Stu Larsen nasce nel 1980 a Dalby, una piccola cittadina australiana a qualche ora di macchina da Brisbane. A quattordici anni sua madre, per aiutarlo a superare la timidezza che da sempre lo ha contraddistinto, decide di regalargli una chitarra. Da questo momento in poi la musica non lo ha mai abbandonato. Dopo aver lavorato come cassiere e, successivamente, come impiegato in una banca, decide di lasciare tutto per girare il mondo inseguendo la sua più grande passione. Dopo una serie di EP, nel 2014 pubblica il suo primo album, Vagabond, prodotto dall’amico fraterno Mike Rosenberg (Passenger, per intenderci), mentre nel 2017 arriva Risolute. Il 3 aprile esce per Nettwerk Music Group/Bertus esce Marigold, il suo terzo album nonché quello più intimo e personale, registrato nel giro di 15 giorni ai Golden Retriever Studios di Sydney.
«I feel like these songs are more personal than any of my previous work. They’re about falling deeply in love with someone who came into my life and then disappeared soon after. It’s very personal. I’m attached to the message and the feelings. The travel didn’t necessarily affect the lyrics of the songs, but it did influence the relationship and produce the songs themselves—because I was writing on the road everywhere from Eastern Europe to South America. My takeaway from the entire situation is, ‘love really is a mystery»
Oltre a essere uno di quei rari casi di artista che vive davvero di e per la musica, Stu è anche uno degli esseri umani più gentili, disponibili e interessanti che potrà mai capitarvi di trovarvi davanti. Ho avuto la fortuna di poter nuovamente scambiare quattro chiacchiere con lui, qui sotto potete leggere cosa mi ha raccontato.
Ciao Stu! Visto il periodo piuttosto strano che stiamo vivendo, la prima domanda che mi sento di farti è: come stai? In Italia ormai siamo in quarantena da quasi un mese, tu in che parte del mondo ti trovi e come la stai trascorrendo?
Ciao Federica & Noisyroad :) Sicuramente siamo vivendo tempi strani adesso. Io qui sto bene. Per ora sono in Europa, non ero pronto a tornare in Australia, quindi ho trovato un posto dove rimanere per un po'. Mi dispiace molto per voi ragazzi in Italia, ne avete già passate molte ed è straziante. Vi mando tanto amore e spero che presto ne usciremo.
Il 3 aprile uscirà Marigold, il tuo terzo disco. Domanda forse un po’ banale: come mai questo titolo?
Marigold è un album che parla del trovare la connessione più bella con qualcuno e poi vedere sparire quella
connessione e guardare l’altra persona allontanarsi. Per me, Marigold simboleggia l’idea di amore perfetto e il titolo è preso da un verso di una delle canzoni che dice «wide awake and dreaming, I thought you were my marigold»
Marigold arriva a sei anni di distanza dal tuo album di debutto, Vagabond (2014), e a tre da Resolute (2017). Com'è cambiata la tua vita e la tua musica da allora?
Non penso di essere cambiato molto, a parte per l’iniziare a voler rallentare un po’. Ho trascorso molto tempo in viaggio negli ultimi sei anni e penso che forse sono pronto a pensare all'idea di rallentare. Avevo pianificato un altro grande anno di tour con Marigold e poi vedere come sarebbero cambiate le cose con l’inizio del 2021. Ma questa situazione del virus mi ha sicuramente fatto mettere in pausa molte cose.
Ti defineresti ancora un vagabondo?
Per ora, sì. Ma forse nei prossimi anni potrei dover rinunciare a questo amato appellativo.
Il disco è stato prodotto da un tuo grande amico, ovvero Tim Hart (Boy & Bear). Inoltre, per la prima volta hai messo mano al mixer e hai partecipato attivamente al processo di registrazione. Com'è andata?
È stata la prima volta in cui sono stato pienamente presente fisicamente e mentalmente mentre registravo un album. Mio padre è morto mentre stavamo realizzando Vagabond e la mia mente era piuttosto confusa mentre provavamo a portare a termine la registrazione. Poi sono stato bloccato in un ospedale indonesiano per le prime due settimane di lavoro in studio per Resolute e, quando ho potuto esserci, la maggior parte del lavoro duro era già stata fatta. Quindi stavolta speravamo e pregavamo che niente di grave ci ostacolasse! È stato fantastico essere lì e lavorare insieme a Tim e anche con l’ingegnere e mago dello studio Simon Berckelman ai Golden Retriever Studios a Sydney.
Quale canzone diresti rappresenta al meglio Marigold?
È una bella domanda, ma è difficile rispondere…ogni canzone rappresenta un momento diverso di quella relazione. Cominciando da quelle più allegre, come We Got Struck By Lightning e Hurricane, passando dalla felicissima Whisky & Blankets, per poi lentamente immergersi profondamente nella tristezza con Wide Awake & Dreaming Where Have All The Leaves Gone?, prima di completare con la lievemente speranzosa The Loudest Voice e la traccia conclusiva, Phone Call From My Lover. Non penso che una singola canzone rappresenti l’album, ma mi piace che ad avere l’ultima parola sull’album sia Phone Call From My Lover. Riassume la relazione con il ritornello - «we’ve been going round in circles trying to figure this thing out, I’ve come to the conclusion that we both missed somehow, but darling maybe we’ve already found what we are looking for»
Hai dichiarato che questo album contiene alcune delle canzoni più tristi e alcune delle più felici che tu abbia mai scritto.
