Pubblicare un disco a distanza di poco più di 18 mesi dall'album di debutto può essere un grosso rischio e non tutti sono disposti a correrlo: non è il caso di Ibisco e del suo ultimo album Languore, nato da un'esigenza viscerale di completare il discorso aperto con Nowhere Emilia, un disco in grado di definire il soundscape in cui la sua storia è ambientata e richiamare una scenografia fatta di un orizzonte piatto e nascosto dietro la fitta nebbia emiliana. Dal canto suo Languore sancisce definitivamente la caratura di Ibisco, con nuove sfumature stilistiche e una forte identità. Una chiusura del cerchio e un'opera prodotta velocemente, con la naturalezza e la ferocia di chi ha voglia di consacrarsi e comunicare all'ascoltatore il proprio messaggio attraverso testi sinceri e ricercati accompagnati da un concentrato di new-wave e di post-punk.
Il Filippo Giglio che abbiamo incontrato in Bolognina (e dove sennò), uno dei quartieri più vibranti e attivi sotto ogni punto di vista del capoluogo emiliano-romagnolo, è la versione ancora più matura di quella con cui avevamo fatto due chiacchiere due anni fa (qui trovate l'intervista). Più conscio di quello che può offrire come artista e di quelle insidie che il mondo non solo musicale può offrire al giorno d'oggi. Ecco cosa ci ha raccontato davanti a una IPA.
Partiamo da ciò che nei fatti sicuramente è cambiato rispetto all’ultima intervista, ovvero il tuo nuovo album Languore. Che cosa rappresenta per te?
Vedo questo disco come una milestone personale, una sorta di statement, di “punto della situazione” per quello che è stato il mio percorso finora e di quelli che sono i miei riferimenti musicali. È chiaro che sicuramente il lavoro fatto con il primo album mi ha aiutato anche a trovare un certo tipo di esperienza e comprendere quali sono le possibilità di mettere in campo come musicista e come band, sfruttando strumenti che magari mi ero comprato nel mentre e che poi mi hanno aperto porte verso direzioni inesplorate fino a quel momento.
A che strumenti in particolare ti riferisci?
Se devo farti un esempio ti cito un Moog Grandmother che ha spostato molto gli equilibri e la mia attenzione verso certi progetti. Al di là del fatto che suona bene, ti offre delle possibilità creative che altrimenti non avresti. Quando inizi a suonarlo, senti certe note, certi toni e scatta qualcosa. Direi a livello creativo più che di suono, perché il suono in sé puoi tirarlo fuori un po’ da tutto. Probabilmente, se non sicuramente, è anche una cosa psicologica. Poi sapere che per i live potevo contare su una band mi ha reso più naturale pensare ad un disco in cui questo aspetto avesse un certo peso. Ovvero che dal vivo avesse una resa di un certo tipo, cosa che non si poteva dire con Nowhere Emilia, che mi piace definirlo come disco provinciale. Non nel significato letterale o campanilista della cosa, ma nel senso di un prodotto uscito in un contesto in cui ci sono pochi soldi: sicuramente non è possibile fare grosse produzioni perché non è credibile, rischi di risultare quasi antipatico. Quindi il progetto è stato messo in piedi per permettermi di dare sfogo alla mia scrittura e al mio stile in una dimensione un po’ più contenuta anche di budget: abbiamo fatto di necessità virtù, realizzando un prodotto che potessi essere in grado di gestire anche da solo. Penso che sia stata una strategia che ha pagato, perché molte date le ho gestite in totale autonomia e ho potuto fare quei necessari step di crescita che non avrei potuto fare se la condizione di partenza avesse imposto la presenza di una band. Questo sia in termini economici, ma anche logistici. Può sembrare banale, ma girare e fare un concerto di apertura con una batteria è una cosa tutt’altro che semplice e scontata. A maggior ragione in un mondo come quello di oggi in cui hai un prodotto che vuoi che vada suonato, come ad esempio la mia musica, devi fare i conti in fase di produzione con il concetto di live. Uscire da un talent ti permette di avere già una certa autonomia e sicurezza di avere un determinato seguito, nel mio caso te lo devi guadagnare. La band mi ha sicuramente permesso di fare questo step musicale all’interno del disco e anche di ragionare su una nuova dimensione dal vivo.
