Il fiore dell'ibisco si contraddistingue per i pochi petali grandi, solitamente di color rosa, scarlatto, giallo o bianco, che circondano un pistillo molto grande. Fiorisce nei mesi più caldi, tra giugno e settembre e proviene dalle zone più temperate dell'Asia. In poche parole, sono quelli che nell'immaginario comune si associano alle Hawaii. I latini dicevano nomen omen, ma nel caso di Filippo Giglio, in arte Ibisco, ci troviamo di fronte ad un ossimoro. Ascoltando il suo disco di debutto, Nowhere Emilia (V4V / Virgin Records), uscito il 14 gennaio, ci si immerge infatti in un'atmosfera notturna, in ombra, in cui a farle da padrone sono le tinte del nero e del grigio piombo; l'ascoltatore si trova al centro della regione del titolo, ma di fronte a lui si apre una Pianura Padana infinita, l'occhio si perde in un orizzonte coperto da una nebbia rarefatta dove ogni cosa perde i propri nitidi contorni, le luci si fanno bagliori flebili e lattiginosi e all'occhio appare tutto uguale, monotono. È la desolata e sconfinata provincia delle statali che tagliano di netto la campagna, dei mostri di cemento incompiuti, postmoderna, postindustriale, post-tutto, quella che ti inghiotte e che ti lascia ben poche scelte: fuggire o adeguarsi ad una vita come tante.
Di musica ne ingeriamo ogni giorno tanta, si dice che la consumiamo, facciamo fatica a stare al passo di centinaia di uscite settimanali e, personalmente, saranno gli anni che passano, ma faccio sempre più fatica a trovare qualcosa che mi rimanga addosso, che mi colpisca allo stomaco, che mi rimbombi nelle orecchie per giorni. Ibisco è riuscito nell'impresa unendo un cantautorato a tratti ermetico e crepuscolare a basi elettroniche dove beat e drum machine si mescolano a giri di bassi degni dei migliori Joy Division (correte ad ascoltare Chimiche e Tintoria). A riflettere le atmosfere di questa Emilia inedita, del suo dark side, dipinto in 10 atti, ci pensa la voce di Filippo, che non poteva che apparire velata dalla malinconia, anche se a tratti è capace di avere un che di sensuale e che passa dal travolgerci con l'entusiasmo, "Ragazzi, panico sui viali", (Ragazzi nuovo inno generazionale, subito), all'accarezzarci le corde più sensibili e nascoste del nostro animo con brani minimalisti e intimi come Meduse e Luci.
Ci troviamo di fronte ad un Cosmo 2.0 dall'anima new wave, un cantautore raro nel suo genere, controcorrente, che è facile accostare all'artista di Ivrea non solo per l'uso insolito dell'elettronica nelle basi ma anche per il coraggio di fare ciò che si vuole, abbracciando a pieno il vero significato della parola indipendente. Travolta dal sound e dalle tematiche trattate in questo disco non potevo che chiedere un'intervista ed eccomi a passare mezz'ora al telefono con Filippo a parlare, tra le altre cose, di Bologna, Pier Paolo Pasolini, Luigi Ghirri, e tormenti interiori.
Filippo voglio dirti una cosa citando un film uscito recentemente: non ti disunire.
Un elemento a partire dal titolo che è molto presente è quello dell’Emilia-Romagna e di Bologna, dove tu sei cresciuto. Innanzitutto, tu sei nato e cresciuto a Bologna città oppure in provincia?
Allora io sono nato a Bologna città, son cresciuto sempre in provincia, fra Bologna e Modena a dir il vero, è l’ultimo comune prima di Modena il mio, quindi sono un po’ al confine, c’è questo rischio di ambiguità per cui potrei essere scambiato per un modenese anche se non vorrei perché c’è una rivalità, ci sono delle differenze sostanziali.
Diciamo che l’Emilia Romagna è famosa per queste rivalità.
Per questi micro-campanilismi.
Tra l’altro questa cosa di venire dalla provincia è una cosa che sento molto vicina perché anche io vengo da un piccolo paese in Veneto e io e te siamo pure dello stesso anno. Una cosa che ho notato nella nostra generazione è che c’è una particolare insofferenza nei confronti della provincia, come un bisogno costante di scappare, verso la grande città ad esempio. È così anche per te?
