Secondo album significa anche voglia di sperimentare, questo lo sanno bene gli shame, band britannica fresca di nuova uscita, l’Lp Drunk Tank Pink. Il post-punk, marchio di fabbrica del quintetto, è qui ripresentato con toni sfumati, emotivi, tutti ricercatissimi, grazie alla brillante idea di mescolarlo a formule dance, pensate durante le fasi di composizione e registrazione. La sporcizia di Songs of Praise è ripulita, ma i pensieri si fanno più cupi e più intimi: la voce fatica a emettere suoni per la troppa sofferenza interiore. Momenti di tregua per gli shame? No, perché non sanno cosa sia deporre le armi. Loro fanno sul serio: hanno scelto per Drunk Tank Pink il produttore James Ford.
Il chitarrista Eddie Green, da noi intervistato, riflette sul 2018 e 2019 mentre accenna un sorriso. Ripensa al periodo in cui, da ragazzini dei sobborghi che fanno musica per divertirsi, gli shame sono diventati una band di successo. Un percorso che li vede ancora inarrestabili. Con lui, abbiamo parlato del nuovo album.
Eddie Green, come sta reagendo il pubblico a Drunk Tank Pink?
«Per il momento sembra bene. Siamo appena entrati per la prima volta nella top 10 della classifica nel Regno Unito e in Germania, ovviamente è bellissimo. Sì, per ora tutto sembra positivo, il che mi rende felice, perché abbiamo fatto un po’ una deviazione rispetto al primo album, quindi, sì, sembra che per ora stia andando bene».
Il vostro nuovo album è pieno di influenze musicali, come ci siete arrivati?
«Penso che durante due anni di tour, suonando le stesse canzoni ad ogni concerto, inizi ad esplorare altre idee. Abbiamo iniziato ad ascoltare molte band come The Talking Heads e artisti simili una volta tornati a casa dopo il tour. Credo che siamo maturati un po’, non so! Allo stesso tempo, dovendo suonare sempre lo stesso set di canzoni per tutto quei mesi, si inizia in modo naturale a esplorare altre cose».
Come ha detto Charlie in precedenza, Drunk Tank Pink parla di cuori infranti, di sogni e del subconscio. Secondo te, scrivere i testi di questo album lo ha aiutato ad affrontare i suoi problemi?
«Credo che per Charlie sia stato importante esplorare quel lato delle cose. Penso sia naturale che questo si noti nei testi quando si comincia qualcosa di nuovo, come un nuovo album. Quindi credo che per lui sia stato certamente un modo di reagire a questi problemi e per il resto della band questo ha ispirato il lato strumentale dell’album».
L’industria musicale ha appena cominciato a parlare di salute mentale. Secondo te, credi che si sta facendo abbastanza su questo argomento?
«Penso che sia assolutamente importante e sono felice che si stia iniziando a parlare molto di più dell’argomento. All’interno del settore, non si può fare più di tanto, perché credo che qualsiasi tipo di aiuto riguardo la salute mentale debba cominciare dalle persone che ti stanno più vicine. Quindi, ritengo che l’unica cosa che possa fare l’industria musicale sia aprire la discussione e fare in modo che la gente ne parli. Per migliorare le cose, bisogna stimolare l’apertura mentale sull’argomento e dare alle persone una piattaforma in cui discuterne più ampiamente. Sicuramente siamo sulla buona strada, poiché non è più un tabù come lo era anni fa, ed è una cosa positiva».
Il vostro primo album, Songs of Praise, è stato un grande successo. Ve lo aspettavate? E come siete riusciti a raggiungere questo risultato?
«Non credo ce lo aspettassimo perché, sai, essendo una band nuova e avendo appena pubblicato il primo album, non hai nulla su cui basarti e non hai idea di quale sarà la reazione del pubblico. Quindi, di certo non ce lo aspettavamo e per quanto riguarda come abbiamo raggiunto questo risultato, è una domanda molto difficile, perché non avevamo nessuna esperienza di come fosse pubblicare un album. Siamo stati in tour in Gran Bretagna e un po’ in altri paesi, ma molto poco, quindi questo riconoscimento globale non era assolutamente qualcosa di aspettato. Ed è difficile determinare precisamente come ci siamo riusciti, è qualcosa che credo sia semplicemente successo. È un album che entra in risonanza con le persone, il che è bellissimo e molto fortuito, ma è impossibile capire come siamo riusciti a raggiungere questo risultato, perché non ce lo aspettavamo per niente».
