11 luglio 2023

"Essere etichettati post-punk a volte è frustrante": intervista ai Dry Cleaning

Dopo aver pubblicato due album davvero notevoli come New Long Leg e Stumpwork, i Dry Cleaning sono tornati con un nuovo EP e un nuovo tour, che li vedrà anche in Italia per una data esclusiva al Sexto 'Nplugged. Negli ultimi due anni ne sono successe di cose alla band inglese, che si è ritrovata a dover a gestire le luci della ribalta, fra ospitate da Jimmy Fallon con tanto di Al Pacino e complimenti di band mainstream come i Paramore. Non male, per una band nata quasi per gioco e che si sta guadagnando tutto grazie al proprio talento.

Abbiamo raggiunto il bassista della band, Lewis Maynard, per farci raccontare un po' dell'ultimo periodo. Ne è uscita fuori una bella chiacchierata con un piccolo sfogo sull'utilizzo dell'etichette dei generi musicali.

Spoiler: il titolo di band post-punk gli sta stretto.

So che hai origini italiane, vuoi dirci di più a riguardo?

Sì, è vero. Mia madre è di origine italiane. Mia bisnonna era di Napoli, era un'orfana ed è emigrata qui da sola. Quindi, non ho mai conosciuto nessuno della famiglia di quel ramo che vive in Italia.

In un'intervista del Guardian ho letto che come band avete legato molto attorno alla tavola, al cibo.

Sì, è vero. Abbiamo iniziato a fare le prove a casa di mia madre e lei, probabilmente a causa delle sue origini italiane, è una cuoca eccezionale. Il cibo è sempre stato una parte importante della nostra famiglia. Quando abbiamo formato la band, eravamo inizialmente io, Tom e Nick. Era più un incontro di amici, in cui mia madre ci sfamava mentre suonavamo e giocavamo. Dopo alcuni mesi, Florence si è unita a noi. Inizialmente, non avevamo nemmeno pianificato di diventare una band che facesse tour e registrazioni come poi è successo. Era più una ritrovo di amici che si è trasformato in qualcosa di più grande.

Dry Cleaning promo food
(c) Ben Rayner

Da una band nata per svago al successo di oggi. Ho letto che ognuno di voi aveva un altro lavoro. È stato difficile lasciare le vostre vecchie vite e lavori per provare a fare il grande salto?

Sì, è stato molto difficile. Nessuno di noi aveva pianificato di fare della musica il proprio lavoro e sapevamo tutti quanto fosse difficile farla diventare una carriera. Avevamo molti amici che avevano esperienze negative in band. Personalmente, essendo anche un po' più vecchio, come gli altri avevo intrapreso una mia carriera e ognuno di noi aveva un altro lavoro quando abbiamo deciso di provarci sul serio. L’abbiamo fatto perché la band stava andando in una direzione che ci rendeva felici. Avevamo appena fatto un tour nel Regno Unito e pubblicato alcuni EP in modo indipendente. È stata una decisione difficile, ma siamo molto contenti di averla presa.

Come avete gestito l’essere passati molto rapidamente da band emergente sconosciuta alla fama improvvisa?

La pandemia ha rallentato un po' le cose, non in termini di creatività, ma più in termini di tour e opportunità di suonare dal vivo. Proprio quando stavamo vedendo una crescita rapida è scoppiata la pandemia. Non ha rallentato la nostra creatività, ma ha cambiato le circostanze. Era tutto nuovo per noi e di conseguenza è difficile da confrontare con altre esperienze e metterlo in prospettiva.

Negli ultimi mesi avete anche un tour in Sud America. Come è andata rispetto ai vostri tour europei?

Quando suoniamo in posti vicini o in Nord America, ci sentiamo più a nostro agio, perché siamo più abituati a suonare in quei luoghi. Ma quando suoniamo in posti lontani, dove le band non suonano spesso, è ancora più eccitante. Ad esempio, quando suoniamo a New York, sappiamo che ci sono centinaia di concerti in programma nella stessa serata. Ma quando suoniamo in città più piccole e isolate è più speciale per tutti, sia per noi che per il pubblico.

Per quanto riguarda il vostro approccio creativo, qual è il vostro modus operandi in sala prove?

La maggior parte delle volte, direi nel 90% dei casi, creiamo la musica attraverso improvvisazioni, ovviamente anche con Florence. Facciamo delle jam session insieme e le registriamo al telefono utilizzando un'app di memo vocali e poi condividiamo tutto su un piccolo SoundCloud interno. Ascoltiamo le registrazioni e selezioniamo le idee interessanti da sviluppare. Questo è il modo in cui nascono molte delle nostre canzoni. Florence si unisce alle jam session in modo organico, interagendo con ciò che suoniamo noi e viceversa. È un processo spontaneo e naturale.

Per il vostro secondo album Stumpwork avete lavorato di nuovo con John Parish. Ci sono stati grandi differenze fra la prima e la seconda volta?

