Non capita molto spesso di trovare degli artisti che al primo ascolto ti folgorano, come se scattasse una scintilla all'interno del cervello che ti fa pensare solamente ad una cosa e ti fa premere play sulla stessa canzone 30 volte di seguito, un po' quello che succede quando ci si innamora credo. In un periodo di piattume ad aver catturato la mia attenzione ed avermi completamente stregata è Ela Minus, nuova firma nel roster di Domino Records. L'etichetta britannica ha dato vita a fantastiche e mitologiche creature indie, dagli Arctic Monkeys ai Franz Ferdinand, ma negli anni ha dimostrato le proprie poliedriche capacità abbracciando anche sonorità elettroniche e supportando artisti del calibro di Jon Hopkins e degli Hot Chip; li conosco bene e so che c'è da fidarsi di ciò che fanno e pubblicano e se sul loro profilo Instagram annunciano un nuovo nome so già che devo correre ad ascoltarlo. Così è stato per la giovane artista colombiana, qualche mese fa non appena è uscito il primo singolo they told us it was hard, but they were wrong. è stato immediatamente amore. Il titolo, quella successione di beat e quei bassi da elettronica minimale, i crescendo avvolgenti degni delle migliori performance di Boiler Room, il cantato velato che si fonde perfettamente al sound, insomma un potente afrodisiaco da club di 6 minuti. Ad ogni ascolto ne volevo sempre di più, e di più, e di più.
L'effetto dei brani di Ela Minus è proprio questo, ti trasporta in un locale underground dalle pareti nere e dalle luci in grado di stordirti, ti ipnotizza e ti regala la scioltezza di un drink di troppo con le sue sequenze acide, sintetiche e oscure, ti fa entrare a forza con lei nel loop dell'elettronica, anche se hai sempre fatto spallucce verso questo genere. I singoli e il debut album acts of rebellion ti faranno ricredere su tutte le potenziali idee pregresse tu potessi avere su questo genere; il trucchetto è che questo disco non è un concentrato di soli suoni ripetitivi da ascoltare in piena notte, ma nel marasma di beat viene incastratato il canto di Ela, con quella pronuncia non perfettamente americana, quasi timido e pigro, dalle sfumature leggermente malinconiche, elemento che rende l'ascolto più accessibile. Ad aiutare l'ascoltatore interviene anche la divisione dell'album, diviso in due parti, una sorta di notte e giorno musicale: la prima contenente i 3 singoli pubblicati in precedenza (oltre a quello sopra citato anche megapunk e el cielo no es de nadie) dalle note martellanti, aspre e aride, su cui perdere completamente la testa, e la seconda su cui accasciarsi stremati dopo il calo di tensione e d'energia, da ascoltare quando si è perso completamente il fiato, una parte più calma e dolce, dove brani come close e dominque assumono le sembianze di ninna nanne elettroniche per rientri casalinghi albeggianti in solitaria.
acts of rebellion è una magnifica scoperta che ad ogni ascolto avvolgerà in una nebulosona caotica di suoni, un esperimento innovativativo dove si è voluto contaminare la purezza del suono con la parola dando vita ad un genere assestante ed ad una delle uscite più interessanti di questo 2020. Perciò qualche settimana fa non mi sono fatta sfuggire l'occasione di un collamento Zoom Milano - New York per parlarne proprio con Ela che tra una domanda e l'altra mi mostra i marchingegni utilizzati per questo disco e ne approfitta per lavorare su alcuni poster con del molto visibile scotch rosa fluo.
Ciao Ela, com’è la situazione a New York in questo momento?
Va meglio, credo, è una situazione confusa perché sembra che tutto sia tornato alla normalità, ma ovviamente non è così. Cioè, la gente si comporta come se tutto fosse normale, solo che indossano una mascherina. Ma a parte questo la situazione è, non so, strana, ma migliore.
È complicato, anche perché, per esempio in Italia, la situazione sta peggiorando rispetto alla scorsa estate e non sappiamo bene cosa dovremmo fare (l'intervista è stata realizzata a metà ottobre, ndr).
