K.G. King Gizzard & The Lizard Wizard
7.6

È passato solo un anno dall’ultima volta in cui riuscimmo ad incrociare una delle band più prolifiche degli ultimi anni, se non la più prolifica della scorsa decade, ossia i King Gizzard & The Lizard Wizard: allora stavano mettendo a ferro e fuoco la superficie di un Marte post apocalittico con la magistrale svolta metal del loro quindicesimo album (in soli otto anni, tanto di cappello), Infest the Rats' Nest. A distanza di una più che abbondante dozzina di mesi, i campioni dello psychedelic rock non potevano farci mancare l’appuntamento annuale con un nuovo tassello della loro immensa discografia, un ritorno del re che si manifesta nel quasi self-titled K.G..

Come a voler mettere le cifre sulle camicie dei componenti del gruppo, questo titolo, imponente nella sua semplicità, implica una sintesi stilistica di ritorno del sound per il quale la band è più nota, dall’impatto e riconoscibilità altamente immediati. Non a caso infatti, l’intera matrice di riferimento che snoda tutto il disco lungo le sue dieci tracce è la stessa scala microtonale, di derivazione orientale, che anni prima portò al successo il nono Flying Microtonal Banana del 2017, rendendo a conti fatti K.G. un seguito diretto di quest’ultimo. Quello che però è su due piedi un mero legame sonoro, rischia anche di diventare una grossa responsabilità negli occhi dei fan più accaniti di Stu Mackenzie e della sua cricca. K.G. sarà stato dunque in grado di rispettare le sue origini ed al contempo di ritagliarsi uno spazio degno di nota nella discografia degli australiani?

Non del tutto, diciamo. Se da un lato questo sedicesimo disco propone degli spunti molto interessanti, dall’altro rischia a tratti di percorrere sentieri già battuti dal gruppo, al punto da palesare i King Gizzard, maestri del trasformismo musicale, nella loro versione quanto più prevedibile, il che, sempre a seconda dei punti di vista, può risultare un pregio, ma allo stesso modo anche un difetto rispetto a come ci hanno abituati nel tempo i sei di Melbourne.

Andando con ordine, il disco si apre, ironicamente rispetto all’incipit di questa recensione, con un inception di self-titled, nella strumentale K.G.L.W., ossia due minuti scarsi di paesaggistica sonora capace di calare l’ascoltatore nelle scene dipinte dalla band, che dal precedente Infest the Rats' Nest riprenderà a livello tematico parte del catastrofismo, come rappresentato dalla successiva Automation. Quest’ultima è un esempio perfetto di come i King Gizzard riescano a modulare egregiamente le onde della scala microtonale per realizzare una traccia che sia allo stesso tempo una banger, originale, con chiare ispirazioni orientali, ma con la singolare chiave di lettura psych rock, un po’ country che solo loro sanno regalare. Un inizio piuttosto dirompente, che verrà poi appiattito dai loop esagerati, annacquati qua e là a synth, di Minimum Brain Size, brano le cui idee alla base saranno rimarcate e portate a termine, decisamente meglio, da Straws In The Wind, acustica, schietta e senza fronzoli annessi, ma comunque di ampio respiro.

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A differenza di quanto ci si possa aspettare, la seconda metà del disco cambia registro rispetto all’ultimissima combo di brani, riproponendo il sovraffollamento a cascata di beat cresciuti a fantascienza nelle dune del Sahara in Some Of Us, prima faccia di una stessa medaglia che dall’altro lato presenta la seguente Ontology. Fin qui tutto nella norma, se non fosse che grazie ad Intrasport i King Gizzard riescano anche a portare la microtonale alle soglie di un rocambolesco synth pop anni Ottanta, dai risultati (ahimé) di dubbio gusto che non convincono del tutto. Prima di concludere l’ascolto con due tracce molto caratterizzate, Oddlife ripercorre il tragitto estetico di K.G. senza eccessiva infamia o lode in modo da lasciare tutta l’attenzione per Honey e The Hungry Wolf Of Fate, l’una agli antipodi dell’altra. Da un lato abbiamo appunto Honey, il singolo di punta, un pezzo melodico principalmente acustico che tramite la sua calma, ma infaticabile precisione, si staglia anche fra i momenti più rumorosi del CD; dall’altro The Hungry Wolf Of Fate, il finale che si articola come un deciso meltdown di suoni e di cui Ozzy e i Sabbath probabilmente andrebbero fieri, oltre che un’ottima sintesi in extremis di quanto proposto principalmente dall’album.

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Per chiunque sia fan o almeno apprezzi la versatilità dei King Gizzard, K.G. è infatti una buona aggiunta alla discografia della band stessa, pur ammettendo che non sia una sorpresa compositiva e qualitativa come fu, per esempio, il precedente Infest the Rats' Nest. Reiterando lo stesso concetto, K.G. è semplicemente più King Gizzard in cuffia, il che è sempre un bene. La scala microtonale, ormai meme di sé stessa a questo punto della recensione, si presta magnificamente alla creatività di Stu&Co. e le idee, gli spunti o i dettagli non mancano di certo durante l’ascolto. Ma per tutti gli altri invece? Per chi dal canto suo non segue i King Gizzard? K.G. suona esattamente come un riassunto molto ampio e vago dei KG&LW degli ultimi tre o quattro anni, passando attraverso le sonorità e i temi di Flying Microtonal Banana e anche un po’ per quelli di Fishing For Fishies, senza mai avere quel quid in più che lo porti alla fantomatica “spanna sopra”.

Ma visto che allora i King Gizzard & The Lizard Wizard non disdegnano l’idea di fare sequel spirituali ai loro lavori precedenti, permettetemi di lanciare un appello: cari KG&LW, a quando un Eyes Like The Sky 2.0? Grazie.