L’anno è il 1979, Londra lo scenario, in rappresentanza di tutto il Regno Unito. Una profonda crisi economica e sociale sta scuotendo il paese dopo gli anni di crescente benessere derivati dalla ricostruzione del dopoguerra. Distinguere in questi anni categorie sociali e generi musicali è difficile come non mai, in un paese che è già di per sé tra quelli che notoriamente vivono più intensamente della media l’identificazione con la musica. Sono gli anni del punk, come scappatoia dall’ormai ritrita psichedelia e blues rock, come forma di liberalizzazione dell’individuo in una società che impone binari ancor più rigidi. Sono gli stessi anni in cui il movimento skinhead assume toni ancora più divisi e divisivi tra estrema destra ed estrema sinistra, generando tumulti interni. Nel contempo sono anche gli anni del mod revival, in cui una grande attenzione all’aspetto estetico va a braccetto con la familiarizzazione del soul e dell'R&B. Gli anni in cui negli stessi sobborghi, le minoranze sociali non sono più così minoranze e limitarle o ghettizzarle è più che mai difficile, anche per il loro contributo storico alla ricostruzione del Regno Unito stesso.
Dagli Stooges ai Clash
Dopo i primi tentativi di Stooges, Televisions e (in parte) Who, per radio il punk ha pochi rivali: i Ramones, Blondie e Talking Heads da Oltreoceano, i Sex Pistols e i nuovissimi Clash proprio dal Regno Unito. Strillano, gridano riscossa, distruggono chitarre sia attraverso le pennate che letteralmente. Hanno dei look che fanno discutere tutti. Ma soprattutto sono la voce dei giovani, che vogliono liberarsi di tutte le camicie di forza imposte dalla società, sempre più alienante e capitalista.
I Clash vanno davvero forte, hanno qualcosa di diverso: sono veri, vengono dai pub e dalla strada e per questo capiscono i problemi e le esigenze dei più. Il loro punk piace e si afferma a livello nazionale e, con il solito ritardo, in Europa. Mancano gli Stati Uniti e per raggiungerli con la stessa forza serve qualcosa di diverso da The Clash (1977) e Give Em’ Enough Rope (1978), che già aveva dato segnali di cambiamento.
Una rivoluzione chiamata London Calling
Siamo alla fine degli anni '70 e dopo mesi di stenti d’ispirazione, Strummer e soci si ritirano nei Vanilla Studios per le demo, poi nei Wessex Studios di Londra e nel giro di pochi mesi calano l’asso. I temi da sviscerare all’interno sono infiniti, così come gli aneddoti che riguardano il disco stesso e i brani che lo compongono: questi gli ingredienti che fanno di London Calling (1979) uno dei dischi più importanti della storia, uno di quei pochissimi casi in cui si possono mobilitare giudizi di questo tipo senza troppi giri di parole.
I 65 minuti che si distribuiscono in 18 brani (+1, poi lo spiegheremo) sono sufficienti a centrare l’obiettivo principale: rendere il punk accessibile al grande pubblico, coinvolgendo tutti trattando i temi più caldi, attraverso una commistione di personaggi immaginari e di spaccati di vita reale nel Regno Unito e in particolare in una Londra ribollente visto il melting pot culturale ed etnico. Si parla delle droghe, dell’amore, di rivincita sociale, di alienazione e di come si combatte il modello capitalista galoppante e dalla rivendicazione dei propri diritti.
Oltre al messaggio però, per essere credibile, serviva altro. Il melting pot socioculturale sfociò inevitabilmente anche in quello musicale visto che erano sempre più comuni club nei quartieri marginali che proponevano soul, R&B, ska, reggae e dub. I Clash tornano alle proprie radici rock, studiano Bo Diddley, fanno loro le linee ritmiche della dub, ma non si lasciano scappare qualche promemoria stilistico su quello che è stato fino a quel momento il loro percorso punk.
Don Letts, l'anello di congiunzione tra il punk e il reggae
Per avere un punto di vista ancor più accurato sulla realizzazione di un disco così epocale e intriso di significato, non potevamo esimerci dal cercare di entrare in contatto con qualcuno che avesse vissuto in prima persona la genesi. E così abbiamo fatto due chiacchiere con Don Letts, storico amico nonché dj e videomaker della band, che ha diretto fra le altre cose il videoclip di London Calling. Origini giamaicane ma nato e cresciuto a Brixton, rastafariano, cultore del reggae e della dub: in altre parole, l'anello di congiunzione della catena tra punk e reggae, appunto.