Esatto, anche qui è così, mi sento come se tutti dovessimo star facendo qualcosa ma nessuno ne sta veramente parlando. Per questo penso che stiamo in un limbo, ma poi a volte vai fuori, tipo al parco, e trovi persone che si comportano come se non stesse succedendo niente. Ma speriamo che questa situazione migliori.
Credo ci sia un verso in una delle tue canzoni, dominique, che rappresenta la situazione attuale: «I am afraid I forget how to talk to anyone else that’s not myself». Quando l’ho sentito per la prima volta ho pensato “oddio, sono io in questo momento”.
Sai, è pazzesco, perché sei la seconda persona che me lo dice oggi. E per me è davvero incredibile perché quando ho scritto quella canzone mi ricordo di aver pensato tipo “penseranno tutti che sono pazza”, perché quando l’ho scritta non era così comune rimanere isolati per così tanto tempo. Quando stavo scrivendo la musica mi ricordo di aver pensato “spero che le persone possano identificarsi in un modo o nell’altro” ma ora ovviamente ha molto più senso.
Parlando di te, so che vieni dalla Colombia, e in effetti canti anche in spagnolo, inoltre ho letto che quando eri adolescente facevi parte di un gruppo tutto al femminile. Puoi raccontarmi qualcosa in più sulla tua vita? Per esempio, come mai ti sei trasferita negli Stati Uniti? E perché a New York e non a Los Angeles, per esempio?
Beh, mi sono trasferita negli Stati Uniti per l’università, perché ero entrata alla Berkley, che è una buona scuola di musica, avevo vinto una borsa di studio e sembrava davvero interessante, quindi… ad essere sincera, ho sempre voluto andare lì. Quindi mi sono trasferita a Boston per l’università, e poi durante il mio ultimo anno ho trovato lavoro come costruttrice di sintetizzatori in una compagnia con sede a New York. Per questo, dopo essermi laureata, mi sono trasferita a New York e non a Los Angeles o in un’altra città. È stato soprattutto perché volevo davvero fare quel lavoro, quando me l’hanno offerto ho pensato “questo è il lavoro dei miei sogni!”, e in quel periodo suonavo anche la batteria in un gruppo, e tutti i componenti del gruppo vivevano a New York, e mi sono sempre detta “andrò a vivere in qualsiasi luogo ci sia musica per me”, e quel luogo sembrava essere New York, sorprendentemente, perché non ho mai voluto viverci, ma comunque sono felice.
E quando sei passata dalla musica rock a quella elettronica?
È stato sicuramente in un momento in cui ero molto frustrata con la band di cui facevo parte perché avevo questa musica nella mia testa che avevo il bisogno di fare e non era rock, era musica elettronica, ma musica elettronica di un tipo ben preciso, come quella che sto facendo ora. E ho anche provato a farla con la mia band ma non ha funzionato, non mi prestavano molta attenzione quindi ho deciso di farlo da sola, ma non era una cosa seria. Non ho pensato tipo “inizierò questo piccolo progetto e sarà di musica elettronica”, è stato più una cosa come: avevo la mia vita, ero una batterista, avevo la mia band, questo era ciò che facevo, e poi parallelamente 4 anni fa avevo questa passione e questo amore per la musica elettronica che cresceva sempre di più, credo che iniziò perché quando ero più giovane ascoltavo i Radiohead, che usano diversi sintetizzatori, la drum machine… Da lì ho iniziato ad appassionarmi sempre di più alla musica elettronica e quando mi sono trasferita a Boston ho iniziato ad andare in discoteca. L’amore che provavo per la musica elettronica è sempre stato lì, ma ho deciso di farlo solo perché ho pensato “Fanculo, ho bisogno di fare qualcosa di diverso con la mia vita” ma non era niente di serio, non pensavo che sarebbe finita così, volevo solo scrivere canzoni per me stessa. Ed eccoci qui.
Credi che le tue radici colombiane abbiano influenzato la tua musica?
Sì, sicuro. Cioè, non in una maniera ovvia, non faccio direttamente una musica folclorica latino-americana. Ma credo di voler essere, spero, un esempio, che puoi essere assolutamente chiunque tu sia, anche latino-americana, senza cadere in dei modelli preimpostati che qualcuno ha creato prima di te. Voglio rappresentare una nuova generazione di artisti latino-americani che creano una nuova musica latino-americana, ma non deve necessariamente suonare come una cumbia o non dev'essere musica tropicale. Credo che la mia musica sia molto colombiana perché prima di tutto ha molti elementi melancolici che vengono dalla cultura latino-americana, e in più ha un lato politico. Credo che sia qualcosa di più profondo, la mia identità colombiana è molto più forte di come sarebbe se facessi cumbia, ma credo assolutamente che faccia parte di ciò che creo.