La band che ti ha accompagnato in questo percorso e che suonerà con te da chi è composta?
Lo zoccolo duro della band, ovvero i due ragazzi con cui iniziai appena ne ebbi la possibilità, sono il batterista Antonio Maria Rapa e il bassista Davide Schipani che suona anche un po’ di synth e mi aiuta con le basi. A fine 2022 ho aggiunto poi una chitarra, Gianluca Arcesilai, mentre ultimamente, spremendo al limite le risorse economiche e logistiche, sto cercando di inserire in modo definitivo, laddove mi sarà possibile farlo, Eleonora Di Matteo che è una sorta di jolly visto che suona il synth, fa le seconde voci, suona un po’ la chitarra. Innegabilmente è un costo, i musicisti vanno giustamente pagati per quello che fanno e quando le cose sono fatte a regola d’arte il live ha un certo costo e si fa in fretta ad arrivare a chiedere un cachet alto. Non è più scontato poter dire di andare in giro a suonare con una band di musicisti pagati, che è una cosa che mi fa riflettere e mi spaventa, obbligandomi a cercare le giuste contromisure: dimostrare che avere gente che suona con me dal vivo è meglio e quindi convincere le persone che andare a vedere un live in cui dei musicisti offrono la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Se io non riesco a dimostrarlo, in modo molto pragmatico sbaglio io. È anche una questione di imparare ad essere poco indulgenti con sè stessi: se non riesco a dimostrare che suonare con 5 musicisti invece che 4, è giusto che chi mi gravita attorno mi possa dire che è troppo.
Relativo a questo aspetto dei live e della partecipazione alla musica suonata, noti un disinteresse delle persone? Se sì, pensi che sia un problema culturale della società odierna?
Quello che posso dire è che negli ultimi 10-20 anni ho notato una tendenza all’atrofizzazione emotiva delle persone. Si regge molto meno l’urto con le emozioni, perché tutto deve essere bello, cristallino, la vita va comunicata secondo certe dinamiche: oggi bisogna familiarizzare con il concetto di brand della persona, per cui la persona deve mostrarsi forte a chi le sta attorno e la vede. Questo penso abbia contribuito a disinnescare la capacità di emozionarsi delle persone e, di conseguenza, secondo il mio punto di vista, ha innescato una certa paura di emozionarsi e vedere delle persone su un palco che si emozionano e, attraverso il suono, cercano di trasmetterti la loro emozione richiede una capacità di comprensione delle emozioni che molto hanno paura di mostrare. Nel momento del live c’è un momento di concessione, in cui l’artista si apre e cede delle cose che l’interlocutore deve essere pronto a ricevere e metabolizzare. Nei concerti il volume è una metafora delle emozioni che tu in quel momento dai agli altri: quindi, per darmi delle risposte, penso che più che un problema culturale o intellettuale, si tratti di uno sforzo di partecipazione emotiva sempre meno allenato. Poi ovviamente sono tutte mie teorie (ride, ndr), ma penso che serva una sorta di rieducazione emotiva in generale, quella alla musica verrà di conseguenza. Prendersi una sera, vestirsi, uscire, racimolare qualche amico, raggiungere un locale e pagare 10-15 € per un concerto sta diventando sempre più difficile.
Pensi quindi sia più una questione legata all’ascoltatore o a chi la musica la produce e la suona? Sembra un gatto che si morde la coda che tenderà asintoticamente ad abbassare il contenuto dei testi e delle produzioni.
