"Così come una prugna cade in una pila di merda, così tu cadi nella Sevdah."
Bisogna partire da questa frase per provare a comprendere appieno il nuovo album dei Mombao, Sevdah. Ma cosa significa veramente questa parola bosniaca di origini persiane, che dà il nome al second album del duo? Sevdah vuol dire “affondare consapevolmente nella malinconia fino a raggiungere uno stato di grazia e poesia”, come mi spiegheranno di lì a poco Damon Arabsolgar e Anselmo Luisi. C'è tutto il loro universo in queste dieci tracce: un lavoro ambizioso e audace, eppure senza mai suonare pretenzioso o spocchioso, in cui emergono lo sradicamento, la ritualità, il rapporto fra tradizione e intelligenza artificiale, l'umano e la macchina... Un mosaico di suoni e immagini che vengono proiettate nella mente dell'ascoltatore, esattamente come le fotografie che mi vengono mostrate dal duo mentre li intervisto a Base Milano.
Una presentazione bellissima e completamente atipica per un disco: vengo accolto dai Mombao, che mi invitano a sedermi con loro su un bellissimo tappeto persiano. Attorno a noi una miriade di foto, scattate nel corso degli anni durante i loro tour nei Balcani, in Marocco, in giro per l'Italia... Tante storie, tante vite distanti che si intrecciano fra loro, e che hanno tutte un filo conduttore, come quel melo cotogno di cui mi racconteranno durante la nostra lunga e profonda chiacchierata.
Quanto è stato importante il tour nei Balcani per la realizzazione di Sevdah?
Anselmo Luisi: È stata sicuramente una tappa fondamentale. È stato il nostro primo tour fuori dall'Italia, nonché una delle nostre prime esperienze più significative: ci ha portato a conoscere una cultura popolare molto profonda e radicata, lontana e diversa dalla nostra, ma geograficamente vicina. È stato lì che abbiamo conosciuto la Sevdah, sia come musica che come parola: questo termine infatti indica un genere musicale bosniaco, al quale noi non ci rifacciamo, ma anche la sensazione di malinconia che ricolleghiamo allo sradicamento, al non sentirsi parte di una comunità. Abbiamo scelto di dare questo nome al nostro nuovo album per rendere omaggio a quell'esperienza, che è stata significativa per noi. In qualche modo è il nostro tentativo di dare una risposta a questa mancanza di condivisione di radici e di background storico delle società multiculturali in cui viviamo. Come possiamo riprodurre un rituale oggi in una società così frammentata?
C’è un posto particolare nei Balcani che vi ha suscitato questo stimolo?
Damon Arabsolgar: Novi Pazar, nuovo bazar, una cittadina in Serbia al confine col Kosovo e Montenegro, parte di una regione a maggioranza musulmana. Anni prima che fondassimo i Mombao, ero in viaggio in autostop nei Balcani e a un certo punto mi ritrovai a caso a Novi Pazar. Una cittadina all’incrocio fra vari confini in cui avvengono molti scambi di merci più o meno legali. (risate, ndr) Arrivato lì ho conosciuto due ragazzi di famiglie musulmane e ortodosse, ma loro non sono religiosi. Mi hanno introdotto alla loro quotidianità e mi hanno fatto conoscere la loro città fatta per il 75% da ragazzi under 30 e con la disoccupazione all’80%. È un casino. Siamo diventati amici e quando sono tornato lì a suonare a un certo punto siamo dovuti passare a salutarli. Una notte eravamo nella falegnameria di Kemal, uno che sarebbe diventato nostro amico: era lì a costruire strumenti musicali, utilizzando utensili di falegnameria aquistati dei Rom che li rubavano in Europa. Per le successive serate siamo rimasti lì con lui e i suoi amici a bere, provando la sensazione di Sevdah. Finché a un certo punto Anselmo gli chiede cosa fosse la Sevdah.
Anselmo: E lui mi risponde con una frase che tradotta suona più o meno così: “Così come una prugna cade in una pila di merda, così tu cadi nella Sevdah.” (risate, ndr) Questa è una delle spiegazioni migliori della Sevdah che esistano. E infatti l’abbiamo inserita nel disco, con Kamal che la recita nella traccia omonima.
