorismo, un po’ il progressive e creano un miscuglio unico: in che maniera registri in studio siccome alcuni brani sono decisamente lunghi e carichi di sonorità?
Ti dico: solo parlando di studi, abbiamo registrato in tre studi diversi, in periodi diversi. Un’eterogeneità completa. Inoltre, Alessandro Mazzieri, il co-produttore dell’album, ha registrato qualcosa per conto suo ad Amsterdam, dove vive. I luoghi e i modi sono diversi, ma il concetto è abbastanza semplice: suonare i brani dal vivo e poi prendere le tracce ed elaborarle, distruggerle, rimontarle. C’è molto questo approccio di fare qualcosa di vero e poi lavorarlo tramite macchine preparate.
In scale c’è il refrain “chiamo, ma non mi sentono…”: questa incomunicabilità è da riferirsi ad un evento realmente accaduto oppure più un tuo dissidio interiore in cui la presenza degli altri, a volte, con una visione un po à la Sartre, può essere opprimente?
È l’espressione di un reale sogno ricorrente che io facevo da piccolo ed è spiegato in maniera abbastanza didascalica nel brano. Mancavano scalini, pianerottoli e io dovevo stare attento a non cadere. Questo sogno simboleggia la perfezione delle paure, dei traumi e trascorsi della mia vita. Quella ripetizione è l’espressione di un’impossibilità di comunicare, farsi sentire, ricevere aiuto, conferme. O anche solo di farsi ascoltare realmente con gli occhi di un bambino.
alba, come più esplicitamente tutta la seconda parte dell’album, è uno dei brani più intimi: come mai la scelta di volerlo cantare con quello che mi pare essere un vocoder? Volevi estraniarti dal racconto pur essendo uno dei protagonisti?
È un autotune impostato su una nota sola. Una sorta di strano mantra.
Volevi estraniarti dal racconto pur essendo uno dei protagonisti?
Il trattamento della voce nel disco tutto e nell’approccio vocale esecutivo di alba ha un significato preciso. È un approccio estremamente doloroso, robotico e algido, distaccato più che disperato, vent’anni dopo ciò che è accaduto. Rappresenta un certo grado di emozione che esprimo: la mia vita ha oscillato tra presenza mentale dolorosa e lacerante e malsana atarassia in cui sei assente, come una difesa. Non c’è dolore e nemmeno gioia.