Domanda difficile, spero di non annoiare nella mia risposta per sviscerare i diversi aspetti che include (ride, ndr). Azzardo un’analogia con la politica, con un problema attuale: perché le persone smettono di andare a votare? Perché perdono la fiducia nella politica stessa. Quindi faccio anche una autocritica e una critica a tutta la classe dei musicisti: probabilmente anche noi che facciamo musica non siamo più in grado di essere rappresentativi. Nel fare musica bisogna davvero pensare di poter rappresentare una classe di persone che in quel momento non hanno una rappresentanza, bisogna pensare di poter essere di aiuto e di poter trasmettere qualcosa che aiuta ad indorare la pillola. Rispetto al passato penso che la differenza principale risieda proprio in una sorta di sincerità perduta negli anni. Ad oggi credo che gli artisti che riescono ad essere sinceri anche a scapito del mercato siano un 10%, tutto il restante 90% presta magari più attenzione alle logiche del denaro. Da un lato anche giustamente se si vuole vivere di musica, cosa sempre più difficile. Non si pensa a questo aspetto culturale, ma più ad un posizionamento di mercato. Leggo nella gente una perdita di fiducia nella musica come mezzo per dare un senso alla vita e qui ci si può ricollegare alla domanda di poco fa sulla musica live. La musica da ballare, i dj-set, le discoteche intese proprio come posti dove ballare vanno ancora molto più dei concerti: non c’è un bello e un brutto, ma bisogna prendere spunto e riflettere. È giusto che un DJ prenda come un musicista? O come una band? Addentrandosi ancora di più nella risposta, si vedono gruppi su cui fatico a prendere una posizione sul se siano bravi o meno, perché comunque vendono e fanno gli stadi: sono bravi o sono furbi? E quindi, la musica è un distillato di sincerità e verità o un mestiere dove vale la regola del più forte in termini di mercato e di economia?
E qual è la tua ricetta per uscire da questo impasse?
Forse l’equilibrio si trova nel mezzo, ma nella mia visione è più vera la prima opzione. La musica è una missione, si fa a prescindere da qualunque ritorno dal mercato: poi è chiaro che il pubblico fa bene ed è una dimostrazione che la strada che stai percorrendo è quella giusta perché sei utile alla vita di tante persone e non perché hai fatto quello che tante persone volevano. Una differenza molto sottile. Mi manca un esame che probabilmente non darò mai, ma ho studiato scienze della comunicazione (ride, ndr). Tra i principali concetti che ho imparato c’è sicuramente quello per cui tra chi scrive e chi legge c’è una cooperazione: se chi scrive si incarica dell’intera comunicazione e il destinatario subisce il messaggio ed è compiacente, non si può definire come un rapporto vero, che invece si concretizza nel momento in cui le due componenti sono bilanciate. Chi scrive ha in parte il compito di mettere in difficoltà il destinatario del messaggio. Da qui, e chiudo questa riflessione, deriva la mia domanda di partenza: se portare 150, 200, 250 persone in un posto dove si sente un’energia particolare più che in altri contesti è buono, perché non sono mai di più? Cosa manca? Vale ancora la pena sforzarsi e metterci l’anima? Per me sì, perché per me è una missione e la mia quota artistica è quella sincera.
Pensi che questo sia anche in parte dovuto al genere musicale in cui un artista si inquadra? Tu a che genere ti senti di appartenere?
Credo che da quando la musica contemporanea è nata fino ad oggi ci sia stato un passaggio di dimensione: se all’inizio potevi differenziare sulla base degli strumenti presenti in una band oggi la domanda è diventata ‘che generi uso?’. Inquadrarsi oggi in un genere penso sia praticamente impossibile, per cui parlerei sicuramente di generi a cui mi ispiro tra cui ti cito il post-punk, il cantautorato, dance, punk ed una componente elettronica, tipo LCD Soundsystem fino a Cosmo, con una tendenza dark a livello di espressività e tematiche. Anche un po’ di post-modernismo direi. Chiaro, no? (ride, ndr) La cosa che oggi rende interessante un artista è probabilmente il modo in cui ricombina questi elementi e li propone in modo inedito. Inventarsi un genere oggi può significare finire per fare una cosa distopica, qualcosa di artificiale che finirei per non sentire mio. Conosco e stimo diversi artisti che, per fare un esempio, sperimentano con l’hyperpop, ma siamo ad un estremo iper-tecnologico che va in una direzione che a me fa ancora un po’ paura. Ad oggi il tasso di novità e ciò che ti rende interessante è il modo in cui rievochi i tempi delle persone, il modo in cui una persona può riassemblare i suoi ricordi attraverso la musica.
Per fortuna ci sono anche delle eccezioni.
