Gli Algiers sono tornati con quarto album devastante: SHOOK. Un titolo che preannuncia tutta l'energia e la scarica di adrenalina presenti nelle 17 tracce che lo compongono. Gli ospiti sono tantissimi: Zack de la Rocha, Backxwash, Samuel T. Herring (Future Islands), Jae Matthews (Boy Harsher) e tanti altri. Un uso massiccio di campionamenti, e un confine sempre più offuscato fra i generi: post punk, jazz, rap... Il tutto nato dove tutto è cominciato: Atlanta.
Per l'occasione abbiamo raggiunto telefonicamente il frontman Franklin James Fisher ed il bassista e tastierista Ryan Mahan. Ecco cosa ci hanno raccontato.
Tutto è iniziato con la vostra canzone del 2019 Can the Sub_Bass Speak?. Ho letto che fino a poco tempo fa eravate sull'orlo dello scioglimento della band, ma durante il lockdown avuto molto tempo a disposizione ad Atlanta e avete iniziato a sviluppare nuove idee. Si può dire che la vostra nuova direzione sia stata tracciata da quel brano?
Ryan Mahan: È interessante, penso che Frank possa parlare maggiormente della genesi di Can the Sub_Bass Speak?. È un pezzo che doveva fare parte di un disco che volevamo fare, ma non siamo stati in grado di realizzare. Quindi, sai, Can the Sub_Bass Speak? è stata la base del nostro terzo album che non è mai stato realizzato. Di conseguenza penso che in un certo senso sia stato il trampolino di lancio per iniziare a fare questo album. In particolare riguardo al processo di scrittura e il rendere chiaro certi tempi in certi modi, certi metodi di creare musica che sono incorporati nei samples, o nella ricreazione di campioni o in diverse tecniche. Quello è l'unico elemento che è stato così evidente in Can the Sub_Bass Speak?, a parte il messaggio del testo. Questo era il tipo di suono che volevamo per le canzoni: una interessante ricreazione architettonica di suoni, dal dub al reggae, che sono anche quelli che Frankie ha creato e poi ha campionato. Volevamo spingere ulteriormente verso questo tipo di processo.
Franklin James Fisher: Che poi è qualcosa che abbiamo fatto fin dall'inizio comunque. Ma penso che non sia stato evidente al pubblico e ancora non lo è. Sai, tutti i samples per la maggior parte sono di noi stessi. Abbiamo eccezioni come I Can't Stand It! e Cleveland. Siamo noi che campioniamo noi stessi, sai, risalendo fino a But She Was Not Flying o Blood. Come ha detto Ryan: Shook è il disco che non abbiamo potuto fare ma che volevamo fare.
Un'ultima domanda su Can the Sub_Bass Speak?, prima di continuare a parlare di Shook. Dopo l'uscita del brano, la tua relazione con i giornalisti sono cambiate? O durante le intervisti continui a ricevere domande razziste, stupide e senza senso?
Frank: (Ride, ndr) Ironicamente, è una domanda davvero ben pensata. La apprezzo molto. Oh sì. In realtà, la relazione con i giornalisti è cambiata, con l'eccezione di alcuni posti, per la maggior parte soprattutto in Germania in un senso diverso. Ma per quanto riguarda le interviste... Sì, non ho dovuto affrontare così tante domande solo sulla mia identità e sul colore delle mia pelle e questo è uno dei motivi per cui ho scritto Sub_Bass. L'idea era che se qualcuno mi avesse fatto ancora una di quelle domande, io avrei solo detto "vai ad ascoltare questa canzone".
Parliamo del nuovo disco...
Ryan: Aspetta! Volevo solo continuare a parlare di Can the Sub_Bass Speak??
Frank: (Ride, ndr)
Ryan: Quel brano non è solo poeticamente brillante. Come finisce la canzone, la poesia alla fine della canzone, è una dei migliori testi che abbia mai visto. Gli aspetti di base fondamentali sono davvero interessanti: il jazz, gli strumenti veri e propri. Siamo sempre interessati a perseguire entrambi e non credo che siamo riusciti a perseguire alcun tipo di elemento vero e proprio lì. È una traccia davvero interessante su così tanti livelli che mostra la nostra capacità di spingere e ampliare i nostri orizzonti con Frank al centro. Penso che sia eccitante perché ci sono molte più porte e mondi che quella canzone in particolare può aprire, sai? Quindi anche solo migliorando i nostri strumenti, diventando musicisti migliori, ci si avvicina davvero a qualcosa che può accogliere questa sfida. Penso che parte di questi concetti formi la base del nostro nuovo album e di ciò che faremo dopo. Ad essere onesto, Frank era l'unico che aveva davvero una visione chiara, super chiara della canzone, mentre il resto di noi cercava ancora di capirla. Quindi tutti i crediti dovrebbero andare a lui per aver spinto in quella direzione e anche per far uscire quel brano. Questo è un vero testamento a Frank.