Sì, sicuramente ci sono state differenze. Per il nostro primo album New Long Leg, abbiamo registrato quasi tutte le tracce in circa due settimane, quasi mezza canzone al giorno. Per Stumpwork è stato un processo di registrazione diverso. Registravamo al mattino e poi passavamo ad un altro brano, anche se tutto era abbastanza veloce e il lavoro di John non è stato affatto trascurabile. Non avevamo mai suonato quelle canzoni dal vivo prima. Avevamo molto più tempo a disposizione in studio, più del doppio rispetto al primo album. Di conseguenza avevamo molto più tempo da dedicare a ogni singola canzone. John è stato fantastico nel darci tutto il tempo necessario. Avevamo una specie di "biblioteca" in studio, una stanza di missaggio e una stanza piena di strumenti, che era qualcosa che desideravamo dopo le esperienze passate. È stata un'esperienza molto positiva.

C'è stata una canzone in particolare che è stata più difficile da finire?

Posso dire che Kwenchy Kups ha subito diverse trasformazioni. Avevamo tutte le parti, ma ci mancavamo la struttura e la forma definitiva. Fino a quando non l'abbiamo registrata, non l’avevamo. Durante le prove di pre-produzione con John, abbiamo cercato di cambiarla e sperimentare diverse versioni, ma solo durante la registrazione abbiamo trovato la sua formula definitiva.

A proposito di seconde volte, qualche mese fa siete tornati nuovamente a suonare da Jimmy Fallon. Quanto è stato diverso dal vostro esordio televisivo?

La prima volta che siamo andati da Jimmy Fallon è stata durante la pandemia, quando non c'era pubblico in studio. La giornata di registrazione era divisa in segmenti, quindi è stato un po' diverso. Non c'è stata un'intervista preliminare, siamo saliti sul palco e abbiamo suonato immediatamente. È stato un ambiente più rilassato in un certo senso. La seconda volta è stata diversa. Eravamo pronti a suonare in diretta e siamo saliti sul palco con i The Roots che ci guardavano. Al Pacino era seduto proprio lì alla mia destra. È stata un'esperienza abbastanza intimidatoria. (ride, ndr). Abbiamo avuto anche altre esperienze molto belle come ad esempio da KEXP. Alla fine inizi a familiarizzare con il processo, ma comunque ti emoziona sempre.

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Ci sono dei festival in programma dove non vedete l’ora di suonare quest’estate?

Abbiamo imparato a non avere troppe aspettative sui festival e in generale sulle nostre date, perché spesso le cose cambiano. Le persone ti dicono entusiaste: "Vieni qui, sarà così", ma spesso le cose sono diverse. Dipende anche da come viaggi e da quanto tempo hai a disposizione sul posto. Quindi cerco di non crearmi troppe aspettative e di partire sempre con una mentalità aperta. Ogni concerto può essere una sorpresa e mi rende felice quando vengo positivamente sorpreso. Non ho particolari aspettative, ma sono sicuramente emozionato per il nostro tour.

Nella band avete influenze musicali comuni o avete tutti background differenti?

Abbiamo una base comune di influenze musicali, ma ognuno di noi ha poi i propri gusti. All’inizio siamo stati influenzati da artisti come i B-52s. Non pianifichiamo mai come vogliamo che il nostro prossimo disco suoni, lasciamo che accada in modo spontaneo. Tutte le nostre singole influenze personali contribuiscono al nostro sound complessivo.

Ti sta stretta l'etichetta di “band post-punk”?

Personalmente penso che sia un termine impreciso, ma non perchè tecnicamente non lo siamo, ma perchè secondo me oggi il termine post-punk è sbagliato. Per me, il post-punk era un genere musicale molto ampio che includeva anche la new wave, artisti come Grace Jones. Oggi invece è un etichetta spesso associata a una musica con chitarre elettrica e spoken word. Siamo spesso paragonati ad altre band inglesi etichettate come post-punk (ad esempio gli Squid e i Black Midi), ma non penso che suoniamo come loro, né che loro suonano come noi. È un po' frustrante, ma capisco che condividere un'etichetta può avere benefici in termini di promozione e pubblicità. Quando ci etichettano come band post-punk, spesso otteniamo più visibilità. Ma alla fine, capisco che il concetto si è evoluto negli ultimi anni.

Per quanto riguarda il vostro ultimo EP, le prime due tracce provengono dalle stesse sessioni di registrazione di Stumpwork ed erano già state incluse anche nella versione giapponese dell'album. 

Volevamo creare un album coeso, un'opera unica, ma allo stesso tempo non volevamo superare il limite di tempo di un singolo vinile, per non abbassare la qualità della registrazione. Poi, la nostra casa discografica ha deciso che potevamo fare un doppio vinile e quindi siamo riusciti ad includere anche Hot Penny Day. Swampy e Hombre Two non potevano fisicamente starci, ma ci piacevano molto ed è il motivo per cui le abbiamo inserite all’inizio di questo nuovo EP. 

Come ci si sente quando artisti come Hayley Williams dei Paramore vi citano come una grande fonte di ispirazione?

È stato un enorme complimento. I Paramore sono una band mainstream di fama mondiale e devo dire che mi piacciono molto alcuni brani del loro ultimo disco. È incredibile quando artisti così importanti ci considerano una fonte di ispirazione. Abbiamo ricevuto riconoscimenti da molti fan nel corso degli anni, ma è davvero speciale quando artisti di grande successo ci apprezzano. È una delle molte cose surreali che ci sono capitate come band, è sicuramente un onore.

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(c) Max Miechowski