Damon: Tutto questo è successo in un periodo in cui io stavo soffrendo molto, perché mi sentivo sradicato, senza amici di lunga data. Mio padre è iraniano, mia mamma italo-tedesca, io sono nato e cresciuto a Milano. È una città di fiume, dove le persone vengono e vanno. Poi adesso i fiumi sono interrati, cosa crea un’altra sensazione… Mio papà non mi ha mai insegnato il farsi, mia mamma non mi ha mai insegnato il tedesco. E non ho mai imparato canzoni popolari milanesi, quindi non mi sono mai sentito nemmeno legato alla cultura e tradizione milanese. Ho iniziato a sentirmi molto sradicato, in un senso molto ampio: come se non ci fosse nella società attuale un sistema di rituali che fossero in grado di incarnarsi in una comunità culturale più ampia. Come se la nostra generazione a Milano, non sapendo bene di che cultura fosse, stesse perdendo dei riti di passaggio. Anselmo invece veniva da Trieste, un territorio con un forte legame con le canzoni popolari. Ha amici di lunghissima data con cui è cresciuto. E quindi abbiamo iniziato a discutere di questo tema delle radici e durante il tour nei Balcani abbiamo iniziato ad associare questa parola (Sevdah) alla sensazione di sradicamento e mancanza di rituali. Le due cose hanno iniziato a creare un dialogo molto profondo che ha poi reso i Mombao ciò che sono ora: questa volontà di creare una ritualità nuova che parli della contemporaneità a più culture diverse e che si sappia posizionare all’interno di questo mondo molto complesso, interdipendente fra specie e culture, con la natura e le macchine. Tutta questa interdipendenza la vedi intorno a te (indica le foto sparse sul tappeto, ndr). C’è l’intelligenza artificiale e il rapporto con la macchina, c’è il rapporto con il vegetale e con il corpo, ci sono le pratiche performative, e così via… La mia proposta è di pescare da quello che vedi che ti colpisce e da lì proveremo a raccontarti il nostro mondo.
Chi ha scattato le foto?
Damon: Le foto sono dei frames di Giulio Favotto, che è il terzo Mombao e che si occupa di tutta la parte visiva e grafica.
Giulio Favotto: Mombao è un progetto che ha radici nel passato (guarda ai riti tribali), ma contemporaneamente anche al futuro. Questa dimensione del metaverso, della presenza a tratti più forte del virtuale sul reale, fa a tratti paura. Volevamo che Rasti diventasse una canzone che prendesse vita in un luogo ibrido fra reale e virtuale. Da qui abbiamo cercare di trovare una tecnica che ci permettesse di posizionarci in questo vuoto. Una ricerca estetica che si sposa con la ricerca musicale.
Il vostro ideale sarebbe quello di riuscire a far coesistere natura e macchine, metaverso e canti tradizionali?
Anselmo: L’idea è quella di sforzarsi a immaginare futuri non distopici. C’è una provocazione di Yuval Harari, uno storico che ha scritto Sapiens. Da animali a dèi, che dice spesso: “La fantascienza, l’immaginazione artistica del futuro può essere molto più decisiva e può cambiare le sorti dell’umanità più dell’ultima scoperta tecnologica”. Nel senso che l’immaginazione del futuro di fatto crea una direzione verso la quale ci dirigiamo. In questo senso vogliamo dare il nostro piccolo contributo e immaginare futuri in cui vorremmo vivere, e non futuri di cui abbiamo paura. Futuri in cui possiamo immaginare una coesistenza di intelligenze artificiali, nuove tecnologie con la saggezza del corpo, la scoperta della saggezze delle pianti e degli animali. E non di sopraffazione dell’uomo sulle altre specie con le tecnologie. La prima immagine che si può avere del metaverso è un luogo dove ci si può disconnettere ancora di più dagli altri e da se stessi. Noi ci chiediamo, possiamo narrare qualcosa di diverso?
Non avete ancora la paranoia della sopraffazione dell’intelligenza artificiale sull’arte?