E in questo senso London Calling è stato il disco giusto, al posto giusto, nel momento giusto. È lo stesso Don Letts a confermarcelo: "Il punk in questo senso assunse proprio un tono politico perché era la gente ad avere bisogno del punk stesso. Non bisogna fare l’errore di associare al punk il solo chitarre scatenate, giacche di pelle, grida e quant'altro. Si andò oltre il solo concetto di sorpresa e di stimolo dato dal suono e si tentò di forzare le persone ad una presa di coscienza con racconti che li coinvolgevano in prima persona".
Aggiungendo subito dopo: “London Calling non fu un semplice disco punk, perché grazie alla varietà di generi musicali e di scenari inseriti al suo interno di fatto definì quello che oggi chiamiamo post-punk. Musica punk open-minded, che si lascia contaminare, che si accorge che c’è altro attorno e che è giusto valorizzare e contestualizzare questo altro. È un messaggio molto potente, tanto che penso che il post-punk stesso sia più interessante e onesto intellettualmente del punk. Per fare un’analogia un po’ ironica, descriverei il punk come ragazzini incazzati che gridano al mondo 'vaffanculo!', ma se offendi o mandi a fanculo qualcuno poi devi argomentare e apportare qualcosa al tavolo di discussione. I Clash questo lo fecero eccome!”.
Una copertina che ha fatto la storia
Sulla copertina c'è Paul Simonon che distrugge il suo basso in occasione di un loro concerto al Palladium di New York, perché i buttafuori non concedevano al pubblico di alzarsi e muoversi dai rispettivi posti.
Abbastanza evocativa come immagine e una delle copertine più iconiche di sempre. La foto di Pennie Smith, seppur sfocata, è stata scelta con insistenza da Joe Strummer, sia per il messaggio intrinseco, sia per tributare sua maestà Elvis Presley. Una dedica ricorrente, che si è manifestata non solo a livello di immagine ma soprattutto sul piano musicale, con uno sguardo ammiccante agli anni ’50 in cui Elvis spadroneggiava e in cui generi come il folk, il soul, il blues si scontravano e al contempo mescolavano con il rock’n’roll.
Il track by track del disco
L'eterna London Calling è ovviamente l'introduzione perfetta perché traccia il profilo di una Londra (e di tutto il Regno Unito) quasi distopica, ma che in realtà rappresenta in maniera un po' romanzata la realtà dei fatti degli anni '70 e di molte dinamiche che si sarebbero concretizzate nel decennio successivo. Il titolo è un richiamo alle trasmissioni radio che venivano diramate a Londra durante la seconda guerra mondiale e in cui si tracciavano bilanci di guerra, segnalazioni e richieste di aiuto.
Brand New Cadillac è una cover dell'iconico Vince Taylor, rock'n'rolla anglo-americano ispirato da Elvis Presley e Gene Vincent. Si tratta del primo brano registrato dell'album ed è stato battezzato dalla stessa band come uno dei primi brani veramente rock'n'roll inglesi. Presenta i nuovi riferimenti musicali e smorza i toni, quanto meno melodici, rispetto all'apertura del disco e prepara l'ascoltatore alle novità stilistiche a cui dovrà fare l'abitudine nel corso del disco.
C'è spazio per il blues in Jimmy Jazz, una storia che porta sul tavolo diversi elementi rilevanti per il senso del disco. Come nei migliori brani soul/folk, la polizia è a caccia di Jimmy Jazz, che è a sua volta una citazione a Jimmy Cliff, celebre artista ska, reggae e soul giamaicano, celebre per aver curato la colonna sonora della pellicola The Harder They Come (1972), in cui vi sono due brani scritti direttamente da lui. Per chiudere il cerchio è il film che ha ispirato lo stesso Don Letts a voler diventare un videomaker ("per poter esprimermi con le immagini", per dirla con le sue parole).
Hateful introduce lo ska come elemento ricorrente, mentre Rudie Can't Fail anticipa un singolo di grande successo dell'anno successivo, Bankrobber, e attinge abbondantemente al reggae e alla dub come dimostrato dalla produzione di Mikey Dread e dal ben udibile contributo degli ottoni. Per dare ulteriore conto dell'infinità delle storie che coinvolgono questo disco e i suoi risvolti, in sala di registrazione nel 1980 a Manchester due fan sfegatati furono invitati da Topper Headon in persona: Ian Brown e Pete Garner (nel caso vogliate approfondire, soprattutto per il primo, date un occhio qui). Poco oltre The Right Profile vive ancora di elementi fondanti dello ska.
In mezzo, con Spanish Bombs si torna a trattare il tema della guerra e delle rivolte con un breve saggio di geopolitica sulla guerra civile spagnola nato da una storia sentita da Strummer sui bombardamenti nei Paesi Baschi. Le trame delle chitarre sono più di un incipit per un movimento che arriverà sino ad oggi nella forma di Pete Doherty e Miles Kane, tra gli altri. Anche in Koka Kola ci si muove sugli stessi binari.