La Brexit sarà un grandissimo problema per gli artisti inglesi, perché sarà difficile organizzare concerti fuori dal Regno Unito. Ne avete già discusso tra di voi o con il vostro manager?
«Sì, di sicuro la Brexit creerà molti problemi per i nuovi artisti inglesi. Ne abbiamo discusso tra di noi, alcuni di noi faranno richiesta per la cittadinanza irlandese, il che renderà le cose un po’ più facili, ma è complicato dire con precisione quanto sarà difficile perché ancora non conosciamo tutti i dettagli. A causa della situazione con il Covid-19, le regole non sono ancora state messe in pratica e non sono ancora state testate, quindi nessuno per ora sembra sapere bene esattamente quanto sarà complicato, credo che dovremo aspettare fino a che potremo di nuovo tornare in tour prima di capire quali saranno tutte le ripercussioni della Brexit».
Quindi, quale sarà la soluzione?
«No, non penso ci sia solo una soluzione, in realtà. Se il Governo vuole che la musica dal vivo continui a prosperare come ha fatto in passato, allora dovrà prendere dei provvedimenti al riguardo, ma, come ho detto prima, ovviamente a causa del Covid-19 nessuno sta facendo concerti in questo momento, nessuno ha avuto la possibilità di capire quanto la situazione sia grave».
Drunk Tank Pink è pronto da marzo dell’anno scorso, avete avuto tempo di scrivere nuove canzoni? Se sì, di cosa parlano?
«Ovviamente abbiamo avuto molto tempo libero quest’anno, perché non siamo andati in tour, quindi un paio di mesi fa siamo andati in Norvegia, per iniziare a scrivere il terzo album, perché non avevamo nient’altro da fare. È difficile definire di preciso il tema delle nuove canzoni, perché stiamo ancora cercando di capire la nuova direzione che vogliamo prendere, e sperimentare nuove forme di strumentazione e cose del genere. Ancora non c’è un’idea precisa riguardo a che strada prenderà il nuovo materiale, perché ovviamente abbiamo appena cominciato, il secondo album è appena uscito letteralmente la settimana scorsa, quindi non c’è ancora niente di scolpito nella pietra, è ancora tutto aperto a cambiamenti».
Parlerete di politica o questa volta non toccherete l’argomento?
«Chi lo sa? Cioè, sembra che stavolta sarà il lato strumentale a ispirare i testi, e sono due entità separate nella band. Quindi, per quanto riguarda gli argomenti delle canzoni non so dove andremo a parare, per ora, perché ovviamente, come ho detto prima, abbiamo appena rilasciato quest’album, quindi il terzo sembra ancora molto lontano».
Tutti sanno che gli shame erano compagni di scuola che suonavano all’ultimo piano del Queen’s Head, ma non sappiamo come avete deciso di iniziare a scrivere musica, e quali artisti ascoltavate da ragazzi. Puoi raccontarmi qualcosa di più?
«Quando abbiamo iniziato fu durante un’estate molto lunga, eravamo adolescenti, ascoltavamo molte band diverse, nello specifico io e Charlie e Josh ascoltavamo molte band come The Stooges e band simili, come The Damned e gruppi un po’ old school. E poi, mentre la band iniziava a svilupparsi, ascoltavamo tantissimo The Fall, e ci ha preso tanto la musica quanto il loro atteggiamento. Quindi, credo che sicuramente The Stooges e The Fall siano due gruppi fondamentali per quanto riguarda il periodo in cui abbiamo iniziato a suonare, da adolescenti al Queen’s Head. E credo che essendo tanto giovani siamo stati influenzati anche dai nostri contemporanei, dalle altre band sulla scena, come Fat White Family, Childhood, King Krule, perché ci trovavamo in un ambiente molto simile al loro, eravamo giovani e non affermati, quindi sono stati delle figure immediate a cui potevamo aspirare».