Anselmo: È già successo in passato che delle rivoluzioni tecnologiche sconvolgessero i canoni morali ed estetici preesistenti. Ma di fatto siamo ancora qua e siamo ancora vivi. La presenza sempre più diffusa dell'intelligenza artificiale secondo me porterà sempre di più a valorizzare quello che è invece l’incontro umano.
Damon: Permetterebbe di liberarci dell’utilizzo macchinario dell’umano. Tutto ciò che noi facciamo che può essere fatto da una macchina, ma che venga fatto dalla macchina! Liberiamoci di questo lavoro, di tutte le cose meccaniche e ripetitive. Ci sono altri modi di utilizzare l’umanità, dell’essere umano.
Giulio: Se iniziamo a coltivare una intelligenze emotiva, non dobbiamo avere paura. Se invece iniziamo a comportarci come le macchine, allora si che dobbiamo preoccuparci.
Damon: Magari cambiano anche i paradigmi di tutto ciò che si insegna nelle scuole. Magari non sarà più necessario far studiare le nozioni, ma insegnare il cosa si vuole ricercare. Saper fare le domande giuste. Dovevamo fare un concerto qui a Base Milano alla fine del tour e ci domandavamo che tipo di luci avremmo dovuto usare sul palco per rappresentare al meglio quello che volevamo. Abbiamo iniziato a lavorare con Midjourney facendoci dei prompt. Oppure immaginavamo i nuovi vestiti dei Mombao, e le grafiche. Anche se poi tutto questo è stato messo da parte a causa di un incontro speciale con un anarco calligrafo di Trieste, di nome Pietro Porro. Ha dedicato gli ultimi trent’anni della sua vita al gesto calligrafico. Ha studiato calligrafia araba, alchimia...
Alchimia?!
Anselmo: Si fa trip di tutti i tipi, dal sufismo alle religioni induiste…
Damon: Ha questa casa incredibile, dove ha questo archivio sterminato di 5000 lettere provenienti da un fronte immaginario, tutte obliterate e schedate.
Anselmo: Le lettere sono tutte scritto in anarco-calligrafia, ossia un linguaggio asemico, cioè una scrittura priva di alcun senso. Ha 5000 lettere da un fronte immaginario in una scrittura immaginaria.
Giulio: Lui ha inventato trattati di pace fra popolazioni del futuro, passato e presente.
C’è traccia di costui sul web?
Damon: No, zero. Non esiste traccia, penso abbia fatto due mostre in tutta la sua vita. È come se lui nell’approfondire il gesto calligrafico riuscisse ad approfondire gli schemi e i pattern con cui si sviluppa il mondo.
Anselmo: Quando abbiamo iniziato a lavorare alle grafiche del disco, mi era tornato in mente. Perché come noi cerchiamo di comunicare attraverso un contenuto che non è quello linguistico, in un modo simile Porro utilizza la grafia senza utilizzare il contenuto semiologico. Quando ho pensato a lui, ho pensato subito “wow potremmo scrivere un libretto dei testi in anarco-calligrafia”.
Damon: Noi facciamo le prove a Segrate, e mio papà ci sfama spesso con marmellata di melo cotogno che abbiamo in giardino. Il melo cotogno è un albero mediorientale che viene dall’Iran. E per lui e per me è molto legato alla Sevdah, perché ha a che fare con delle origini perse. Con il tempo abbiamo collegato i Mombao alle prove, allo sradicamento, al melo cotogno. Poi, quando siamo stati nei Balcani è venuta fuori la parola Sevdah, che prima non conoscevamo. Qualche tempo dopo Anselmo mi ha regalato La Cotogna di Istanbul, un bellissimo libro di Paolo Rumiz, che parla appunto di Sevdah. Poi quando siamo andati da Pietro Porro la prima volta, ci ha dato del vino bianco e ha aperto una ciotolina di cotognata. E ho pensato che fra tutte le cose nel mondo era una coincidenza icredibile. Mi fa che la faceva lui stesso, perché aveva un melo cotogno. Allora gli racconto di mio padre, della Sevdah, del libro di Paolo Rumiz e mi dice: “Sì, sì, ma la conosco Paolo Rumiz, questo cotogno me l’ha regalato lui, dato che nel suo libro parla anche di me”. E a quel punto abbiamo capito che le grafiche le doveva fare solo lui.