Sì, basti pensare ai Murder Capital o ai Fontaines D.C.: band chiaramente post-punk, anche se in una veste più limpida e che suona meglio, quasi più pop. In Italia queste dinamiche sono più complesse per la nostra tradizione musicale. Se sei i Fontaines D.C. puoi fare carriera quasi esclusivamente contando sui nostalgici e fare le cose di campo. In Italia il bacino di utenza è notevolmente ridotto e quindi devi essere bravo tu, artista, a trovare delle intersezioni, specie se non vuoi essere di nicchia ma vuoi comunque fare le cose come pare a te. Nessuno ti vieta ad esempio di fare shoegaze in italiano e fare contente quelle decine di appassionati italiani, ma è chiaro che non puoi arrivare al grande pubblico. Quindi l’intersezione diventa una necessità per veicolare il tuo messaggio facendo convivere, come ci piaceva dire nei comunicati stampa, Lucio Dalla e Joy Division. Si tratta comunque di un’opportunità di rendere il prodotto italiano riconoscibile per la sua trasversalità anche all’estero, giocando sui propri limiti. Il fatto che la mia musica non necessariamente sia italiana è una cosa che mi piace: magari se qualcuno ascolta, pur non capendo le parole, qualcosa gli arriva. Avere un suono oggi è fondamentale se sei un cantautore, questo è stato un altro di quegli aspetti cambiati radicalmente negli anni e anche questo riguarda il tempo che viviamo: non è detto che ci sia il budget per fare le produzioni e quindi devi arrangiarti, in tutti i sensi. Devi avere il tuo suono: non è esattamente il mio caso visto che fortunatamente lavoro con Marco Bertoni, ma devo comunque essere anche io produttore di me stesso. Una volta arrivavi con il pezzo chitarra e voce e poi ci costruivano attorno il brano con arrangiamento, musicisti, produzione. Oggi il provino deve già far vedere chi potresti essere una volta sul mercato, comprese le foto e tutta la parte estetica, in un mondo multimediale.
Com’è stato il tuo processo di avvicinamento alla musica e a Ibisco? Sono un grande appassionato di calcio, sai dove sto andando a parare…
(Ride, ndr) Da piccolo, indicativamente tra i 5 e i 15 anni, sono stato prevalentemente uno sportivo, con nuoto e calcio. Con il calcio anche fino a buoni livelli, ho fatto le giovanili nel Bologna e nel Carpi, poi ho fatto un po’ di passaggi in Serie D e Promozione. L’intersezione con il mondo della musica è avvenuta a 12-13 quando mi comprarono una di quelle classiche pianole Casio che tutti i bambini hanno avuto (ride, ndr). La mia prima vita calcistica mi ha dato sicuramente disciplina, se sei sportivo ad alti livelli entrano in gioco fattori importanti come la dedizione al lavoro e alla causa già da quando sei relativamente piccolo. Poi se ti avventuri giovane nel professionismo subentrano le gerarchie, quasi come un’educazione militare. Poi ho smesso perché mi è sempre sembrato un po’ troppo come esercizio della mascolinità, l’imprecazione, l’uso improprio della voce che non mi piaceva: con la testa di oggi non avrei abbandonato probabilmente, ma sicuramente all’epoca sentivo che non faceva per me. Ascoltavo già musica un po’ fuori dai canoni di quella che era la media tra amici. Poi presi una chitarra classica che imparai ad usare da autodidatta e dopo l’esame di terza media arrivai alla chitarra elettrica, che non mi ha mai veramente interessato fino a pochissimo tempo fa, quando l’ho ripresa per sperimentare un po’. Poi ho iniziato a scrivere qualche pezzo super scolastico, mi sono avventurato nei classici gruppetti di cover di ragazzini, ho elaborato la giusta esperienza per fare i miei pezzi. Le uniche lezioni che abbia preso sono state di canto, più che altro per imparare un po’ di nozioni sulla biomeccanica dello strumento vocale.
Quali sono stati i riferimenti poi per la definitiva trasformazione in Ibisco?