Quella aperta da Lost In The Supermarket è invece uno dei segmenti più intensi e impegnati dell'album. Tra i pezzi più riusciti del disco sicuramente, anche grazie al marcato contrasto tra musica e testo. Una melodia sbarazzina e ancor più ingenuamente presuntuosa e un testo di denuncia politica per chi, come i membri della band, era cresciuto nelle periferie e le violenze domestiche ne avrebbero influenzato il percorso nella società consumistica contemporanea.
A certificare la natura documentale del lavoro della band c'è Clampdown, in assoluto una delle canzoni più impegnate politicamente di Strummer e soci. Difficile tradurre il titolo letteralmente, se non con verbi come sopprimere e opprimere, con i Clash che gridano con convinzione: "I'm not working for the clampdown!". Il che ci riporta al reale significato del movimento punk e dell'opposizione ai poteri e alla macchina sociale.
The Guns Of Brixton è il primo brano totalmente scritto e cantato da Paul Simonon e tratta il delicato tema della vita in uno dei quartieri più complicati di Londra degli anni '70 e '80 (proprio Brixton per l'appunto). Una delle canzoni più potenti a livello di linguaggio e significato che è poi diventata un classico della band.
Wrong ‘Em Boyo torna sui livelli blues, con tanto di tastiere, del primo settore del disco per poi sfociare in un nuovo saggio di ska sulla cover up-tempo dell’omonimo brano dei The Rulers, arricchito da un estratto di uno dei brani folk più celebri negli States, intitolato Stagger Lee (che racconta la storia di un omicidio tra malavitosi nel Missouri).
Death Or Glory è un pezzo punk rock per sottolineare le proprie radici musicali, il marchio di fabbrica e tracciare la strada per le generazioni future che vorranno destreggiarsi con le chitarre. Una delle melodie più accattivanti e riuscite della carriera dei Clash.
The Card Cheat è un brano un po’ ossimorico visto il corposo contributo di un pianoforte a coda, protagonista del brano quasi in duetto con la parte vocale, e della ritmica senza utilizzo di chitarre. Tutte le parti sono state registrate due volte per aumentare l’effetto coinvolgente del suono.
Lover’s Rock è un tocco glam, con Mick Jones che duetta in falsetto con Strummer e un suono molto stile Stones. Di nuovo le influenze prese poi a decenni di distanza da Libertines, Miles Kane e Strokes si sentono eccome.
Four Horseman affonda le sue radici nel rock made in UK, un misto fra Beatles e Who con un’improvvisazione finale che sfocia in I’m Not Down, dove si trovano ancora ritmiche e giri di chitarra che si sentiranno profusamente diverse decadi dopo dalle band del momento.
La conclusione dell'album arriva con Revolution Rock, una cover di un brano del cantautore e produttore giamaicano Danny Ray. Si parla di un rock rivoluzionario su una melodia dub/reggae, e questo potrebbe già bastare come spiegazione. Un pezzo emblematico per sottolineare l’importanza culturale e musicale di questo disco, l'epilogo perfetto.
E difatti doveva chiudere il disco se non fosse per l’aggiunta dell’ultimo minuto di Train In Vain (Stand By Me). Commentare quello che è uno dei brani più apprezzati dei Clash senza spendere parole già ampiamente spese è compito arduo. Raccontarne invece la storia è sicuramente più divertente. Al termine delle registrazioni, la band scrive e registra il pezzo nel giro di pochi giorni: si accorgono che funzionano e vogliono inserirlo a tutti i costi in London Calling, disinteressandosi del fatto che stampa delle copertine e dei vinili sono già avviate. Il risultato è un brano extra nel disco, non segnalato sulla tracklist e che i fan iniziano a chiamare Stand By Me visto il numero di volte in cui compare il verso nel ritornello, al contrario di Train In Vain che non viene mai pronunciato. Per questo il titolo riporta entrambe le versioni, anche perché negli States, dove il brano va fortissimo, c’è un’omonima (e famosissima) concorrenza firmata Ben E. King con cui scontrarsi non è esattamente una bella idea.
Un album spartiacque
C’è il progetto. Ci sono brani di valore assoluto. C’è l’impegno sociale. C’è l’analisi della realtà, la sensibilità verso il diverso e verso i generi musicali che evolvono. C’è la follia e ci sono decine di storie e aneddoti che portano ad ogni brano, che a loro volta sono catalogabili in diverse sezioni all’interno del disco. E soprattutto si sente chiaramente cosa sarebbe nato nei decenni successivi da questi 19 brani.
In definitiva, London Calling è uno stupendo documentario sulla situazione nel Regno Unito del passaggio tra gli anni '70 e '80. Il disco spartiacque per la loro fama immortale e per la definizione di un nuovo genere musicale. Mica poco.