È vero, penso che Whisky & Blankets sia la canzone più felice che abbia mai scritto? E sono abbastanza sicuro che Where Have All The Leaves Gone? possa essere la canzone più triste che io abbia mai scritto. In realtà l'ho scritta come una lettera a me stesso quando non riuscivo a lasciar andare e andare avanti, anche se apparentemente non c'era speranza che la relazione venisse salvata.
Hai definito Phone Call From My Lover «the most intimate moment on my most intimate work». Ti va di raccontarcela?
Penso che sia così intimo perché è come se fosse una vera lettera rivolta alla ragazza di cui parla l'album. Cioè, tutte le canzoni lo sono, ma questa è quasi un piccolo addio. Sono io che mi rendo conto di aver detto tutto e fatto tutto e che lei voleva e aveva ancora bisogno di andarsene e fare ciò che desiderava. Non potevo sopportare di cantare l’ultimo «let go» alla fine della canzone, quindi alla fine ho scelto di lasciarla un po' aperta, forse sognando che ci sia un po' di speranza per me e lei da qualche parte lì dentro...

Al primo ascolto, il brano che stupisce di più è Hurricane, che presenta un sound piuttosto differente rispetto a ciò a cui ci hai abituati in passato.
Hurricane è decisamente molto più audace della maggior parte delle altre canzoni che ho pubblicato in passato. Ciò è in parte dovuto a Tim che ha suonato la chitarra elettrica su questa traccia e Evan (percussioni) e Dave (basso) che ci hanno dato dentro alle prove qualche giorno prima di andare in studio (questo vale anche per il sound di tutte le canzoni dell'album). Gli hanno davvero dato vita in un modo che mi ha lasciato senza fiato!
In Je Te Promets Demain, invece, colpisce già dal titolo e all'interno dei brani hai inserito dei versi in francese.
La ragazza di cui parla l’album parla francese e mi ha insegnato alcune parole e frasi e alcune di queste sono state inserite in questa canzone.
In The Loudest Voice mi ha colpita molto quando canti «I know I speak so softly but I never wanted to be the loudest voice».
Penso che questo sia in generale il modo in cui vivo la mia vita. Non sono una persona che urla, grida e cerca di attirare l'attenzione in diverse situazioni. Sono molto più a mio agio nel vivere e fare le mie cose e connettermi con le persone e se le persone provano qualcosa e si connettono con me personalmente o attraverso la musica, allora sono felice. Sento che nella relazione questa ragazza aveva molte persone e cose diverse che lottavano per la sua attenzione e ho sentito che era giusto per me essere più tranquillo e farle trovare la sua strada, ecco da dove è uscito questo verso.

Nel corso del mese di marzo è partito l'Hurricane Tour, un progetto ambizioso e a tratti incredibile che prevedeva 11 show in 11 diversi stati ai poli opposti del globo, dall'Australia all'Europa passando per l'India. Purtroppo, la rapida diffusione del COVID-19 ha impedito che il tour giungesse al termine e si è interrotto in Turchia. Ti va di raccontarci com'è nata l'idea e come sono andati gli show che siete riusciti a svolgere? So che si è verificato più di un imprevisto...
È stata un' avventura folle che sognavo da diversi anni, mi è capitato di impegnarmici nello stesso mese in cui il mondo è stato colpito da una pandemia globale...non è stato sicuramente il miglior tempismo da parte mia. Ho appena pubblicato il poster del tour aggiornato oggi, con tutti i cambiamenti avvenuti nel corso del mese, è stato un casino! Abbiamo visitato solo sette paesi e alla fine abbiamo suonato cinque show e due live streaming. Toowoomba è stato l'inizio perfetto in Australia, c’è stata una folla così calorosa e solidale, con Tim Hart che ha aperto il concerto. Singapore e India sono stati spettacoli interessanti e luoghi incredibili e poi il Botswana è stato un vero gioiello, per molte ragioni. Quando siamo arrivati in Turchia, le cose stavano cambiando rapidamente e lo show è stato effettivamente cancellato e poi ripristinato senza che il pubblico lo sapesse. Abbiamo suonato in un piccolo cafè lì e poi abbiamo dovuto cancellare il resto del tour, che era tutto esaurito a parte Atlanta. Eravamo tristi di non completare il tour, ma ci sono cose più grandi di cui preoccuparsi.
So che sicuramente non è il momento migliore per fare delle previsioni, ma hai in programma di tornare a suonare in Italia? In generale, quali sono i tuoi progetti per i mesi che verranno?
Penso che i miei show in Italia siano sempre pieni dei fan più fedeli del mondo. Ho ricordi affettuosi di così tanti concerti lì e tornerò sicuramente un giorno, quando sarà il momento. Ma per ora, non sto pianificando nulla. Ho posticipato il mio prossimo tour in Nord America e ora aspetterò di vedere cosa succederà nei prossimi mesi e, una volta che il mondo tornerà alla normalità, allora ricomincerò a fare piani.