Direi 5-6 anni fa, quando ho tirato le somme di quello che era stato fino a quel momento e ho iniziato a raccogliere le idee per quello che è stato il mio primo disco. Ci ho lavorato su un paio d’anni, poi il Covid si è messo di traverso e ha fatto sì che questo disco finisse per occupare tanto, troppo, spazio nella mia vita. Tant’è che non è passato tanto tra un disco e l’altro, per il tipo di dischi che sono. Tornando alla risposta precedente, la mia formazione è stata soprattutto sportiva, poi la musica è stata un processo molto naturale legato al mio interesse per quanto in famiglia si sia ascoltata musica di un certo tipo, che avrà sicuramente aiutato a tirare fuori certe cose. La mia prima folgorazione sono sicuramente stati i Baustelle circa nel 2008 con Amen, poi ho iniziato ad ascoltare gli Smiths, i Cure anche se un po’ meno, poi di italiano ricordo Dente, i Tre Allegri Ragazzi Morti, le Luci della Centrale Elettrica. Poi sono subentrati ascolti un po’ più internazionali come Arcade Fire, MGMT, Radiohead, un po’ di new-wave con Siouxsie and The Banshees. Poi cerchi sempre di rimanere aggiornato per cui non posso non citare Fontaines D.C. o The Smile, Murder Capital, bdrmm. Mi piace evitare di essere nostalgico, ecco.
Mi aggancio a queste influenze e rilancio con un gruppo che ha secondo me saputo narrare molto bene, anche in sfumature “pop” come nel tuo caso, il dolore: gli Editors. Ci racconti un po’ Languore e che tipo di disco è?
Li conosco bene! Languore è il titolo e insieme il topic del disco: questa sensazione di vuoto, di disorientamento, di mancanza, che per reazione naturale produce degli istinti feroci che tendono a compensare le sensazioni negative. Languore è la parola che ho sentito più rappresentativa dell’umore dei miei tempi: la sensazione che qualcosa sfugga e che il passato non sia mai completo per sentirsi soddisfatti. Un po’ perché il mondo oggi offre infinite vie e possibilità e doverne scegliere una o poche ti porta sempre a pensare a focalizzarti sul resto, sulle scelte che non hai fatto o le vite che non hai vissuto: il disco parla di questo. Un album in cui c’è una forte componente sentimentale, legata anche a traumi dovuti a relazioni, ma sempre con la consapevolezza che sono state esistenzialismo buono: vivere, soffrire, riappacificarsi, dare un senso al dolore. Quindi in definitiva Languore è stata la parola che più mi ha aiutato a descrivere queste sensazioni, oltre ad avere un riferimento letterario decadentista che mi piace molto. Inizialmente il titolo doveva essere Languore, Furore poi sono uscite Paola & Chiara con il pezzo di Sanremo e mi sono detto: ma sì, teniamoci Languore che in fondo il furore è insito nel significato di Languore. Era un concetto che avevo chiaro sin da subito, tanto che posso sicuramente dire che in un certo senso ha dettato la linea del disco.
Tra l’altro ho notato che la title track è proprio al centro del disco.
Diciamo che ci è finita, probabilmente per un motivo. Sicuramente è la traccia che considero manifesto del disco, perché racchiude un po’ le sensazioni che cercavo di descrivere e l’ambizione dell'album. Languore e Dentro, me sono probabilmente i pezzi più ambiziosi del disco e anche quelli che si discostano di più dal primo lavoro. In Dentro, me c’è una sorta di spaccatura: rappresenta le personalità multiple che una persona oggi ha per forza per adattarsi alla realtà del mondo di oggi ed è un pezzo provocatorio, perché inizia in modo molto sanremese, come mi hanno detto molti (ride, ndr), una canzone italiana con un suono leggermente più ruvido che poi twista in un’allucinazione elettronica. Mi sono detto: nei prossimi 5 minuti, devo mostrare il più possibile chi sono. Questo è un altro tema molto attuale: al giorno d’oggi devi dire tutto subito, non hai più modo di far fermare una persona per un’ora e poterle raccontare entro quel lasso di tempo il messaggio che vuoi trasmettere. Se riesco a rapirti nei primi minuti allora poi, magari, ho la possibilità di mostrarti il resto: è una cosa che mi piace e stimola, non tutto il nuovo viene per nuocere. Per questo motivo mi definirei più come uno ‘strofaro’ che un ‘ritornellista’: mi piace che i pezzi inizino con il piglio giusto e che il messaggio si colga già dai primi versi.
Diamo l’attenzione che meritano anche agli altri brani del disco: cosa ci racconti?