Per me sì però io in un certo senso poi sono contento anche di restare in provincia perché gli stimoli te li dà questa voglia di riscattarti, se uno rimane in provincia riesce a reiterarla per sempre, mentre se uno va in una grande città in un certo senso deve poi farci i conti, deve fare delle conclusioni, perché se tu vai in una città con degli obiettivi, con delle aspettative, poi non puoi più vivere di quel beneficio del dubbio che ti dà la provincia, no? Che a me piace, piace rimanere in provincia e, come dire, fare delle cose, o per lo meno provarci non andando in una grande città, cioè sto dando una nuova dignità alla provincia, anche una nuova autonomia, se vogliamo. Quindi sì, l’avverto anche io questo senso di… Io lo penso comunque come un desiderio di riscatto, una possibilità di avere un desiderio di riscatto che non è una cosa così scontata, perché magari uno nasce in città, ha già tutto, e quindi non vive questa cosa qui che poi lo può portare a fare delle cose con un certo tipo di urgenza, di esigenza. Quindi è una fortuna e una sfortuna allo stesso tempo, ecco. C’è questa duplice occhiata.
Anche se però poi nel CS che mi hanno mandato ho letto che tu sogni Manchester e Berlino comunque.
Eh sì, sì sì sì, a Manchester non sono andato ma diciamo che la musica di Manchester è forse la mia preferita. A Berlino invece ci sono andato e mi ha colpito molto come città, cioè sono quelle realtà in cui veramente qualsiasi angolo costruisce un immaginario molto forte, molto contaminato, veramente enorme da quel punto di vista lì, creativo anche se vogliamo. Quindi sì, veramente a livello di immaginario culturale sono le due città che forse prediligo.
Prossimo obiettivo rendere la provincia la prossima Berlino!
. Sarebbe bello però! Anche solo delle foto… Mi accontento delle foto.
Tornando a Bologna, una delle canzoni del disco è Bologna Nord. Bologna come città quanto è stata importante per te?
Molto devo dire, nel senso che tutte le mie serate a Bologna, dove in un certo senso chi abita in provincia compie questo atto di pseudo migrazione: prende la macchina, deve trovare parcheggio, che non si trova spesso e volentieri, difficilmente. E poi a Bologna c’è la serata per eccellenza, c’è la serata universitaria, c’è la serata, diciamo, all’aperto, dove si beve all’aperto, dove ci si ubriaca all’aperto, e questo devo dire dà molti stimoli secondo me, nel senso che poi crea delle spaccature anche dentro, perché le serate se fatte in quel modo lì creano delle spaccature che con la musica uno cerca di recuperare, cerca di raccontare, di dare anche un senso, poi ognuno c’ha il suo modo di sopperire a questo tipo di esperienza che ti porta un po’ ad avere dei sentimenti contrastanti all’interno.
Oltre magari alle serate fatte a Bologna, ci sono altri elementi tipici di questa città che tu hai inserito in questo disco?
Beh sì, nel senso che anche tutto l’immaginario urbano di Bologna è molto caratteristico, le persone di Bologna sono caratteristiche, è una città a misura d’uomo, quindi che in un certo senso non ti sovrasta, ti dà la possibilità di fermarti e rifletterci, a differenza secondo me di Milano, dove le volte che ci sono stato mi ha sempre dato un’impressione molto differente, cioè è una città che non riesci a controllare; io non vivo a Milano quindi non riesco a dirlo, però difficilmente riuscirei a sentirmi a casa a Milano così come mi ci sento magari quando vado a Bologna, perché anche Bologna non è la mia città però quando ci vado non so perché ma mi sento a casa. Quindi ti dà la possibilità di raccontarla in un modo diverso da come si racconterebbe ad esempio Milano o città molto più grandi, che ti inghiottono in un modo differente.
E un posto di Bologna che vorresti consigliare?
Allora, devo pensarci. Vabbè la Bolognina secondo me è molto interessante, perché questo è un quartiere dietro alla stazione… ce ne son tanti eh… Anche il Pratello, insomma dove la sera c’è più movimento. La Bolognina, sembra un po’ Berlino a tratti, adesso stanno costruendo nuove cose, però c’è anche un po’ lo stereotipo della Bologna degradata. Devo dire che c’è, sicuramente ci sarà, non voglio mettere in dubbio questa cosa però quel quartiere lì è molto più bello di quanto si racconti, secondo me. Anche la zona di Stalingrado… ma Bologna è piena di belle zone. La zona universitaria è bellissima, ce ne son tantissime.
