Ty Segall, protettore del sound garage e Lo-Fi, è tornato. Questa volta ad accompagnarlo sono i suoi Fuzz, trio già segnalato qualche settimana fa quando su queste pagine si parlava della scena alternative americana. Derivando non a caso il nome dall’omonima distorsione che fa leva sull’ovattatura stilistica dei suoni, i Fuzz incanalano l’estro creativo del magico Ty, qui voce dietro alla batteria del gruppo, in una spirale progressive rock che strizza l’occhio ai Sabbath di Ozzy e, più in generale, ad una scuola di pensiero musicale racchiusasi volontariamente in una sfera ante metal a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.
Sin dai loro primi due album d’esordio infatti, i Fuzz avevano sempre messo le mani avanti rispetto ad eventuali critiche nei loro confronti, sostenendo che non fossero il gruppo destinato a reinventare il genere, ma anzi quello che deliberatamente ne recuperava la tradizione come personale omaggio, quanto bastasse almeno a fonderne la forza motrice. Questa precisa volontà di muoversi controcorrente è nuovamente presente in III, terzo disco della band uscito lo scorso venerdì 23 Ottobre per In the Red Records. Impossibile non menzionare a tal proposito la copertina (si suppone o si spera) ironica dell’album stesso in stile boy band di antieroi, quasi controfigure per i cattivi di un Final Fantasy perso nei meandri del Millenium Bug.
In ogni caso, qui si parla di rock’n’roll e l’unica legge vigente, d’ispirazione cartacea, nelle recensioni è che non si giudica un disco dalla copertina. Andiamo ai fatti. Come ci si poteva aspettare, III è un concentrato di pezzi schietti, tosti e concatenati tra loro in un unico fuoco di fila che non propone né filler né interruzioni, sfoderando tutto quello che ha da offrire in 36 minuti, articolati lungo otto diverse tracce di conformazione esclusivamente analogica nella triade batteria-chitarra-basso. Ma è tutto oro quello che luccica? Parliamone. Se da un lato infatti la compattezza di fondo possa sembrare in grado di unificare l’insieme in maniera armonica, dall’altro questa impacchetta con il fil di ferro un album, ahimè, difficile da digerire tutto d’un fiato al primo ascolto, a tratti eccessivamente stagnante in una comfort zone che viaggia a braccetto con l’odiata monotonia.
Colpevole di questa pecca non è tanto la produzione o gli strumenti, che suonano e si sentono perfettamente, quanto invece una scrittura di base che non osa mai e quindi non concede all’ascoltatore quella sensazione di “wow, riavvolgiamo un attimo per risentire”. Sì, una critica che, come detto in apertura, potrebbe trovare risposte nella natura stessa della band, non volta a dar voce alla sperimentazione per le quali Ty Segall è noto, ma che diventa concreta nel momento in cui si considera quella scintilla di stacco inventivo in più presente nei due precedenti lavori dei Fuzz. Così, dove l’album copre in ampiezza di spettro, diventa invece carente di profondità e l’analisi per forza di cose si sposta dal micro al macroscopico, complici canzoni prive di chissà quale significato e che di risposta prediligono un ascolto spensierato e di cornice, una volta messe a manetta sullo stereo.
III alza appunto il proprio sipario sulle note del primo singolo estratto, Returning, brano manifesto del disco e dall’incalzare deciso, mai titubante e capace di mettere in chiaro l’intero album: protagoniste saranno ottave basse, pesanti e che contrappongono ai riff di chitarra una batteria infaticabile. Quest’ultima quindi darà poi il là perché parta la seconda Nothing People, traccia alquanto ritmata e che insieme alla precedente vale l’ascolto del CD. I problemi iniziano a scaturire già con la successiva Spit, quando i motivi dell’opener Returning vengono ricalcati nettamente anche attraverso la voce di Segall, palesando quel senso di fatica accennato sopra. D’altro canto però, Time Collapse ne frena l’operato grazie alla sua struttura tipicamente progressive rock snodata su ben sei minuti, al punto che non sfigurerebbe nei due album precedenti dei Fuzz.

Il secondo lato di III parte con Mirror, canzone dal taglio nettamente più rapido, ma meno incisivo e sulla medesima lunghezza d’onda di Spit, cosicché, arrivati a questo punto pare seriamente che l’album non abbia nulla di diverso da offrire. I timori non tarderanno ad essere confermati: le seguenti Close Your Eyes e Blind To Vines riprenderanno per l’ennesima volta le modularità di quanto ascoltato precedenza, dimenticandosi di mettere in luce qualsivoglia novità o colpo di scena degno di menzione.
Alla conclusiva End Returning spetterà di conseguenza il compito di chiudere questo cerchio, una manovra delicata, ma fortunatamente portata a termine riprendendo come a metà LP i caratteri progressivi del disco d’esordio, contrapponendo dunque composizioni più elaborate a quelle antecedenti in scaletta. Tuttavia, nel vocabolario dei Fuzz il concetto di smentirsi a quanto pare non esiste e, con una mossa tanto, ma veramente tanto, old school negli ultimi quaranta secondi del disco i tre mutano il riff del brano conclusivo affinché diventi quello della prima canzone, Returning, ripetendone sia verso che coro. Una scelta innegabilmente pacchiana, che non si vedeva da tempo e che per quanto criticabile lega nella sua interezza III, evidenziandone il maggior pregio e il più grave difetto: inseguendo un’assonanza sistematica, i Fuzz hanno realizzato un album che, a parte lampanti momenti di stallo, suona coeso e conforme alle loro prerogative, nel miraggio però di una sicurezza che sfuma quando si prendono le canzoni nella loro singolarità.

Le sperimentazioni garage e punk rock di Ty Segall, sia come solista che all’interno di gruppi, hanno sempre potuto vantare quel distinto fattore sorpresa che sapesse trattenere l’ascoltatore col fiato sospeso nello scoprire fin dove potesse essere piegato il sound. Tolte quest'ultime dall'equazione, il risultato è un album che non riesce a lasciare segno, non solo sul panorama musicale, ma anche all'interno della discografia ormai tripartita della band. Nonostante i Fuzz siano per antonomasia il gruppo dove l'artista californiano resti maggiormente con i piedi per terra, III è un lavoro che rischia e ispira poco, giocando una mano già vista rispetto le carte in tavola, seppur l'output finale sia (nel complesso) comunque apprezzabile. Ma del resto si sa: chi non risica, non rosica. Innegabile dire che da Ty ci si poteva aspettare qualcosa di più. A partire dalla copertina, dettaglio che a questo punto possiamo aggiungere alla lista.