Beh di Dentro, me già abbiamo parlato. Poi Seduci, che è la continuità con il passato per sottolineare che l’anima è rimasta la stessa. Un pezzo che sento molto post-punk, quasi a là Murder Capital ma più elettronica: qui le reference sono sicuramente Battles e Depeche Mode, ma in veste salmodiana in stile CCCP. Suoni già in parte introdotti dal finale di Dentro, me: non le ho scritte secondo questa logica, ma quando ho riflettuto a posteriori sulla scaletta ho pensato fossero perfette accoppiate. Vera è forse il mio pezzo preferito del disco, perché arrivato dopo un evento che me l’ha tirato fuori in maniera molto naturale e istintiva ed è forse la canzone più canonica del disco, con questo ritornello molto aperto, ma con un forte sapore Joy Division. La quota cupa in una canzone importante, in cui anche come voce c’è un’identità forte e chiara. Albanera è per contrapposizione la quota Beatles, se vogliamo, e un po’ più battistiana, con una progressione armonica di un certo tipo: Battisti ha avuto una certa importanza mentre lavoravo a questo album. La traccia più ambiziosa come già accennato è Languore, in cui la musica ha una connotazione classica del termine e ha una sua componente emotiva forte nello sviluppo del pezzo. Quasi orchestrale senza orchestra. Poi ci addentriamo nella sezione più elettronica del disco con Alcolicixbenzina, la traccia che ho definito quella perfetta per aprire i dj-set in cui a posteriori ci rivedo i miei ascolti di LCD Soundsystem, Trentemøller e Subsonica, se vogliamo. K.O.E. è un altro pezzo molto post-punk secondo me, con una piccola componente Notwist, quindi rock elettronico e chitarre acustiche. Poi si chiude con Dopah!, la traccia più punk che riprende un po’ i CCCP, e Jane finisce, un po’ The Smile e un po’ Afterhours. Un pezzo forte per chiudere, una sorta di regalo per chi arriva alla fine del disco.
Un piccolo dettaglio che ho notato in K.O.E. è che ci sono dei coretti in inglese: hai mai pensato di usarlo in modo più diffuso?
Un po’ mi dispiace non poter vivere una vita parallela in cui scrivere in inglese perché sarebbe bellissimo, ma in tutta onestà non ho i mezzi culturali per farlo quindi non lo farò mai. Per me per scrivere in inglese devi vivere in inglese, e non è il mio caso. Non ho mai provato, ma ogni tanto capita, forse anche grazie alla musica che ascolto, che mi vengano delle frasi, quasi degli slogan, che tengo e cerco di inserire nei momenti giusto, magari appunto anche solo come complemento. Il rischio di usarlo in maniera diffusa se generalmente canti in italiano è sempre quello di diventare una macchietta. Il verso a cui fai riferimento recita: “Give your love, somebody will love”. Penso si sposasse bene con il significato del disco: concediamoci, così si vive, altrimenti vivi a metà.
Nowhere Emilia è stato una sorta di enorme “dove”, Languore è un “come”?
Languore è un disco introspettivo che definirei più sul tempo e quindi un “quando”. In particolare è un disco sui propri tempi, sui rimorsi, sui rimpianti e in generale un tempo interiore. Il primo disco è stato sicuramente più descrittivo, ho lavorato più per immagini, flash visivi, polaroid in bianco e nero. In questo disco invece ci sono in primis 3-4 anni di età in più, dove si è fatta esperienza, si ha un vissuto più profondo e ci si affaccia definitivamente all’età adulta. Quindi le tematiche riguardano sicuramente un leggersi dentro. Di diverso oltre al vissuto ci leggo anche una considerazione di sé ed un’autostima maggiori, dovute senza dubbio proprio alle esperienze passate al sentirsi scalfito: non sono ancora fatto e finito, ma mi sento sicuramente più sicuro dei miei pregi e difetti, doti e limiti.
Questo disco segna anche la continuità in termini di produzione, con la rinnovata collaborazione con Marco Bertoni, che qui a Bologna è una sorta di leggenda. Ci descrivi un po’ che persona è e che rilevanza ha nel tuo lavoro?