Frank: Questo dipende dalla fiducia che hai nei tuoi compagni di band e dagli interessi che ti permettono di perseguire una visione. Anche se gli altri non la comprendono subito. Penso che per la genesi di quella canzone sia stata proprio così. Eravamo in Inghilterra, tra un tour e l'altro, e More Mother stava suonando in un festival a Cambridge e Ryan era un grande fan, e io non avevo mai veramente ascoltato la sua musica. E lui ha detto "andiamo a questo festival a sentirla", e lei mi ha davvero fatto una grande impressione. Penso che l'idea per Sub_Bass mi sia venuta proprio in quel momento. Noi ci influenziamo a vicenda in molti modi. Anche se uno di noi non scrive letteralmente parti della canzone, attraverso la nostra relazione l'uno con l'altro e il tempo trascorso insieme ci rende tutti autori di ogni nostro pezzi. Questi sono gli Algiers.
Quindi per Shook avete seguito questa strada. Come è stato lavorare con così tanti grandi ospiti e artisti diversi?
Frank: È come essere a casa per noi, è sempre stata la cosa che abbiamo fatto, forse non in questa scala di grandezza, ma siamo sempre stati parte di una comunità in qualche modo, perché tutti noi viviamo in posti diversi all'interno della band. Era un po' la normalità per noi, mentre molte persone si sentivano escluse e distanziate durante la quarantena. Per noi quella è stata un'opportunità per contattare i nostri amici e collaboratori e vedere se volevano essere coinvolti in qualcosa. Abbiamo creato un forte senso di comunità durante quel periodo e tutti gli ospiti e le persone coinvolte per l'album sono solo una conseguenza di quelle relazioni organiche e naturali che abbiamo stretto negli anni.
Ryan: Sì, è stato pazzesco, è stato molto facile perché ognuno ha seguito il proprio percorso e quei percorsi hanno finito per funzionare molto bene. Abbiamo impostato dei parametri e dei paletti per i nostri ospiti per creare e loro lo hanno fatto. Non è praticamente mai successo che dovessimo dire "Oh mio Dio, devi cambiare tutto!". Certo, ci sono stati alcuni suggerimenti da parte nostra su alcune cose. Comunque o siamo noi dei geni nel modo in cui ci approcciamo alle persone e abbiamo un'idea su come gli altri artisti si adatteranno a noi, ma ovviamente non è così, o molto più semplicemente è una conseguenza al tipo di mondo che abbiamo costruito intorno a noi e alla fiducia che gli altri hanno solo ascoltando la nostra musica.
Frank: Sì. E anche dal punto di vista del processo, è così che lavoriamo all'interno della band comunque. Sai, per me l'idea di essere in una band è che collettivamente si ha un'idea che si vuole perseguire nel suo insieme. Ma non è un collettivo così massiccio che gli individui coinvolti perdono completamente la loro identità all'interno del tutto, perché ognuno ha uno spazio sicuro per esprimersi come vuole. E penso che sia così che lavoriamo fra noi quattro e anche quando portiamo altre persone nel nostro spazio. E quando si incoraggia e si permette alle persone di entrare nel tuo spazio sicuro e di renderlo sicuro per loro per esprimersi alla loro maniera, questo permette all'opera finale di diventare qualcosa di molto più organico, più grande e più eterogeneo.
Come vivete il fatto di trovarvi come band nell'era degli algoritmi e delle playlist usa e getta?
Frank: Beh, non puoi controllare il modo in cui le persone ascoltano la musica. Puoi suggerire come vuoi che si impegnino in ciò che hai creato. E se qualcuno vuole seguire quella via, allora le ricompense saranno maggiori. Ma appunto, non puoi imporre niente a nessuno e non puoi controllare se ascolteranno il tuo album dall'inizio alla fine o solo un pezzo in una playlist.