Invece prendendo un po’ l’Emilia, allargando diciamo, secondo me quella che tu descrivi è molto distante dall’immaginario collettivo, che è fatto dalla Riviera Romagnola, le balere, Bologna come la città idilliaca dove vivere se sei uno studente. È tutto molto più buio, più malinconico, si parla molto di droga, c’è molto più disagio.
[ride] Mah sì io cerco di raccontare con questo disco in realtà, al di là degli spazi fisici che uno può esperire proprio anche in maniera oggettiva, quelli che sono i luoghi della mente che questi posti creano, in questo senso non-luoghi, nowhere, cioè questa sorta di spazio connotato molto da una soggettività di ciascuno di noi, che va ad intersecarsi anche con quelli che sono i luoghi reali però che sono, appunto, anche distanti dalla civiltà. Parlo della Pianura Padana, dove io passo spesso in macchina e veramente mi scava dentro quella cosa lì, è incredibile, io amo guidare in mezzo a questi campi con la nebbia, un po’ queste atmosfere ghirriane, se vogliamo, Luigi Ghirri (lo interrompo un secondo e dico: sì sì sfondi una porta aperta ndr). Ecco mi piaceva raccontare anche questa cosa qui. Quello lì è un sentimento che effettivamente vive dentro di me, cioè quel tipo di desolazione, quella distesa infinita di nulla dove per assurdo uno trova molto di più sé stesso, cioè per lo meno a me succede così, è lì che veramente riesco a mettermi a nudo, a non pensare a nient’altro che ai miei tormenti, alle mie ansie interiori, alla risoluzione dei miei dubbi esistenziali, quindi cerco di raccontare questo aspetto qui. È ambiguo, cioè può essere nulla come può essere tutto.
Si può dire che questo tuo modo di approcciarti alla musica, che da quanto ho capito è molto uno scavarsi dentro, è stato in un qualche modo curativo?
Mmm devo dire che io attraverso la musica riesco a comunicare cose in un modo più o meno ermetico, perché per alcune non credo che sia così immediato il discorso, però riesco a comunicare cose che altrimenti farei fatica a raccontare e quindi in un certo senso sì. Dall’altra parte invece mi rendo conto che quando il disco non era ancora fuori il mio problema era appunto non vedere l’ora che uscisse, [ride] ma mi rendo conto che i problemi, i disagi interiori si aggiornano continuamente, quindi si riprogrammano sulla base di quello che è fuori di me e quello che di nuovo è dentro di me.
Non finiscono, non finiscono mai [rido].
Cioè curativo rispetto a quella proiezione temporale in cui i miei problemi riguardavano il disco, l’uscita del disco, e questo desiderio di comunicare attraverso la musica. Ora li ho rinnovati, ma sono problemi che ripeto, in un modo anche un po’ masochistico, poi alimentano la creatività, l’urgenza di scrivere. Io credo molto in questo masochismo artistico, cioè uno per scrivere deve avere un po’ questo tipo di turbamento, questo tipo di disagio, questa anche incomunicabilità dei sentimenti che devono venir fuori in qualche modo, che non sia la normale chiacchiera con gli altri, che riesca ad aggregarsi intorno a forme di comunicazione un po’ più complesse, articolate, quali possono essere appunto le canzoni, le fotografie, i dipinti, ognuno poi c’ha i suoi modi di esprimersi: un vestito, un racconto, un testo, un romanzo, non lo so! Sono infinite, nel mio caso mi piace pensare che sia la canzone, la musica.
Dal punto di vista tecnico, come hai lavorato a questo disco? Come sono uscite queste canzoni? Te lo chiedo perché un paio di anni fa ormai ho intervistato un’artista, che non so se conosci, si chiama Ela Minus, lei è molto simile a te, perché anche lei unisce elettronica e cantato e mi diceva che le canzoni erano nate sostanzialmente dall’improvvisazione, lei iniziava a improvvisare con tutti i sintetizzatori, tutte le macchine che aveva, e poi su questo ci cantava. Mentre per te come funziona?