Parlando dell’album, quando hai cominciato a scriverlo e quando l’hai finito?
Ho iniziato a scriverlo all fine di agosto 2018 e l’ho finito circa a gennaio 2019.
Com’è stato il processo di scrittura di quest’album? Cioè, normalmente i musicisti scrivono la propria musica con un piano o una chitarra, come funziona per un artista di musica elettronica? Lavori prima sul beat o sul testo?
Per me succede tutto allo stesso tempo, perché il mio processo di scrittura è quasi old school in un certo senso. Ho tutti i sintetizzatori, non adesso, ma normalmente sono sistemati esattamente come quando suono dal vivo, quindi inizio a suonare come se stessi suonando in un concerto, registro e poi lo riascolto, scelgo le cose che mi piacciono di più e inizio a lavorarci di nuovo con i sintetizzatori. Faccio tutto senza computer. Per me inizia tutto con l’improvvisazione, su questo credo di essere diversa rispetto ad altri artisti di musica elettronica, perché come hai detto tu, solitamente si comincia con un pianoforte… Non lo so, abbiamo tutti un processo diverso ma per me è davvero importante iniziare ad improvvisare, e a volte anche il testo inizia da lì. Ovviamente poi scrivo di più ma la prima idea, il sentimento, esce sempre mentre sto improvvisando.
Ho letto che non ti piace usare elementi digitali per la tua musica, il che è abbastanza figo e inusuale. Che strumenti hai usato in questo disco e perché hai scelto proprio quelli al posto di altri?
Prima di tutto credo che per me sia una decisione molto organica, non è che ho deciso “userò l’analogico, non il digitale”. È più come quando ti innamori, mi sono innamorata di questo sound e forse in un paio di anni mi innamorerò dei computer ma per ora non è una decisione presa con la testa, ma totalmente con il cuore. Ho trovato che funziona meglio per me, poter toccare i sintetizzatori e poter suonare come se stessi suonando un vero strumento; credo che i sintetizzatori siano degli strumenti musicali veri e propri rispetto al computer. È divertente perché non ho molte cose, questi sono tutti i sintetizzatori che ho . Non sono uno di quei musicisti che collezionano e collezionano. Preferisco avere meno e usarlo molto bene piuttosto che avere tantissime cose e non utilizzarle mai. Quindi negli anni, quando lavoravo nella costruzione di sintetizzatori, compravo macchine molto classiche, come un MPC che è un sequenziatore – campionatore MIDI, così da poterle smontare e rimontale per imparare come funzionassero. Per questo ho un paio di pezzi vintage che sono il nucleo della mia attrezzatura, e ho una drum machine di cui mi sono innamorata la prima volta che l’ho vista, mi sono documentata su cos’era e ho pensato “è incredibile”, quindi l’ho comprata e la uso sempre, non ho mai avuto una drum machine, l’adoro. È più o meno lo stesso per tutto, ho un sintetizzatore di bassi e ho sempre usato quello, cambio le cose solo quando si rompono. Ho poca attrezzatura ma lo conosco davvero bene, e credo che questo sia più importante che averne tanta, e mi piace un sacco, per questo sto usando le stesse macchine che ho comprato anni fa per questo progetto e le stesse che ho usato per l’album.
Adoro l’album, l’ho ascoltato tipo sei volte. Mi piace molto il titolo acts of rebellion, lo trovo molto potente, forte. Perché hai scelto questo titolo?