Marco è una persona senza dubbio davvero saggia. Sa metterti a tuo agio, che non è scontato nel mondo dei produttori, e di conseguenza ti mette nelle condizioni di tirare fuori il meglio. Nonostante la direzione che sta prendendo il mondo e in particolare quello musicale, è un produttore che tende a lavorare molto ai progetti, con grande partecipazione dalle battute iniziali al prodotto finito. A lui piace molto portarti nelle condizioni di interrogarti sul perché tu, artista, voglia sviluppare determinati aspetti, portandoti a fare un po’ il produttore di te stesso. Una cosa molto rara. Inoltre conserva una mente dall’assetto davvero giovane, per cui combina freschezza di idee, lucidità ed esperienza in modo unico. Poi tecnicamente è molto bravo, ma mi sento di dire che quello che ho detto prima è più importante della parte tecnica o strumentale. Il produttore è un po’ lo psicologo dell’artista.
Ho notato prima sui social e poi con la sua “convocazione” come artista di apertura nella tua ultima data al Covo Club di Bologna che sei entrato in contatto con Eugenio Sournia, ex Siberia: che rapporto hai con lui?
Conoscevo bene il progetto Siberia, l’ho ascoltato e apprezzato. Eugenio mi scrisse dopo Nowhere Emilia, dicendomi che aveva apprezzato il disco e qualche pezzo in particolare. Poi più di recente è venuto a vedermi a Livorno per poi invitarmi qualche giorno per suonare e provare con lui, per conoscerci attraverso la musica. Si è creato un rapporto, perché fondamentalmente siamo simili, abbiamo riferimenti musicali e culturali simili. Ci troviamo molto bene e posso dire tranquillamente che siamo diventati amici, tant’è che lui cercava un’occasione per presentare un po’ i suoi brani in un contesto bolognese adatto e gli ho proposto di suonare qualche pezzo prima di me. Mi ha fatto molto piacere. Se ci collaborerei? Sì, anche se quando penso alle collaborazioni penso subito alla produzione e non alla scrittura a quattro mani. Non amo scrivere con altri, ma mi piace l’idea di prendere parte al progetto. La figura del produttore è una figura davvero interessante, mette insieme tante doti che poi coltiva e che mi piacerebbe esplorare nel tempo senza mai perdere il lato cantautorale. Più che l’autore per altri, alla Bianconi, mi piacerebbe fare il produttore, come I Cani o Cosmo.
Quindi immagino che anche sui featuring la pensi allo stesso modo.
Sì, diciamo che in generale non ne sono un amante. Ma a volte può essere utile per mettersi in discussione e per arrivare ad un pubblico che prima di allora non avevi raggiunto. Può essere un fine che giustifica i mezzi, diciamo. In Languore, ad esempio, sono stato felice di non averne inseriti, ma anche perché il disco in sé chiamava un certo tipo di sincerità che non poteva essere estesa a qualcun altro. In Nowhere Emilia ce n’è uno solo, con Enula, perché il disco in sé era talmente ‘sperimentale’ che ci stava. Il pezzo comunque era già scritto completamente e quindi abbiamo inserito una voce femminile nel progetto. Ma in generale è sempre difficile sedersi e, banalmente, dire che la cosa che un’altra persona ha fatto per il progetto non ti piace. Mi dispiace proprio perché so cosa ci sta dietro il processo creativo e al tempo stesso è impossibile rinnegare il proprio gusto artistico. Per i prossimi dischi chissà: il prossimo lavoro vorrei che fosse un po’ meno pesante, meno denso per certi versi, e quindi qualche featuring potrebbe starci. Ultimamente sto facendo parallelamente molti dj set, spesso e volentieri al Covo qui a Bologna, ed è molto interessante come esperienza, perché ritrovi una dimensione del groove e del ballo che ai live potresti ritrovare e dunque non mi dispiacerebbe esplorare un lato un po’ più dance/club per il prossimo lavoro. Non rinuncerei mai alla quota depressa e cupa (ride, ndr), ma poi ritrovarsi l’energia dal vivo della gente che balla è interessante.
Ibisco è attualmente in tour per la promozione di Languore. Ecco le date:
- 27 gennaio @ Officina Meca, Ferrara
- 02 febbraio @ Mood Social Club, Rende (CS)
- 03 febbraio @ Officina degli Esordi, Bari
- 16 febbraio @ Off Topic, Torino
Biglietti disponibili qui.