Allora anche io credo molto nella, chiamiamola, jam session solitaria, spesso e volentieri elettronica, ti metti lì ad un computer, con un dispositivo che ti permette di registrare delle cose, e inizi a buttare giù materiali, inizi a buttare giù roba, inizi a creare un mood, inizi a creare una sorta di suono che costituisce un ambiente su cui tu poi puoi improvvisare, appunto, cantando. Io spesso e volentieri creavo delle basi, all’inizio lo facevo col cellullare. Quello che mi piace pensare è che per scrivere non sia necessario in fondo avere una produzione di partenza così buona, perché devi innanzitutto, secondo me, crearti un mood, uno spazio in cui puoi muoverti con la voce, da quel punto in poi… Anche io credo molto nell’improvvisazione, ma anche del testo, cioè spesso e volentieri le parole che poi rimangono nelle canzoni sono quelle che mentre improvvisavi per qualche motivo sono uscite, per cui poi ti sei affezionato e hai costruito intorno il resto. Quindi sì, l’approccio è un po’ questo, cioè buttare giù delle, chiamiamole, basi, giusto per creare quel poco che basta per creare uno spazio in cui poi uno possa dare sfogo a idee musicali e testuali, improvvisando con la voce, iniziando a cantarci sopra. È per questo che forse a volte i miei testi appaiono un po’ destrutturati, non si capisce qual è il ritornello, non si capisce qual è la strofa, perché io fondamentalmente non credo che questi siano valori che abbiano un senso di base, cioè lo possono avere però sempre se tutto è finalizzato alla comunicazione sincera di qualcosa, è quello secondo me che alla fine conta per me. Io quando sento parlare di strofa, bridge, ritornello, le trovo parole un po’ vuote, nel senso che poi i miei pezzi preferiti dei Radiohead non hanno neanche il ritornello, han solo la strofa, non si capisce… Poi non che io disdegni il ritornello, ci mancherebbe, però non è una realtà a priori, non è una verità a priori quella lì per me. Questa è la mia filosofia.
Tra l’altro è curioso, perché tu e quest’artista che ho appena citato, avete un altro elemento in comune: il fatto che tutta la vostra parte visuale, quindi le foto, i video, sono tutti in bianco e nero. Nel tuo caso, come mai questa scelta?
Allora è una scelta duplice, nel senso che da un lato è una scelta di convenienza perché col bianco e nero uno riesce a dare un’uniformità, una coerenza, sebbene non abbia, casomai, la possibilità di eccellere a livello qualitativo con quello che propone a livello visivo. Però il bianco e nero in un certo senso è una livella, cioè qualsiasi foto che tu fai, che abbia un minimo di rappresentatività, portata con il bianco e nero in un certo tipo di mondo crea una coerenza rispetto a tutte le altre foto. Invece l’altra motivazione è di natura più, come dire, poetica, perché col bianco e nero ci si concentra maggiormente sul soggetto, dal mio punto di vista è togliere, una membrana di… non di finzione, però di qualcosa da cui il colore può distrarre, talvolta dal soggetto che si va a raffigurare. E poi diciamo che è anche più triste, più cupo, più dark, esprime questo tipo di sentimento qui, che insomma, non per essere banale, è quello che io cercavo, quindi banalmente il bianco e nero in effetti è più triste, è più cupo, è più oscuro.
Insomma, è coerente con il mood del disco.
Sì lo trovavo più coerente con il mood del disco, poi aggiungo che non penso e non credo, non è detto che rimanga per sempre questa cosa qui perché poi dopo un po’ diventa autoreferenziale, non mi piace come idea, però questo primo disco è trainato molto da questa cosa qui e la sentivo veramente necessaria come operazione di identità visiva.
Però ho notato che nel video di Chimiche ci sono delle scene colorate, ci sono degli sprazzi. È un caso?