Ryan: Sì, gli album sono completi. Questo è il mio lavoro, ma mi piace anche fare playlist o DJ set con singole canzoni. Va bene così. Le piattaforme musicali non hanno influenzato come ci approcciamo alla musica. Penso che ci approcceremmo sempre allo stesso modo per creare un'opera d'arte. Alcune delle nostre cose sono abbastanza cinematografiche e molte volte hanno quel tipo di schema di base in cui stiamo raccontando storie multiple all'interno di un mondo che abbiamo creato. E penso che sia abbastanza chiaro e almeno ci fornisce un quadro per scrivere. Ma dopo di che dobbiamo fare i conti con l'industria musicale: ci vuole così tanto tempo per pubblicare la musica. E questo può influenzare la creatività. Tutto il processo di promozione, tutte le cose a cui si deve far fronte, possono soffocare la tua creatività. E quando avviene un rallentamento profondo e ampio come quello che è successo con l'inizio della pandemia, ti mostra chiaramente che c'è un problema non solo all'interno dell'industria musicale, ma anche nell'economia e nella cultura più ampia. E alla fine della giornata, questo è il punto più difficile. Noi non possiamo controllare come la gente consuma la musica. Penso che sarebbe bello se la gente riconoscesse che molte delle nostre scelte non sono basate su algoritmi e tutte quelle cose.
Frank: Inoltre, non credo che sia un fenomeno nuovo adesso, penso che affermare che i servizi di streaming abbiano sconvolto il modo di impegnarsi con la musica sia una lamentela da vecchio. Negli anni '60 Phil Spector disse che un album è tre singoli con un sacco di riempitivi in mezzo. È così che le persone in genere ascoltano la musica, canzone per canzone.
Ryan: Ma non fraintenderci. Personalmente, queste grandi multinazionali musicali sono terribili e ci influenzano davvero alla fine della giornata. Perché, se non finiamo in una playlist o qualcosa del genere, allora, sai, ciò influisce se riusciamo a essere ingaggiati per un festival, e così via. È chiaro che ci siano anche dei problemi. Sarebbe bello essere trattati con dignità come artisti. Ma sì, il punto di Frank è completamente valido. E non cambia neanche il fatto che le attività di PR abbiano sempre funzionato e controllato il modo in cui le persone ascoltano la musica. Ciò che arriva in radio, su MTV, eccetera, eccetera.
E come artisti, qual è la vostra più grande paura? Non essere pienamente compresi?
Frank: Penso che sia un bene inspirato essere fraintesi dagli ascoltatori, perché ti dà un'ulteriore dimensione su cui giocare. Se non fossimo mai stati fraintesi dagli ascoltatori, qualcosa come Can the Sub_Bass Speak? non sarebbe mai stato creato in primo luogo. Quindi riguardo la mia più grande paura... non lo so.
Ryan: Ci sono paure molto chiare riguardo ad essere un lavoratore, ad essere un operaio e non avere una propria esistenza, vivere una vita di sopravvivenza.
Frank: Questa è la realtà del mondo.
Ryan: Vero.
Frank: (risata amara, ndr) La mia paura è più irrazionale, ma sarebbe essere costretto a essere esattamente la stessa cosa per l'intera durata della mia carriera. Che poi i non ho una carriera, sono un musicista. Ma sai, qualunque cosa sia, essere costretti a continuare a ripeterla all'infinto.
Avete uno stile visivo molto distintivo, dal design della copertine degli album ai video musicali. Come vi approcciate all'aspetto grafico e visivo? Quale ruolo giocano le immagini nel vostro processo creativo?
Frank: In generale, tra noi quattro abbiamo chiare idee estetiche su come vorremmo abbinare l'elemento visivo alla canzone in base al concetto o al tema. Ma la realtà è che nell'industria musicale ci sono spesso risorse limitate per realizzare ciò che si desidera. Ti viene l'idea per un video e quando finalmente si ha il tempo di realizzarlo, per qualche motivo non c'è abbastanza tempo per farlo e spesso diventa un lavoro fatto in fretta e furia. Quindi, sei costretto a comprometterti in qualche modo rispetto all'estetica iniziale che avevi pensato. Questo è un aspetto negativo, ma è più la regola che l'eccezione. Invece per le nostre performance dal vivo, Ryan ed io in particolare, abbiamo lavorato duramente per creare un elemento visivo per tutte le nostre canzoni che viene proiettato dietro di noi. È l'intero mondo degli Algiers che si cristallizza in un modo che non ho mai visto prima. Devi solo venire al concerto per vedere di cosa si tratta. L'abbiamo fatto solo in tre spettacoli finora, ma è sicuramente l'aspetto visivo più emozionante e coinvolgente di tutto ciò che abbiamo fatto.