Che storia pazzesca.
Anselmo: Abbiamo iniziato questo percorso e non avremmo mai pensato di arrivare fin qui con una cosa così strana, così fuori dagli schemi. È una cosa sempre meravigliosa per noi. La nostra ricerca parte sempre da cosa ci risuona, a volte in modo molto irrazionale e sconnesso. A che domande vogliamo rispondere? Io credo che quando la necessita è molto forte, a prescindere dalla veste estetica, quello che ne deriva può andare oltre tutte le paranoie. Quando c’è una necessità forte, il contenuto arriva lo stesso. Penso che questo ci abbia portato anche a prendere strade controintuitive o controproducenti e controeconomiche.
Damon: La scelta di suonare i synth con amplificatori da chitarra e basso deriva anche da come funziona il sistema musicale attuale. Noi all’inizio suonavamo in locali male attrezzati, e non venivano ad ascoltarti 300-400 persone come oggi, ma 50 se andava bene. E quindi se io avessi buttato dei sintetizzatori dentro a un impianto scrauso, insieme alle nostre voci, sarebbe risultata una batteria molto forte che suona senza i bassi del kick, e dell’elettronica che suona molto sottile con delle voci molto lontane. Quello che vogliamo noi, anche per questioni tecniche, è quello di riconnetterci al nostro suono vero, quello della sala prove. Come faccio a far sì che il pubblico senta di essere nel mio stesso spazio sonoro? Le persone nei nostri concerti si spostano per decidere il proprio mix, c’è una scultura di suono attorno a cui tu ti puoi muovere. È una cosa che abbiamo capito sopratutto dopo il nostro viaggio in Marocco, dove abbiamo suonato musica tradizionale marocchina gnawa con una ventina di musulmani che suonano delle nacchere di ferro molto rumorose. L’esperienza fisica era una scultura di suono.
Adesso ragazzi scusatemi, ma sapete cosa devo chiedervi…
(ridono, ndr) Sarà mica X Factor?
Bingo. Cosa avete portato a casa da quell’esperienza?
Damon: Adesso ti rispondiamo, ma prima ti faccio io una domanda. Perchè è sempre necessaria la domanda su X Factor?
Fosse per me non ve l’avrei mai fatta, ma sai è uno di quegli argomenti che tira sempre… Però tranquilli che non ve la metto nel titolo!
(ridono, ndr)
Anzi sapete cosa, cambiamo la domanda in: “Quanto vi rompe la palle dover parlare di X Factor ad ogni intervista che fate?”
Damon: In realtà è una cosa che ci diverte. Non ho assolutamente niente contro le domande su X Factor, anzi. Però ero curioso, perché effettivamente è una domanda che ci fanno tutti i giornalisti. Ovviamente è un tema molto ampio. La grande lezione che ci ha insegnato è che è una creatura molto complessa. Si tende sempre a semplificare le cose che non si conoscono come controllate da interessi specifici. Invece è un programma che ha degli autori che hanno come interessi che il programma funzioni, con Sky che vuole che ci siano determinati messaggi, con il regista che ci siano determinate luci, ecc. È un incontro di necessità, un dialogo continuo fra diversi interessi. Noi siamo entrati lì pensando che loro volessero che noi facessimo questo e quello e poi ad un certo punto ci siamo accorti che era molto meno chiara la direzione. È una creatura che dialoga con se stessa.
Anselmo: Dal nostro punto di vista ci ha aiutato tantissimo a far conoscere il nostro progetto. È stato sorprendente come attraverso un palinsesto così rigido, un progetto così complesso e codificato come il nostro sia comunque riuscito a passare. Non sempre, non con tutti, ma più spesso di quanto ci saremmo immaginati. Molte persone hanno colto tutto quello di cui stiamo parlando ora. Questo è stato sicuramente un aspetto sorprendente.