Anche qui c’è un doppio motivo. Il primo è che quel video lì è un po’ una citazione forse a Enjoy The Silence dei Depeche Mode, dove c’è questa alternanza tra bianco e nero indoor e colore outdoor, con una telecamera anche vecchia e malridotta, malmessa. L’altro motivo invece è di natura narrativa, nel senso che quello che viene rappresentato a colori è quello che nella canzone simboleggia, diciamo, l’agente chimico, biologico, che in un certo senso ci rende inconsapevoli dei meccanismi che accadono dentro il nostro corpo, che spesso sono le emozioni, i sentimenti, cioè noi non siamo padroni di queste cose, quindi il colore andava un po’ a riempire quelle scene che avevano una natura un po’ fuori dal racconto, fuori dalla diegesi del racconto, quindi volevo solcare questa distinzione tramite l’uso del colore. Poi era anche interessante, appunto, pensavo potesse alimentare la curiosità di quei pochi che mi seguono, nel senso che io ho sempre usato il bianco e nero e l’idea di avere il colore poteva porgli degli interrogativi.
Quindi era voluto il fatto che me ne rendessi conto!
Sì sì era l’ultimo singolo e ho detto “dai giochiamoci il colore”, anche perché se no diventava un po’… Per me era proprio bella questa cosa di usare il colore così, sull’ultimo videoclip prima del disco, apriva un po’ delle possibilità anche sul futuro, anche a livello di percorso visivo poteva avere un senso. Un principio di trasformazione, chi lo sa. Sono interrogativi che mi pongo anche io rispetto a me stesso poi.
Se si parla di bianco e nero e di musica la prima band che probabilmente viene in mente sono i Joy Division, la copertina di Unknown Pleasure che è iconica. In queste canzoni secondo me ci sono un sacco di elementi che li richiamano, basta pensare ai giri di basso di pezzi come Chimiche o Tintoria. Loro sono effettivamente tra gli ascolti che più ti hanno influenzato?
Sì assolutamente sì, ma non solo. Cioè la mia comunicazione, il mio immaginario è molto di quel tipo, è molto new wave, però tra gli ascolti che mi hanno influenzato (sicuramente i Joy Division, sì certamente), ma anche MGMT, Arcade Fire, gli stessi The Horrors in Chimiche, insomma chi li conosce trova qualcosa. Poi vabbè di italiani, io sono un grande appassionato di Baustelle, non so se si senta, questo è un dubbio che ho, forse no, nessuno me lo dice mai quindi meglio così, io sono veramente fissato con loro e non vorrei mai che si sentisse troppo cioè sarebbe un po’ cringe come cosa: “allora ti piacciono i Baustelle”, “assomigli ai Baustelle”, “sei tipo i Baustelle”… Però sì, apprezzo i CCCP, Cosmo che tu hai menzionato prima, assolutamente, Dalla…
E tu nel video di Ragazzi hai una felpa dei DIIV.
Sì sì sì [ride], i nuovi Joy Division. Per me loro sono un po’ i nuovi Joy Division, per certi aspetti.
Parlando di Tintoria, si apre con un sample di un monologo di Pasolini, giusto? Come mai hai voluto prendere proprio quelle parole e attingere da quest’autore?
Sì sì, allora questo autore per me è un genio nel senso che, a parte il fatto che è dalle mie parti, di questa terra, a me Pasolini piace molto come autore, poeta, come tutto, nel senso che è un genio, anche come regista. La canzone è una canzone che in certo senso vuole provocare il perbenismo, questo tipo di mentalità in modo più o meno consapevole, autoreferenziale, mi piace l’idea che questo testo costruisse un po’ delle immagini che andassero a, come dire, disarcionare l’equilibrio delle menti benpensanti, mettiamola così, e chi meglio di Pasolini poteva introdurre questo tipo di discorso. Quel particolare monologo lì, secondo me, è interessante, non volutamente molto attuale, nel senso che si parla di potere, si parla di questo genere di cose, nel senso che poi il potere ha senso là dove fa star bene le persone su cui agisce, nel momento in cui il potere non fa star bene le persone su cui agisce si delegittima. Mi piaceva questo tipo di introduzione, molto forte, quelle parole lì. Mi piaceva l’idea di usarle. Sono ancora molto indietro, nel senso che devo leggere ancora tanto di Pasolini però quel poco che ho letto, che ho visto, mi ha veramente colpito tanto.
Tu hai chiuso il disco con una canzone che si intitola Luci che a livello di sound comunque sembra più leggera, molto meno cupa rispetto alle altre canzoni. È un caso il voler chiudere un disco così cupo con una canzone che si intitola proprio Luci?