Ryan: Non siamo come molte band che sfruttano giovani talenti che possono essere sfruttati come carne fresca. Non ci siamo mai avvicinati alla musica in questo modo. All'inizio avevamo un'estetica visiva molto chiara perché pensavamo che fosse il modo migliore per comunicare, visto che non suonavamo dal vivo. Così ci siamo chiesti come comunicare i mondi in cui viviamo e abbiamo avuto la fortuna di avere Lee nella band, che è un grafico ed è in grado di prendere le idee e costruire questi mondi. Credo che siamo stati abbastanza bravi a creare tutto questo e non credo che si dia abbastanza credito a Lee o a Franklin per le loro idee visive. Sono mondi molto interessanti ed eterogenei, ma che allo stesso tempo sembrano completi e interi.
Hai appena menzionato i concerti dal vivo e avete suonato da poco qui in Italia. Come è stato?
Frank: È sempre incredibile suonare in Italia. Suoneremmo in Italia 365 giorni all'anno se potessimo. Devi aiutarci a tornare, devi farci invitare ai festival per l'estate. (ride, ndr)
E io spero davvero di rivedervi presto qui! Tornando al vostro ultimo album, c'era un verso di "Cold World" che mi ha colpito. Dice “everybody wants to make or enslave you inside of their visions of the own word”. È una critica ai social media che spesso raggruppano gruppi di persone che la pensano allo stesso modo?
Frank: Beh, è una domanda interessante e credo che abbiamo tutti approcci diversi ai social media. Io personalmente non mi ci dedico affatto e sì, stavo sicuramente pensando al mondo dei social media quando ho scritto questo verso. Ma quello che significa, dipende totalmente da te. Ma devo dire che mi piace molto la tua interpretazione.
Il testo di I Can't Stand It! è estramemente personale. Quanto è stato complicato per te riuscire di trattare temi privati in pubblico? È stato catartico?
Frank: Certamente. I Can't Stand It! e Green Iris riguardano la mia ex e tuttora a volte suonarle dal vivo può essere travolgente, specialmente Green Iris, ma mi fa bene. Alla fine, sai, fa bene prendere qualcosa che era doloroso, distruttivo e personale e metterlo in un contesto diverso e trasformarlo in qualcosa di costruttivo. Inoltre, mi permette di cantare finalmente canzoni in modo trasparente. Volevo avere uno spazio di vulnerabilità e non avevo mai avuto quella sensazione fino ad ora.
Avere Zach De La Rocha in un disco non è qualcosa di facile. Come è stato lavorare con lui?
Ryan: È la cosa strana della nostra band. Penso che la nostra band meriti molto di più rispetto di quanto non le venga dato dal mondo esterno, dal pubblico. Ma internamente, nel mondo della collaborazione e degli artisti, questo disco ci ha mostrato che siamo rispettati dalle persone che percepiamo non solo come nostri pari, ma anche come persone che hanno tracciato una carriera artistica incredibile e che sono stati coloro che tutti volevano emulare come veri pionieri in ciò che fanno. È una dinamica strana da gestire e crea sentimenti ed emozioni diverse.
Frank: Per qualche motivo, non so, mi sento per la maggior parte del tempo invisibie alla comunità musicale. Mentre personalmente, penso che tutti sentiamo di essere una delle migliori band al mondo, ma sembra che nessuno lo sappia. Quindi è sicuramente bello avere quel tipo di conferma almeno dalle persone che rispettiamo e con cui collaboriamo e che diventano parte del nostro mondo.
Secondo voi perchè succede? Il pubblico non vi capisce perchè siete troppo profondi e complessi?
Frank: No, perché ci sono molte band (non tante quanto quelle che fanno musica mainstream generica) che creano arte vera. E molte di queste sono emerse anche dopo di noi e hanno avuto molta visibilità. Inoltre siamo impegnati politicamente da molto tempo prima che diventasse popolare, eppure... non ho idea. Non so perché.
Ryan: L'industria musicale ama mettere gli artisti in scatole e non consentire loro di uscire da quelle scatole, sai? Questo fa parte del problema. Ma sì, non tocca a noi capire o comprendere. Noi dobbiamo continuare a fare ciò che facciamo.