Sembra che la scena post-punk inglese stia fiorendo in questo momento, con artisti come voi, gli Idles, Fountains D.C., Black Midi. Cosa ne pensi? Pensi che questo suono stia tornando? Avete dei rapporti con qualcuno di questi gruppi, in particolare?
«Sì, assolutamente. Voglio dire, i Fountains D.C. sono irlandesi, non britannici, ma sì, abbiamo un buon rapporto con tutte queste band e sembra che siamo usciti da una sorta di scena simile, e immagino che i locali indipendenti siano grati di tutto questo. Sì, siamo molto vicini a tutte le band sopra menzionate perché sai, li incontri per strada, ai festival e cose del genere. Oggi a causa del Covid-19 i locali indipendenti che sostengono questi artisti stanno davvero lottando, alcuni di loro stanno affrontando una chiusura permanente, quindi dobbiamo fare tutto il possibile per tenere a galla quei luoghi».
Ma dove finirà il futuro della musica se i piccoli locali verranno chiusi?
«Penso che il futuro della musica indipendente dal vivo sia piuttosto cupo, perché il modo in cui ti esponi a qualsiasi forma di pubblico è suonando in posti come questi e, sai, abbiamo passato anni a suonare in locali del genere, ed è così che abbiamo ottenuto tutto ciò che abbiamo ora, quindi senza di loro penso che sarà sempre più difficile per le band emergenti ottenere il riconoscimento che meritano, perché non è più così semplice come pubblicare qualcosa online, i live sono ancora estremamente importanti, e senza i posti in cui farli, sarà abbastanza difficile per chiunque sfondare».
Drunk Tank Pink è stato registrato con James Ford. Qual è la lezione più importante che avete appreso da lui?
«Sì, con James abbiamo imparato molte cose, ovviamente è un produttore di enorme esperienza, e proviene da ambiente un abbastanza sfaccettato. È noto a tutti, mi pare, per essere il produttore principale degli Arctic Monkeys da più di dieci anni, ma ha anche un’enorme esperienza sulla musica dance ed elettronica. Così, abbiamo imparato da lui una vastità di argomenti diversi, soprattutto quando abbiamo registrato Human for a Minute; non si era abbastanza affezionato al modo in cui suonava la prima registrazione del brano, così l’abbiamo completamente modificato, ed eravamo come guidati da un viaggio mentre trasformavamo la traccia. Permettersi di essere prodotti nel senso più convenzionale del termine: è davvero bello. È difficile quantificare quanto abbiamo appreso da lui, ma è davvero un grande produttore, è stato ottimo lavorare con lui, speriamo che lo rifaremo in futuro».
Hai qualche ricordo di lui da condividere con noi?
«Non conosco delle storie in particolare, abbiamo sentito molte cose interessanti sul suo passato e sulle persone con cui ha lavorato, ma con lui è stato più un processo di apprendimento molto più ampio».
Qual è stata, per te, la canzone più difficile da realizzare?
«Direi nuovamente Human for a Minute, probabilmente la più difficile, perché stavamo suonando quella canzone da almeno due anni, quindi ricordava molto il nostro vecchio stile di composizione, quando l’abbiamo portata in studio abbiamo avuto la sensazione che appartenesse più a Songs of Praise che a Drunk Tank Pink. Ed è in quel momento che James è intervenuto, ha riconosciuto che c’era qualcosa in quella canzone, che tuttavia non poteva stare nell’album nuovo in quelle condizioni. Così, abbiamo trascorso praticamente un’intera giornata, considerando che avevamo una quantità di tempo limitata per completare il disco, abbiamo trasformato quella canzone in qualcosa che avesse davvero senso in questo album, è stato un compito abbastanza arduo. L’abbiamo completamente rallentata, abbiamo cambiato la strumentazione, usato molte più percussioni, sintetizzatori. Quindi è stata sicuramente un’esperienza di apprendimento per tutti, soprattutto per quanto riguarda la rielaborazione di un brano, per adattarlo a ciò che si vuole cercare di fare».
Traduzione di Gaia Bandiziol e Silvia Rizzetto.