No, non è un caso, nel senso che volevo chiudere con un pezzo che fosse simile a quello con cui abbiamo aperto, cioè volevo che ci fosse una sorta di circolarità, si apre con Meduse, che è un brano piano e voce e si chiude con un pezzo come Luci, che è molto scarno anche esso, c’è il piano, una chitarra un po’ strana, un Mellotron e basta. Mi piaceva anche l’idea di chiudere con un pezzo che appunto desse un po’ una speranza, una luce. Il disco penso che sia abbastanza pessimista e nichilista di base, però io non ti nego che apprezzo comunque gli slanci ottimistici, cioè i modi di vivere che in un certo senso cercano di essere protagonisti, di guidare loro il proprio destino, sebbene il mondo faccia schifo, cioè questo di base per me è vero sempre. Però non è un buon motivo per non far niente, per arrendersi, per vivere passivamente. Ecco credo molto in chi vive attivamente e questo sì era un po’ un pezzo che non voleva lasciare un solco troppo grosso in chi ascolta il disco, quei pochi che se lo ascolteranno dall’inizio alla fine, perché poi adesso è una cosa che è molto raro che accada. Però io credo molto nel disco, credo molto nel peso specifico del disco, in relazione al fatto che io penso che se la musica vuole competere con le altre arti, non può abbandonare il disco, dev’essere l’unità minima sensibile perché se no… cioè se fai uscire un singolo poi dopo due settimane non vale più niente, con il disco puoi metterti lì, creare un immaginario, un concept, qualcosa che abbia un penso importante secondo me. Io sono per preservare questo tipo di dimensione, a discapito di quella che è la convenienza reale, perché fare un disco non è che convenga così tanto. Cioè conviene per fare i live, fare 10 pezzi piuttosto che 7,6 boh, conta il giusto in quei termini lì, però io credo molto in questa cosa qui, dare un pacco di canzoni che abbiano un certo tipo di consistenza.
E per questa canzone hai preso spunto da qualcosa in particolare? Perché ascoltandola la prima cosa che mi è venuta in mente è I’ll Try Anything Once di Julian Casablancas e Ask Me Anything degli Strokes. Cioè me le ha ricordate tantissimo.
Ah sì! Ask Me Anything per me è uno dei miei pezzi preferiti del terzo disco degli Strokes. La prima che hai detto invece è una sorta di nuova versione di un altro pezzo che è sempre in quel disco lì. Quel Melloton lì, quel pezzo lì degli Strokes effettivamente mi ha stregato, probabilmente è una reference inconsapevole perché è uno dei miei pezzi preferiti. sì sì, l’hai beccata! Quei due pezzi lì son bellissimi.
Siamo arrivati all’ultimissima domanda, il disco si apre con Meduse, che è stato anche il tuo primo singolo, il tuo debutto. Come è stata la gestazione del disco? Perché leggevo che comunque tu con il tuo produttore Marco Bertoni hai iniziato a lavorare nel 2019, quindi immagino sia stato un lavoro abbastanza lungo.
È stato un lavoro lungo e su molti pezzi ci siamo tornati sopra perché, come immagini, quando per molto tempo tieni fermo un disco per motivi più o meno dipendenti dalla propria volontà c’è questo desiderio, insomma, si ascoltano nuove cose nel mentre, si ha una percezione di sè stessi e della musica differente, quindi vien voglia finchè si è in tempo di intervenire su quello che ancora deve uscire. Quindi da un lato è stata lunga a priori perché abbiamo lavorato molto sui pezzi, dall’altro in virtù del fatto che per colpa del covid un po’ si è ritardata l’uscita, non lo voglio negare, non lo voglio nascondere questo, mi è stata data la possibilità di tornare sopra i pezzi, diciamo di aggiornarli all’ultima versione che mi facesse stare bene con loro, non che prima ci stessi male, però… e sono dell’idea che finchè una cosa non esce si fa bene sempre a cercare di tirare fuori anche solo quello 0,1% in più, quindi è stata lunga come gestazione, è durata un paio d’anni però poteva benissimo durare un anno, che comunque è tanto eh.
Si ringrazia Silvia Violante Rouge per le foto.