Perché penso di voler invitare le persone, ogni singolo essere umano, a comportarsi in maniera ribelle, anche nelle piccole cose, nella vita di tutti i giorni. Credo di aver capito, scrivendo questo disco, che sono di natura una persona molto solida e tendo a ribellarmi… a mettere in discussione l’autorità e i modelli d’esistenza, un po’ tutto in realtà, come il modo in cui si fa musica, il modo in cui ci relazioniamo con le persone, mi ha sempre interessato sfidare le norme imposte e ridefinirle per me stessa e per la mia vita. Quando mi sono resa conto che l’album che avevo creato parlava di questo, ho deciso che era importante per questo momento della nostra vita, questo momento storico, invitare le persone a ribellarsi, a mettere in discussione, agire, alzare la propria voce, a organizzarsi e cambiare le cose se le vogliono cambiare, e se non le vogliono cambiare allora cercare di vivere bene la propria vita, più felicemente, sentendosi più liberi perché stai facendo ciò che vuoi tu, che è la cosa più ribelle che si possa fare in questo momento. Questa è la ragione del titolo.
Quindi credi che fare tutto ciò che si vuole è l’atto di ribellione più grande che un artista possa fare in questo momento?
Beh, nel modo in cui lo intendo io, sì, ma lo spiegherò meglio perché penso che potrei essere fraintesa [ride]. Penso che se sei una brava persona, e credo che la maggior parte di noi lo sia, se hai davvero un buon cuore, fare tutto ciò che vuoi è lo stesso che fare qualcosa di buono. Quindi puoi fare tutto ciò che vuoi e avremo un mondo migliore, in cui tutti sono onesti se le loro azioni vengono suscitate dall'amore, ciò che vogliono fare è buono anche per tutti coloro che gli stanno attorno. Può darsi che sia un po’ ottimista e che sia un’utopia credere che tutti siano buone persone , ma lo penso davvero. Se sempre più persone sono buone persone che fanno ciò che vogliono, allora possiamo vincere, perché saremo la maggioranza. Spesso penso che sia un grande problema storico, che le persone non facciano ciò che vogliono. Diventano sottomesse e fanno ciò che gli altri gli dicono di fare al posto di ribellarsi ed essere sé stessi. Intendo essere completamente liberi, in un certo modo.
Inoltre, sembra che l’album sia diviso in due parti, nella prima hai inserito canzoni più dure e, nella seconda, canzoni più dolci e calme. Hai la stessa sensazione e l’hai fatto di proposito?
Sì [ride], mi rende molto felice che tu l'abbia capito. Penso spesso a una frase che ho usato come motto per descrivere la mia musica, ovvero “musica luminosa per tempi oscuri”, e penso molto all’idea di luce e ombra, come non possiamo avere uno senza l’altro e spesso ci spingono a scegliere uno dei due. Le persone dicono “devi essere una persona positiva o negativa, devi essere felice o triste”, ci sentiamo sempre, o almeno io mi sono sempre sentita in dovere di scegliere uno dei due, non potevo scegliere entrambi. Sono una persona dolce, la mia personalità lo è, sono dolce e molto affettuosa e mi piace mostrare amore, quindi le persone mi conoscono così come sono, poi vanno ad un mio concerto e ascoltano la mia musica, soprattutto quando facevo una techno più dura, e rimangono sempre molto confusi, non riescono a capire perché faccia una musica così aggressiva essendo tanto dolce.
Mi ricordo che mi sentivo così confusa e infastidita perché mi sembrava che nessuno mi avrebbe preso sul serio se ero così dolce e pensavo “fanculo, posso essere dolce e allo stesso tempo fare il tipo di musica che voglio”. Cioè, puoi essere tutto ciò che vuoi. Ho pensato molto a questo quando stavo scrivendo l’album, quindi naturalmente entrambi i lati sono venuti fuori, come le canzoni più dure e quelle più dolci, me ne sono resa conto quando stavo mettendo in ordine le canzoni del disco e scegliendo quali sarebbero rientrate nell’album. Mi piace il fatto che sono riuscita a creare una prima parte che suona come se fossi in una discoteca, o a una protesta, con i tuoi amici, da ballare, e poi una seconda parte che suona come se stessi andando a casa, da sola, inizia ad essere un po’ più personale, come la seconda parte di una serata passata fuori, più diaristica. È come se ti stessi avvicinando a me, come se la prima volta che vieni ad un concerto, mi vedi, stiamo facendo festa insieme, stiamo ballando, e poi ti avvicini, mi conosci meglio, siamo più vicini e ti racconto cose più personali, e la fine è tipo “ok ciao ciao, ma ti terrò qui vicino a me”, che è ciò che dico nell’ultima canzone.
Infatti penso che Close sia la canzone perfetta per la fine dell’album! E per questo brano hai collaborato con Helado Negro, come siete finiti a lavorare insieme? Avete collaborato anche in passato, giusto?
Sì! In realtà mi ha invitata a cantare e ad aiutarlo un po’ con la produzione del suo album precedente, This Is How You Smile e ad essere sincera mi è sempre piaciuta la sua musica. È diventato una specie di padrino per i musicisti a New York, perché è una persona gentilissima, fa musica incredibile, è sempre pronto ad aiutare gli altri artisti, li aiuta attivamente, è una persona incredibile. Quindi, quando mi ha chiesto di lavorare all’album mi ha detto “voglio che tutti i miei amici lavorino a questo album ma non menzionerò nessuno di loro perché siamo tutti insieme e non riguarda nessuno in particolare”, mi è piaciuta molto l’idea, e poi ha detto “non posso pagare nessuno però se in qualsiasi momento vorrai che ti restituisca il favore, ci sarò”. Mi ricordo che avevo la canzone terminata ma senza la sua voce, e un’amica mi ha detto “credo che questo brano sarebbe perfetto per un duetto”. E all’istante ho pensato a Helado, e mi sono detta “Devo chiamarlo, chiederglielo” ed è stato tutto molto naturale, sono andata a casa sua, al suo studio, e dopo averla registrata era perfetta. È stato molto naturale.
Quali sono state le influenze in questo album? Ho letto che hai menzionato Kraftwerk, Daft Punk, Fugazi, tante cose diverse tra loro.
Sì [ride], più o meno tutti gli artisti che hai menzionato ma anche altri come Molly Nilson, John Maus… ascolto tantissima musica!
Una curiosità, sono appassionata di fotografia e guardando le foto del press kit ho visto che sono quasi tutte in bianco e nero con un piccolo quadrato rosa. C’è una ragione per questa scelta?
Volevo creare tutto un artwork su una specie di distopia che avrebbe dato il via ad una rivoluzione, se vedi dei poster per le strade con scritto “atti di ribellione” mentre cammini per la tua città , li immagini in bianco e nero, non a colori.
Credo che questo rifletta anche ciò che hai detto prima, il fatto che l’album sia diviso in una parte chiara e in una oscura.
Bella idea, non ci avevo mai pensato. È incredibile come gli artwork e i nomi delle cose, dopo essere stati rilasciati nel mondo, cambino significato a seconda della prospettiva che le persone hanno. Cioè, tante persone mi hanno detto che adorano il bianco e nero perché pensano che sia un riflesso di quanto siamo divisi in questo periodo storico e delle ingiustizie razziali. A dire la verità non ci avevo mai pensato ma mi piace molto che le persone lo percepiscano così.
Si tende a pensare alla musica elettronica come un mondo dominato dagli uomini. Tu senti questo gap in questa scena musicale?
Sì, assolutamente, credo che non sia una questione di avere un’opinione su se ci sia o meno questa mancanza, per me questa mancanza è evidente e reale, e credo sia stupido, un pensiero reazionario. Esistono artisti di musica elettronica incredibili che creano musica incredibile e credo che tutti, anche le donne, debbano fare uno sforzo consapevole per includere di più altre donne. Ho tantissima voglia di distruggere il patriarcato, siamo qui, ci sono così tante donne che creano musica incredibile, e penso che sia una responsabilità anche femminile di includersi a vicenda, tanto quanto è una responsabilità maschile.
Cosa suggeriresti ad una giovane ragazza che vuole fare musica elettronica?
Di farlo e di avere molta pazienza, di farlo tutti i giorni, di non mollare mai. So che sembro molto sdolcinata, ma davvero, non mollare mai, ma allo stesso tempo sii paziente e fidati di te, che se fai le cose per le ragioni giuste, con il cuore, il mondo lo noterà e tutti ti ascolteranno. Ma devi continuare a farlo e fidarti del fatto che succederà se lo fai bene, e con bene intendo con il cuore, senza aspettarti nient’altro dalla musica se non amore.
Un ringraziamento di cuore a Gaia Bandizol per la traduzione.